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La cura comunque. Il lavoro domestico straniero nel contesto palermitano

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2014 @ 01:50 In Migrazioni,Società | 1 Comment

copertina castronovo   di    Antonella Elisa Castronovo

Il contributo che qui proponiamo intende offrire una riflessione sull’impatto che il modello mediterraneo di inclusione lavorativa dei migranti ha prodotto sugli equilibri di genere e sulla relazione tra autoctoni e stranieri. Il lavoro punterà ad indagare le dinamiche occupazionali individuabili nel settore dei servizi alle famiglie, nel quale molte donne e uomini immigrati trovano collocazione spesso in condizione di estremo svantaggio economico e di profonda precarietà lavorativa.

Dopo aver illustrato le ragioni del protagonismo dei cittadini stranieri nell’ambito del lavoro riproduttivo, lo studio scenderà nel dettaglio del capoluogo palermitano, esaminando le performance delle lavoratrici e dei lavoratori migranti in questo segmento. L’analisi sarà accompagnata dagli stralci più significativi di alcune interviste in profondità raccolte a Palermo nel periodo compreso tra aprile e luglio 2014 e rivolte sia a stakeholder – tra i quali, sindacalisti impegnati nel settore dell’immigrazione, avvocati, giuristi e altri interlocutori privilegiati selezionati sulla scorta del ruolo da essi svolto nella tutela del lavoro e dei diritti umani –, sia a donne e a uomini di origine straniera impiegati nel campo della cura e dell’assistenza domiciliare.

Lavoro di cura, migrazioni internazionali e tradizioni locali di welfare

Come documentano le ricerche nazionali e internazionali sul tema (Ilo 2013), il processo di mercificazione della cura – in atto nelle società contemporanee ormai da qualche decennio – ha accentuato il ruolo della manodopera immigrata nel settore del “terziario umile” (Gorz 1992), producendo conseguenze significative sulle scelte riproduttive delle famiglie, sulla domanda dei servizi e sul mantenimento al proprio domicilio degli anziani (Catanzaro e Colombo 2009:. 9). Con un trend che ha registrato un sensibile aumento a partire dagli anni ’90 (Ilo 2013), a uomini e a donne di origine straniera è stato delegato non soltanto la cura della casa, ma anche l’attività di assistenza domiciliare dei bambini e delle persone anziane o malate. Le tradizioni locali di welfare hanno influito sulle modalità con le quali si è configurata questa delega. Mentre alcuni Paesi europei, specie quelli dell’area scandinava, hanno impiegato il personale straniero principalmente nei servizi formali; altri Paesi, in particolare quelli dell’Europa mediterranea, hanno invece individuato nelle famiglie il luogo nel quale trasferire le prestazioni occupazionali dei migranti (Del Re 2013:107), concedendo sia a questi ultimi, sia ai datori di lavoro ampi margini di informalità nei rapporti di lavoro.

1In Italia, i consistenti flussi di donne dall’Est Europa dopo la caduta del muro di Berlino hanno fatto in modo che l’impiego di assistenti domiciliari di origine straniera non venisse più considerata una strategia temporanea, bensì “la soluzione” al problema della cura familiare (UniCredit Foundation 2013:. 19). La cospicua presenza di immigrate – spesso primo migranti, prive di legami familiari, bisognose di una casa nella quale vivere e con un progetto migratorio orientato alla promozione sociale dei figli rimasti nel Paese d’origine – ha risposto ad una richiesta implicita della società civile che deve essere letta nel quadro della «formazione di un sistema di welfare parallelo, largamente informale, governato dalle famiglie e tollerato dai poteri pubblici» (Ambrosini 2013:. 11). Come è noto, tale domanda è stata in larga misura stimolata dal concorrere di due fenomeni. Per un verso, l’ingresso delle donne italiane nel mercato del lavoro salariato ha consentito loro di svincolarsi dal ruolo non riconosciuto e non retribuito di mogli, di madri e di figlie che le aveva per molto tempo isolate entro i confini domestici. Per altro verso, il carattere familistico del welfare nazionale (Esping-Andersen 2000), basato in larga misura sui trasferimenti di reddito agli individui e fondato su una delega implicita alle famiglie, ha continuato a collocare in una posizione di centralità il lavoro “invisibile” delle figure femminili, assegnando a queste ultime il compito quasi esclusivo di provvedere alle esigenze di assistenza domiciliare. Il care gap che ne è derivato è stato colmato da un processo di ampia ristrutturazione del lavoro riproduttivo a livello globale, che non solo ha consentito alle donne locali di portare a compimento il proprio percorso di emancipazione attraverso una “rivoluzione post-femminista” (Andall 2000); ma che ha anche implicitamente permesso ai governi di risparmiare sulla spesa pubblica, inducendo i cittadini a trovare soluzioni private alla domanda di servizi di cura. Sotto questa luce, il ricorso al lavoro salariato di altre figure femminili esterne all’unità domestica è servito ad occultare le carenze di un’organizzazione sociale che, ricalcando i modelli del passato, ha costretto – e costringe ancora oggi – le donne a mediare tra i compiti domestici e un mercato occupazionale sfavorevole (Naldini e Saraceno 2011).

