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Jamil Holway: un siro-americano in dialogo con il diavolo

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Banchetto in onore di Kahil Gibran, Hotel McAlpin, New York, 1929

di Francesco Medici

Il 5 gennaio 1929, presso l’hotel McAlpin di New York, fu organizzata una cena di gala per festeggiare i venticinque anni di carriera artistico-letteraria di Kahlil Gibran (Ğubrān Ḫalīl Ğubrān, 1883-1931) cui presero parte circa duecento invitati. L’ospite d’onore – che nella fotografia ufficiale compare in fondo alla sala, proprio sotto il dipinto appeso alla parete, seduto a destra della bandiera a stelle e strisce – ascoltò commosso i discorsi di encomio di molti illustri esponenti della comunità siro-americana. Il numero di febbraio 1929 del mensile «The Syrian World», nel riferire dell’importante evento, annovera tra gli oratori di quella memorabile serata anche un certo ‘Jamil P. Holway’ [1], un nome oggi pressoché dimenticato, ma assai noto all’epoca ai lettori di quotidiani e periodici in lingua araba pubblicati negli Stati Uniti. Alcune fonti lo citano addirittura come uno dei più eminenti letterati siriani d’emigrazione, benché egli abbia operato al di fuori del ristretto circolo poetico gibraniano [2].

Ǧamīl Buṭrus Ḥulwah nacque a Damasco il 15 agosto 1883. Nel 1903, dopo essersi laureato in legge a Beirut presso il Syrian Protestant College (l’attuale American University of Beirut), raggiunse a Chicago, nell’Illinois, i genitori Buṭrus Līūn Ḥulwah e Zaynah Ḥaǧǧār, già emigrati tempo prima negli Stati Uniti, dove il suo nome venne registrato come Jamil Boutros (Peter) Holway. Negli anni seguenti viaggiò attraverso diversi Stati del sud quali Missouri, Texas, Louisiana, Tennessee. Nel 1907 venne assunto dal Governo federale statunitense come interprete e ispettore per l’Ufficio Immigrazione. Intanto le sue collaborazioni sempre più frequenti con la stampa arabo-americana gli fecero guadagnare una popolarità crescente tra i suoi compatrioti residenti in America. Nonostante la formazione giuridica, la passione letteraria di Holway è testimoniata da molti suoi articoli, in uno dei quali si legge:

«La poesia è il mezzo più sublime ed efficace per trasmettere conoscenza ed emozioni perché capace di far vibrare le corde del cuore e penetrare l’animo umano, e nello stesso tempo, con un tocco della sua bacchetta magica, di destare anche le menti atrofizzate. Con la poesia e la scrittura in versi, l’uomo ha scoperto la maestà della propria essenza e la sua posizione preminente tra le altre creature. A mio parere, il primo scopritore di quest’arte eccelsa meriterebbe onori ben più alti di qualsiasi altro scopritore o inventore […]. La grandezza di una nazione risiede in coloro che la popolano […]. Secondo me, i migliori, i più onesti e intelligenti tra loro sono i poeti e gli scrittori. Private una nazione dei suoi poeti e dei suoi scrittori, e vedrete allora che essa perderà immediatamente ogni prestigio e dignità» [3].
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Jamil B. Holway

Nel 1918, rassegnate le dimissioni dal suo impiego presso l’Ufficio Immigrazione, Holway iniziò ad esercitare la professione di avvocato e il 23 dicembre dello stesso anno sposò la conterranea Mary Hakim (Mārī Ḥakīm, 1893-1974), da cui ebbe quattro figli: Josephine, Edmund, Floyd e Theodore. Nel 1928, insieme alla famiglia, si trasferì a Brooklyn, New York, dove trascorse il resto della sua vita. Durante il secondo conflitto mondiale lavorò alla campagna di propaganda “Fight for Freedom” per conto dell’U.S. Office of War Information. Si spense a Brooklyn il 14 febbraio 1946 e le sue spoglie furono tumulate presso il Green-Wood Cemetery.

