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Itanglismi, tecnicismi e populismi

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 00:27 In Cultura,Società | No Comments

 

9per l’italiano

di Pietro Clemente

Ho sempre condiviso le battaglie di Ugo Iannazzi, in particolare la tenacia e la minuzia della ricerca sul territorio, dal dialetto ai modi di dire, dalla storia locale al valore della memoria. Ho condiviso il lavoro sulla storia della Ciociaria e sulle ricerche per il Museo di Arce (FR) dedicato alla Gente ciociara; sulla valorizzazione di figure di studiosi locali, come Ercole Gabriele, e anche di testimoni impegnati a conservare memoria della tradizione orale, della vita pratica e di relazione di un territorio, come Antonio Quaglieri.

Anche il testo La difesa dei nostri patrimoni linguistici sopraffatti dall’inglese reca traccia di tutti questi temi a lui cari, e per lui anche legati alla sua ‘patria locale’ (Arpino-Ciociaria) sia storica, che culturale. Su questo argomento voglio cercare di dare un contributo al tema della comunicazione linguistica in Italia, sotto il dominio, se non il bombardamento, della lingua anglo-americana. Forse c’è un po’ di timore ad affrontare una battaglia che può ricordare quella, spesso comica, del fascismo contro la penetrazione di lemmi che venivano dalle lingue delle potenze giudaico-plutocratico-massoniche. Quando, ad esempio, ‘folklore’ si doveva scrivere con la c.

Il fenomeno che Iannazzi denuncia non è neanche il prodotto di un bombardamento dall’esterno, ma, assai peggiore, quello di un saccheggio che i mezzi di comunicazione italiani fanno di quella lingua, che già è dominante nel linguaggio del web, del cinema, dell’industria, della pubblicità. Un esempio: a proposito della diffusione della pandemia un sito medico scrive «Il tracciamento dei contatti (in inglese “contactracing”) …», ma in realtà nella comunicazione giornalistica e televisiva il tracciamento dei contatti scompare e tutti usano ‘contactracing’. Un termine che non aiuta certo utenti e telespettatori alla comprensione.

Il mio maestro Alberto Cirese diceva che questi sono gli effetti di una egemonia, e nel valutare il fenomeno occorre tenerne conto. Faceva l’esempio della parola francese créme caramél, che nei ristoranti veniva chiamata creme càramel e veniva anglizzata, creando così un falso termine, visto che in inglese quel termine si usa solo alla francese. Lo abbiamo visto anche nel dibattito politico italiano sull’uso della parola privacy e della sua pronuncia (privasi o praivasi?).

2L’accettare anglo-americanismi a gogò, addirittura concupirli e bramarli, è diventato un segno della debolezza della nostra vita politica e della nostra vita sociale. E, come dice giustamente Ugo Iannazzi, è segno della perdita di forza della nostra lingua e del nostro stesso pensiero che esprimiamo linguisticamente. Su questo c’è un dibattito su vari fronti: un ampio fronte si è aperto nelle università con la denuncia della debolezza linguistica degli studenti al grado più elevato degli studi.

Ugo identifica quello che chiama itanglese come il problema centrale, quasi una mutazione mostruosa in atto dell’italiano in inglese. A me piace allargare lo scenario, anche se spesso è giusto fare una battaglia per volta, porre un tema alla volta. Intanto devo dire che in genere chi parla correttamente l’inglese usa meno queste interferenze, che rappresentano proprio un appesantimento della nostra lingua e che ricordano per certi aspetti il fenomeno di diffusione di massa del ‘cattivo gusto’ (il kitsch). A mio avviso c’è qualcosa di più. Il mio riferimento è a quello che Italo Calvino scriveva in una delle sue lezioni americane, quella sull’‘esattezza’:

«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze» (da: Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988).

C’è quasi tutto in questa considerazione del 1985, forse troppo lontana da noi per essere all’ordine del giorno, ma che a me sembra contenere anche tutto il disagio espressivo dell’oggi.

Io ho quasi orrore per l’uso di tecnicismi – anche italiani – che storpiano le parole in modo ignaro e comico per cui, se un magistrato comincia un’inchiesta finalizzata a un processo, si dice che ha aperto un fascicolo, mentre se si fanno delle analisi chimiche per scoprire la presenza del virus si dice che sono stati processati dei tamponi: il tamponamento è passato dal contenzioso automobilistico alle analisi mediche! Trovo ridicolo dire che si è convocato un tavolo o una cabina di regia. Per me i tavoli e le cabine sono ancora oggetti materiali con un loro significato letterale.

Sento invece nella vita della gente una forte presenza di pluralismo di codici linguistici, che non si ritrovano nella comunicazione giornalistica e televisiva, comunicazione che secondo me è la principale fonte della peste linguistica di cui parla Calvino. I telegiornali, i talk show (sarebbe opportuno chiamarli: trasmissioni di conversazione, o conversazioni tv), i quotidiani sono i luoghi, dove si spaccia l’anglismo, e dove l’italiano si riduce a lessico stereotipato senza nessuna forza critica. Una lingua ripetitiva e vieppiù impoverita. Così come per le immagini (anche su questo Calvino si esprimeva in quel testo). La Tv che una volta si distingueva per le immagini in presa diretta sul mondo, oggi si riduce nei servizi informativi a ripetersi in continuazione senza alcuna presa diretta con effetti comici involontari (per esempio sempre lo stesso Berlusconi che ripassa sempre sotto lo stesso arco, così come tutte le volte che si parla di finanza si vede il conio degli euro ecc.).