La richiesta di manodopera straniera da impiegare nell’ambito del care è stata a sua volta alimentata dalla crescita di un’offerta caratterizzata da prezzi contenuti e da un’elevata disponibilità ad adattarsi a condizioni di impiego particolarmente ingrate. La presenza crescente di donne migranti in Italia è stata tale da aprire spazi di mercato altrimenti più contenuti, con il risultato di consentire ad una fascia sempre più ampia di popolazione – in taluni casi, persino alle classi popolari – di poter disporre di figure professionali che erano prima appannaggio solo di una ristretta élite (Ambrosini 2013: 87). L’inserimento del personale immigrato è avvenuto attraverso l’intermediazione delle famiglie e in una cornice legislativa dalla scarsa capacità previsionale che ha favorito l’informalità dei rapporti di lavoro. Accanto ai processi spontanei, prodotti dalle strategie collettive e individuali dei cittadini stranieri, un ruolo rilevante in tal senso è stato esercitato dalle politiche migratorie che hanno contribuito a selezionare le dimensioni e le forme delle migrazioni internazionali verso il Bel Paese, finendo con il generare il modello che ci troviamo ora di fronte (Catanzaro e Colombo 2009: 26). Tracce di tale orientamento fortemente selettivo sono rinvenibili sin dalla fine degli anni Settanta con la mini-regolarizzazione avvenuta in Italia con l’obiettivo di aggirare le regole poco realistiche di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Ma è soprattutto a partire dal 2005 che la programmazione dei flussi di ingresso ha cominciato ad assecondare in modo sempre più visibile il bisogno della società civile di reclutare lavoratrici domestiche, «nel tentativo di mantenere stabile un modello di welfare su cui pesano sempre di più i cambiamenti socio-demografici e che si basa sul ruolo assai marcato delle famiglie» (ivi: 28).

2 Una complessa dinamica di classe-razza-genere caratterizza i nuovi lavoratori domestici etnicizzati (Colombo 2007). La letteratura nazionale e internazionale ha dedicato pagine molto interessanti ai nuovi rapporti gerarchici creatisi nell’ambito del settore domestico, collocando lo studio della cura salariata nel quadro della divisione internazionale del lavoro riproduttivo. Lungi dal voler ricostruire tale dibattito, ci limiteremo a sottolineare come la mercificazione del care abbia prodotto conseguenze sugli assetti societari dei Paesi ospitanti che è il caso di menzionare sinteticamente. In primo luogo, essa ha trasformato la casa in un luogo di lavoro, con implicazioni notevoli in termini di negoziazione da parte dei lavoratori e degli assistiti tra la dimensione professionale e la sfera relazionale-affettiva (Anderson 2004). In secondo luogo, il lavoro di cura delle donne migranti ha inciso sugli equilibri intrafamiliari, riproducendo all’interno dell’unità domestica un «microcosmo di diseguaglianze sociali» (Lan 2003), nel quale alla tradizionale asimmetria di potere tra maschio e femmina si è aggiunta quella tra cittadini locali e stranieri. Per dirla con Parreñas (2001: 78), le donne locali, incapaci di negoziare con la parte maschile, hanno utilizzato i vantaggi derivanti dalla loro posizione di “classe e di razza” per demandare ad altre donne meno privilegiate il carico di lavoro derivante dal loro vincolo di genere.

La cura salariata dei cittadini migranti a Palermo

Lo studio delle caratteristiche con le quali si configura la cura salariata a Palermo ci consente di approfondire alcuni aspetti sociali e culturali del lavoro domestico migrante che sono emersi sino a questo punto dell’analisi.

Il capoluogo regionale rappresenta il polo di attrazione principale, raccogliendo al proprio interno il 20,9% dei cittadini stranieri che hanno scelto di vivere in Sicilia (Dati Istat 2012. Elaborazione nostra). A fronte della rilevante capacità di richiamare i cittadini stranieri, l’economia locale offre prospettive di occupazione abbastanza limitate. Le donne e gli uomini appaiono prevalentemente impiegati nel comparto dei servizi, svolgendo mansioni a basso skill in segmenti del mercato del lavoro che sono di quasi esclusivo appannaggio della manodopera immigrata. Nell’ambito del settore terziario, il segmento della cura e dell’assistenza domestica costituisce il bacino di impiego più significativo per la popolazione migrante. Stando alle stime elaborate dalla Fondazione Leone Moressa su dati Inps del 2011, l’incidenza dei lavoratori stranieri presenti nel comparto dell’assistenza alle famiglia si attesta ad un valore pari al 71,4% sul totale dei cittadini immigrati occupati nella provincia palermitana.