Non avendo mai dato alle stampe alcuna raccolta poetica, i versi di Holway sono andati in larga parte probabilmente perduti. Tra le altre, due delle sue liriche si sono preservate grazie alle traduzioni dall’originale arabo in inglese di George Dimitri Selim incluse nell’antologia di poeti siro-americani Grape Leaves. Del più suggestivo di tali componimenti, dal titolo al-Šayṭān (Satana) [4] – un’amara riflessione sulla follia della guerra e sulla barbarie umana –, si fornisce di seguito un’inedita traduzione in italiano:

 Satana mi venne in sogno una notte,
tutto smanioso di conversare con me.
Mi si accostò con le sue corna spaventose
e i suoi terribili occhi fiammeggianti.
«Vattene!» gridai. «Sparisci, maledetto!
Non disturbare la mia quiete».
«Sono venuto a farti visita» mi disse
«per offrirti il mio sapere, la mia sagacia e la mia esperienza.
Rispondi a questa semplice domanda: tu chi sei?».
«Sono uno dei saggi della terra» risposi,
«non hai mai sentito parlare di me?
I miei versi sono noti in tutto il mondo,
non li conoscete anche laggiù all’inferno?».
Quando udì le mie parole di sfida,
Satana scoppiò in una risata di scherno e stupore.
«C’è forse una qualche speranza di saggezza nel vostro mondo,
oppure di un briciolo d’umanità tra la sua gente malvagia?
Se gli uomini fossero onesti,
canterebbero le mie lodi nei loro cuori.
Nel momento stesso in cui li ha creati,
Dio sapeva che Gli avrebbero disobbedito per l’eternità.
Così ha inventato per loro l’inferno
e ha scelto me per punirli e vendicarsene.
È per colpa loro se sono stato gettato nell’abisso,
perdendo il mio potere, la mia autorità e il mio rango.
Nella disputa tra Lui e loro fui dunque io a rimetterci.
Che siano dannati per sempre!
Ma no, non li spaventarono le fiamme dell’inferno,
né trassero insegnamento dalla mia caduta.
Perseverarono invece sulla via della perdizione,
non concedendo requie né a Dio né a me.
Da quando poi hanno reso la terra stessa un inferno,
il mio regno è vacante di diavoli:
abitano tutti nelle anime depravate degli uomini!
Non li vedi come sono schiavi di carburante e vento,
mentre volano nel cielo come uccelli impazziti,
facendo piovere fuoco sui loro simili,
incuranti dell’altrui dolore e distruzione?
Non li vedi come si dibattono per il mondo,
inquieti come leoni e leopardi in gabbia?
Non li vedi dare la caccia alle balene,
seminare morte in ogni dove
e devastare perfino il fondo dei mari?
Come ha potuto Mosè soltanto pensare
che, quando l’universo ebbe inizio,
il Signore abbia creato l’uomo a Sua immagine?
Muoio di vergogna, credimi,
quando essi professano di essere miei devoti».
Al culmine della rabbia,
lo scacciai a pedate per aver ingiuriato il genere umano.
Ma l’indomani, al mio risveglio,
quando diedi una scorsa ai giornali del mattino,
la vita mi apparve davvero come un fiume di fuoco
in mezzo a un inferno di atrocità e orrore.
Allora dovetti ammettere a me stesso:
«Per quanto paradossali potessero sembrare,
le parole di Satana erano veritiere».
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Frontespizio del Manuale di Holway

La fama di Holway come autore non è tuttavia ascrivibile né alle sue poesie né ai suoi contributi giornalistici, bensì alla sua unica opera edita in volume, al-Muhāǧir al-Sūrī (Il migrante siriano), un opuscolo in arabo pubblicato nel 1909 a New York recante come eloquente sottotitolo: «Cosa deve sapere e cosa deve fare» [5]. Si tratta di un vero e proprio manuale pratico, redatto a beneficio di tutti coloro che, provenienti dalla provincia ottomana della Grande Siria (in particolare dai territori di Monte Libano, Siria e Palestina), salpavano per l’America. Lo scopo del libriccino era quello di informare i lettori circa i loro diritti in terra straniera, dispensare loro una serie di utili consigli e fornire nozioni specifiche sugli usi e costumi americani.

Le leggi degli Stati Uniti in materia di immigrazione, allora come oggi, erano molto restrittive. Sbarcati sull’isolotto di Ellis Island, nella baia di New York, i migranti erano sottoposti a severi controlli. La selezione si atteneva a rigidi criteri concernenti soprattutto l’afferenza etnico-razziale e la confessione religiosa dei neoarrivati. A tale proposito Holway ammoniva i siriani di affermare con risolutezza dinanzi ai funzionari americani le proprie origini semitiche, se non addirittura fenicie, al fine di essere identificati come appartenenti alla privilegiata «razza bianca». Secondo l’autore, molti respingimenti che si verificavano presso la famigerata ‘Isola delle Lacrime’ erano infatti dovuti sia alla sprovvedutezza degli stessi migranti siriani, inconsapevoli tanto del loro lignaggio quanto delle prescrizioni da osservare, sia all’ignoranza degli impiegati locali, spesso totalmente incapaci di distinguere, ad esempio, un arabo da un turco (poiché in entrambi i casi risultanti come sudditi della Sublime Porta), un musulmano da un cristiano.