Come hanno illustrato alcuni studi nazionali (Fullin, Reyneri e Vercelloni 2009), l’impiego nell’ambito familiare risente molto delle differenze territoriali della penisola italiana, presentando soprattutto nelle regioni meridionali condizioni di lavoro spesso precarie e irregolari. Volendo entrare nel merito di tali condizioni, sono risultate assai interessanti le testimonianze degli stakeholder e dei cittadini stranieri che, interrogati sui vari aspetti del lavoro migrante, ci hanno consentito di raccogliere alcune informazioni di prima mano sull’attività di cura salariata a Palermo. I nostri interlocutori privilegiati hanno sottolineato come la distanza tra le posizioni professionali ricoperte dai lavoratori locali e le mansioni svolte dai migranti sia tale da confermare anche nel capoluogo palermitano il noto dualismo tra un mercato del lavoro primario ed un mercato del lavoro secondario:

«Noi qui parliamo di settori nei quali gli italiani neanche si avvicinano. Nella maggior parte dei casi i migranti lavorano più dell’italiano, vengono pagati meno dell’italiano. Ti puoi dimenticare i festivi. Le ferie le ottieni una volta l’anno. Gli straordinari non esistono neanche per idea» (N., Cisl).

In un contesto sociale nel quale il peso dell’economia informale ha raggiunto livelli particolarmente elevati, la presenza dei lavoratori stranieri, spesso in condizioni economiche e giuridiche assai incerte, ha creato i presupposti per consolidare una vera e propria “cultura del non diritto”:

«C’è una cultura tale per cui l’immigrato diventa il “luogo del non diritto”, per cui lo posso fare! Il problema vero è che a Palermo non esiste una “cultura del diritto” e gli stranieri ne sono le vittime principali perché destinati a rimanere sempre in basso» (Z., Cgil).

«Per un lavoro 24 ore su 24, con il giovedì pomeriggio e la domenica libera, la media è dai 600 ai 650 euro. I rumeni hanno abbassato il costo del lavoro in agricoltura e nel settore di cura» (N., Cisl).

«Sulla carta ti risulta tutto quanto perfetto, in realtà la colf o la badante fa molte più ore settimanali rispetto a quelle che vengono effettivamente dichiarate» (A., avvocato).

Sotto questa luce, il lavoro di cura dei migranti, articolandosi nel chiuso delle mura domestiche, si configura come un settore produttivo particolarmente “a rischio”:

«Il settore domestico è sicuramente a rischio perché non prevede il licenziamento per giusta causa. Si tratta di uno dei settori a “diritti ridotti” […] Fino a quando non ci saranno delle indicazioni normative più chiare o delle sentenze che chiariscano la valenza di una denuncia, un avvocato difficilmente consiglia al suo assistito di fare una denuncia penale se c’è il rischio che rimanga la tua parola contro la sua. Si fa una causa di lavoro civile per il riconoscimento delle spettanze economiche dovute, a meno che non ci siano casi di riduzione in schiavitù, come mi è capitato. L’approccio è quello civilistico come faresti con un qualsiasi altro lavoratore» (D., avvocato).

«Se parliamo, ad esempio, di lavoro domestico i sindacati riescono a garantire alle persone che lo chiedono una qualche tutela, a seguito ad esempio della fine anticipata di un rapporto, a seguito di un licenziamento, etc. e questo anche per il badantato. Questo ovviamente dipende molto dalle condizioni soggettive della persona: bisogna capire se è nella condizione di reggere un procedimento, di rimanere in Italia stando fuori dal rapporto di lavoro perché è chiaro che tu poi cominci a “sollevare problemi” rischi di essere escluso dal mercato del lavoro perché – se ci sono scambi di informazioni, di referenze – sei visto come una persona “problematica”. Poi, per altri aspetti, il settore domestico rappresenta certamente un settore “a rischio”, per problemi di natura di abuso sessuale, di sfruttamento, per utilizzo di ore lavorative superiore a quelle del contratto» (F., avvocato).

Pur tenendo conto del fenomeno noto in letteratura come “acquiescenza di risposta” (Marradi e Gasperoni 2002: 127), le condizioni di marginalità sociale e di svantaggio economico dei lavoratori domestici appaiono chiare anche dalle testimonianze dei migranti intervistati:

«Ho provato a cercare lavoro come saldatore a Palermo, ma ho solo trovato da lavorare come badante. Qui non importa se hai fatto corsi, se conosci tre lingue, se hai una laurea. Servi solo per lavorare a casa. Bene hai laurea, tu mi servi a casa. Hai mai visto qui persone di colore lavorare in negozi o ristoranti? Pochi…novanta su cento fanno i badanti» (S., Mauritius, 52 anni).

«All’inizio mi ha trattato bruttissimo perché io non parlavo italiano. Poi altre persone mi trattavano male, loro mi dicevano “vattene”. Poi io ho studiato piano piano, guardato televisore. Io non ho mai studiato italiano a scuola. Mi sentivo solo. Ognuno ha bisogno compagna, come genitori, affetto. Ci vuole qualcuno come parenti. Per questo io sentito molto solo, sentito male perché lavoro pesante, gente cattiva» (S., Sri Lanka, 38 anni).

«Ho sempre lavorato a casa. Ho fatto la badante, ho fatto pulizie, baby sitter. Io ho cercato tantissimi lavori e ho fatto tantissimi corsi, ma ho sempre trovato solo lavoro a casa. Ho cercato lavoro anche come traduttrice o mediatrice perché io parlo francese, italiano e inglese, ma niente. Ho cercato altri lavori anche per potermi integrare nel mondo, non fare pulizie, però se non hai relazioni non puoi accedere ad altri lavori. Io faccio pulizie o badante, ma se io potessi scegliere tra questo tipo di lavoro e un altro lavoro io sceglierei l’altro. Io ho un buon livello di istruzione, ho fatto tanti corsi, so tantissime cose, ma sono qua» (Th., Guinea, 30 anni).

In linea con quanto evidenziato dalla letteratura sul tema (Ambrosini 2013), il disagio degli assistenti familiari trova espressione anche nella difficoltà di tenere separati i tempi liberi dai tempi di lavoro, con conseguenze che incidono pesantemente anche sulle scelte familiari delle donne migranti:

3«I miei giorni liberi erano il giovedì mezza giornata e la domenica, ma quando vivi a casa non hai spazi tuoi. Non hai il tempo per te o per la tua famiglia. Io la domenica dovevo andare via alle 8, ma loro mi davano sempre cose da fare prima. Io uscivo più tardi. Quando rientravo più tardi perché l’autobus portava ritardo loro mi sgridavano. Ai tempi non avevo figli, avevo solo un marito, quindi potevo fare qualche sacrificio» (Th., Guinea, 30 anni).

«Sì, avevo la mia stanza, ma potevo uscire solo quando veniva moglie domenica. Non puoi fare altre cose. Vedevo mia moglie solo un giorno la settimana. Non puoi fare quello che ti va. Lavori sempre, anche la notte. Ero molto stanco prima, molto magro» (S., Mauritius, 52 anni).

La dimensione della discriminazione e, talvolta, persino dello sfruttamento lavorativo appare ancora più difficile da individuare poiché si mescola al rapporto di fiducia e al sentimento di affetto nei confronti dei datori di lavoro:

«Mi hanno trattato poi come uno di famiglia, ma niente giorni liberi, niente contratto, niente ferie pagate» (S., Sri Lanka, 38 anni).

«Loro non capivano che molte cose io le facevo perché c’era affetto […] non avevo più miei spazi. Io il giovedì dovevo scendere e loro non sopportavano questo, non sopportavano neanche piccoli ritardi» (Th., Guinea, 30 anni).

Le testimonianze che abbiamo riportato forniscono una mole di sollecitazioni che non è possibile esaurire nelle poche pagine a nostra disposizione. Esse, tuttavia, ci consentono di sottolineare in termini conclusivi come, nel quadro del modello mediterraneo di inclusione lavorativa dei migranti, la Sicilia stia sempre più connotandosi come una delle regioni con la capacità ridotta di trattenere al proprio interno la popolazione straniera. Le condizioni di debolezza strutturale delle donne e degli uomini immigrati si iscrivono all’interno di una cornice sociale che ha visto prevalere le esigenze low cost (Pastore, Salis e Villosio, 2013) del mercato del lavoro ad una genuina inclusione della componente non autoctona nel tessuto connettivo del Paese. Il rischio è pertanto che, nonostante la presenza ormai storica di collettività straniere, per una buona parte di migranti che vi giungono la nostra Isola si configuri come una semplice zona di transito e di smistamento verso altre aree più promettenti del Paese, con evidenti conseguenze sul piano sociale e culturale, oltre che meramente economico.

Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
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Antonella Elisa Castronovo, giovane laureata in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Palermo, è attualmente dottoranda di ricerca in Storia e Sociologia della Modernità presso l’Università di Pisa e collabora alle attività di indagine del Dipartimento ” Culture e Società” della Scuola delle Scienze Umane e del Patrimonio Culturale dell’Università di Palermo. Tra i suoi interessi di ricerca, lo studio delle migrazioni nel mercato del lavoro italiano e l’analisi dei processi di rappresentazione politico-mediatica della “vicenda Lampedusa”. Su questi temi ha già pubblicato numerosi saggi in volumi collettanei.

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