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Colonia siriana, Washington street, New York 1895

Nel suo opuscolo Holway consiglia ai siriani di imbarcarsi a Beirut, raccomandando loro di procurarsi tutti i documenti necessari insieme a una somma di denaro sufficiente a pagare ogni sorta di dazi, tasse e permessi, nonché per ottenere l’esonero dalla coscrizione – pena il sequestro del passaporto e in alcuni casi perfino l’arresto, ancor prima della partenza. I migranti dovevano poi guardarsi da truffatori, imbroglioni e sciacalli, sempre in agguato ad ogni scalo (Napoli, Marsiglia, Boulogne-sur-Mer, Rotterdam…) e durante le traversate, del Mediterraneo prima e dell’Atlantico poi: approdare negli Stati Uniti a corto di quattrini avrebbe significato essere bollati come «parassiti» e di conseguenza essere immediatamente rispediti indietro a spese delle stesse compagnie navali, le quali, naturalmente, dettavano a loro volta norme ferree ai passeggeri di terza classe, richiedendo a questi ultimi, come garanzia, salate caparre e cauzioni fin dall’acquisto dei titoli di viaggio.

Anche la prevenzione sanitaria costituiva una condizione necessaria per gli sbarchi, ed era il personale dei piroscafi, per ovvie ragioni, ad occuparsi di sottoporre i migranti a costanti fumigazioni nel corso dell’intera tratta marittima. Holway descrive nel dettaglio le visite mediche che essi dovevano subire non appena giunti a Ellis Island e stila un elenco accurato di quelle patologie e infezioni in merito alle quali le leggi statunitensi sull’immigrazione erano più intransigenti, soffermandosi in particolare sul tracoma dell’occhio, malattia infiammatoria allora assai diffusa in Africa e in Medio Oriente ed estremamente contagiosa.

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Bambini siriani a New York, 1910

Agli inizi del XX secolo, ottenere l’ingresso negli Stati Uniti – avvertiva Holway – non era però che l’inizio di una fase ancora più dura per i migranti, cioè il difficile ambientamento in terra americana e il complicato iter per l’acquisizione della cittadinanza. Ma come dimostrarsi ‘degni’ immigrati? L’autore narra alcuni aneddoti esemplificativi di cui era venuto a conoscenza, menzionando sia i casi più fortunati sia quelli più infausti, e concludendo che chi intendeva naturalizzarsi doveva costruirsi oltreoceano un’identità specchiata soprattutto attraverso una condotta limpida e virtuosa. Era consigliabile disporre di contatti fidati con aziende e potenziali datori di lavoro già prima di imbarcarsi per il Nuovo Mondo. Presentarsi alle autorità statunitensi muniti di una lettera di referenze rappresentava senza dubbio uno degli espedienti più efficaci per passare i controlli. Ciò spiega perché al-Muhāǧir al-Sūrī includa anche una nutrita sezione di recapiti e numeri telefonici delle più svariate ditte, fabbriche e imprese allora attive a New York.

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Little Siria (in giallo), Manhattan, New York

Gli immigrati di lingua araba, come tutti gli altri, nei primi tre anni di soggiorno, dovevano sempre essere pronti a ricevere le visite di funzionari incaricati di ispezionare i loro alloggi e verificare le loro condizioni di vita e di lavoro. Trascorso tale ‘periodo di prova’, altri cinque anni di sorveglianza governativa erano previsti per i richiedenti la cittadinanza statunitense. Attenzione particolare era inoltre riservata ai bambini, il cui stato di buona salute e la regolare frequenza a scuola erano oggetto di sistematici accertamenti. Gli adulti, dal canto loro, erano caldamente invitati ad iscriversi a corsi serali di alfabetizzazione alla lingua inglese e di avviamento professionale. Holway, che ben conosceva certa mentalità puritana statunitense, non si esime nell’opuscolo dal fornire alcune ulteriori avvertenze affinché i siriani potessero dimostrare di essere individui onesti, rispettabili e affidabili: evitare locali e club malfamati e attività immorali; non dimenticare che le numerose associazioni siro-americane, benché nella stragrande maggioranza di natura caritatevole e assistenziale, erano poste anch’esse sotto costante sorveglianza; considerare che effettuare frequenti viaggi di ritorno in patria avrebbe certamente insospettito le autorità competenti.

Meno di vent’anni dopo, nella sua accorata lettera aperta indirizzata alla seconda generazione di siro-americani, Gibran avrebbe espresso, seppure in forma di poesia in prosa, gli stessi sentimenti di fierezza per le proprie origini e di fiducia nel proprio popolo manifestati da Holway in al-Muhāǧir al-Sūrī. Il messaggio Ai giovani americani di origine siriana [6] resta uno degli scritti gibraniani più celebri e ancora attuali, considerato oggi quasi alla stregua di un manifesto identitario da parte della colonia arabo-cristiana negli Stati Uniti:

 Io credo in voi e credo nel vostro destino.
Credo siate chiamati a contribuire a questa nuova civiltà.
Credo abbiate ereditato dai vostri antenati un sogno antico, un canto, una profezia, che potete con orgoglio deporre in grembo all’America come dono di gratitudine.
Credo possiate dire ai fondatori di questa grande Nazione: «Eccomi, sono un giovane uomo, un verde albero le cui radici furono estirpate dalle colline del Libano, ma ora sono profondamente radicato qui e in questa terra elargirò i miei frutti».
E credo possiate dire ad Abramo Lincoln, il benedetto: «Era Gesù di Nazareth a toccare le tue labbra quanto parlavi, ed era Lui a guidare la tua mano quando scrivevi. E io sosterrò tutto quanto hai pronunciato e scritto».
Credo possiate dire a Emerson, a Whitman e a James: «Nelle mie vene scorre il sangue dei poeti e dei saggi dei tempi antichi, ed è mio desiderio venire a voi ed essere accolto, ma non verrò a mani vuote».
Credo che, così come i vostri padri giunsero in questa terra per produrre ricchezze, voi nasceste qui per produrre quella ricchezza che scaturisce dall’ingegno e dalla fatica.
E credo possiate essere buoni cittadini.
E cosa vuol dire essere buoni cittadini?
Significa riconoscere i diritti altrui prima di rivendicare i propri, pur nella ferma consapevolezza di averne.
Significa essere liberi nella parola e nell’azione, ma sapendo che la propria libertà è subordinata alla libertà degli altri.
Significa creare l’utile e il bello con le proprie mani, onorando ciò che altri individui hanno creato con amore e fiducia.
Significa creare benessere per mezzo del lavoro e soltanto del lavoro, e spendere meno di quanto avete prodotto perché i vostri figli non gravino sullo Stato per sostentarsi quando voi non ci sarete più.
Significa stare dinanzi alle torri di New York, Washington, Chicago e San Francisco, e dire in cuor vostro: «Discendo da un popolo che ha costruito Damasco, Byblos, Tiro, Sidone e Antiochia, e ora sono qui per costruire insieme a voi, mosso dal vostro medesimo desiderio».
Dovete essere orgogliosi di essere americani, ma dovete anche essere fieri dei vostri padri e delle vostre madri, arrivati da una terra su cui Dio posò la Sua mano misericordiosa per innalzare i Suoi profeti.
Giovani americani di origine siriana, io credo in voi.
 Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
 Note
[1] Gibran Honored at a Testimonial Dinner: Syrians Show Pride in Writer Who Has Brought Honor to Race, «The Syrian World», Vol. III, No. 8, February, 1929: 52.
[2] Cfr. Josette Bouvier Selim, Jamil B. Holway (1883-1946): An Arab-American Poet, Georgetown University Press, Washington, DC 1987.
[3] Jamil B. Holway, Strip Every Nation, in Grape Leaves: A Century of Arab-American Poetry, Edited by G. Orfalea and S. Elmusa, Interlink Books, New York 2000: 48.
[4] Ivi: 48-51.
[5] Ǧamīl Buṭrus Ḥulwah, al-Muhāǧir al-Sūrī: wa-mā yaǧibu ān yaʻrifahu wa-yaʻmala bih, Maṭbaʻat Ǧarīdat al-Hudà, New York 1909.
[6] Kahlil Gibran, To Young Americans of Syrian Origin, «The Syrian World», Vol. I, No. 1, July, 1926: 4-5; cfr. Id., Ai giovani americani di origine siriana, in Poeti arabi della diaspora. Versi e prose liriche di Kahlil Gibran, Ameen Rihani, Mikhail Naimy, Elia Abu Madi, traduzione e cura di Francesco Medici, presentazione di Kegham Jamil Boloyan, prefazione di Ameen Albert Rihani, con due poesie musicate dai Malaavia, Stilo Editrice, Bari 2015: 140-141.

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Francesco Medici, membro ufficiale dell’International Association for the Study of the Life and Work of Kahlil Gibran (University of Maryland), è tra i maggiori esperti e traduttori italiani dell’opera gibraniana, nonché autore di vari contributi critici su altri letterati arabi della diaspora tra cui Mikhail Naimy, Elia Abu Madi e Ameen Rihani. Si è inoltre occupato di letteratura italiana moderna e contemporanea, in particolare di Leopardi, Pirandello e Luzi. Docente di materie letterarie nella scuola secondaria, lavora attualmente in un CPIA di Bergamo come insegnante di italiano L2.

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