Sono i direttori dei giornali e dei telegiornali che favoriscono questo impoverimento di massa. Ma anche la politica assume gli anglismi come una sorta di bigiotteria linguistica cui attingere per ‘fare scena’, o per ‘mimetizzare’, sotto le mentite spoglie dell’idioma “del progresso”, argomenti da manovrare in modo surrettizio, di soppiatto, alla chetichella.

Tutto ciò allontana sempre di più la gente dalla politica nel momento in cui questa avrebbe bisogno di ‘esattezza’ e di controllo collettivo, visto che il populismo sta riversando sul nostro mondo tonnellate di menzogne, di frodi verbali, di semplificazioni, come metodo per costruirsi una propria comunità linguistica, che condivide le falsità e critica chi non le accetta.

L’egemonia linguistica del populismo è perfino più pericolosa di quella dell’anglismo. Perché la genesi della politica democratica è stata uno sforzo gigantesco di esattezza, di distinzione, di chiarezza sui compiti e sui ruoli, ed è stata bruciata da decenni di tattiche e di confusioni, di uso privato della politica e di affarismo, che hanno portato a una perdita di fiducia. Perdita di fiducia, che viene riempita dai populismi, che puntano su un linguaggio dotato di risonanza emotiva ma del tutto infondato sul piano della chiarezza, fondatezza, correttezza politica.

Trump è stato un caso ciclopico di ‘spirito del male’ populista. Nemmeno Mussolini all’apice del suo potere usava dire consapevolmente delle falsità così assurde, come invece ha fatto lui. E il peggio è che esse hanno ottenuto e ottengono un effetto di condivisione! 

Nella vita corrente e nel discorso comune, invece, sento il ritorno di forza di un plurilinguismo regionalistico italiano. Mi capita di condividere in vari momenti la lingua quotidiana dei toscani, dei sardi e dei piemontesi e di sentirla ricca, non ‘stremata’ dagli anglismi. Finita l’era dei divieti e della vergogna, i dialetti sono parlati di nuovo anche dai giovani: certamente sono impoveriti, ma consentono una varietà di registri che non si lascia ridurre a una monolingua itanglese o ‘populista’.

7L’itanglese è una ‘neolingua’ di un potere non chiaro, di una moda che si auto costruisce e prende la mano a chi la usa e chiede sempre di più a chi le è succube. Non è di destra o di sinistra, forse è un virus, perché non lo connetti con un soggetto, con un mandante, ma te lo trovi in casa a far da padrone.

Ma per condurre una battaglia bisogna mirare verso la stampa e l’informazione politica, verso i talk show, perché è da lì che la peste viene prevalentemente diffusa. Mi domando anche quanto io stesso sia contagiato da quel lessico.

Le tre liste di itanglismi che Ugo Iannazzi ha ricostruito sono anche un test di sanità linguistica. Per quanto mi riguarda non ne uso più del 10%. Qualcuno mi capita di usarlo, perché è entrato nei miei studi e nelle mie pratiche universitarie (abstract, empowerment, call, workshop) ma, per ridare valore alla presenza primaria del nostro idioma e per far argine a un uso smodato di lemmi alloctoni, forse, sarebbe giusto non usarli, o, almeno, accompagnarli con la pleonastica traduzione di: riassunto, potenziamento, chiamata, laboratorio. E ugualmente negli usi pubblici (welfare, spread, made in Italy, leader) sostituirli sempre con stato sociale, divario tra tassi di interesse, prodotto in Italia, capo, per non perdere la speranza di considerare i termini italiani ancora vivi e utili.

Dopo un po’ di resistenza, e talvolta sovrappensiero, ho finito per dire lockdown, perché lo usavano tutti e, non usandolo, mi sembrava di voler fare il bastiancontrario. A me piacerebbe dire ‘clausura’, anche se evoca lo scenario di un isolamento/prigionia volontaria, o forse ‘distanziamento fisico’, che è il vero obiettivo di prescrivere la necessaria distanza tra persone, così da evitare il contagio dei portatori di virus.

Sono convinto che la tradizione sia un valore che va rigiocato in modo creativo e non cristallizzato nel passato. E che anche nella lingua nazionale i processi che ristabiliscono il giusto valore espressivo dovrebbero avvenire passando per il piano della cultura diffusa e creativa.

Quindi, è giusto anche prescrivere, prevenire, condannare ma, a mio avviso, l’aspetto centrale è creare cultura nuova e attiva. Negli anni ‘70 del secolo scorso il mondo del giornalismo è cambiato, una generazione meno passiva lo ha animato. Creare nuova cultura è oggi una dimensione difficile, oggetto di lotta, spesso di delegittimazione, che non riesce ancora a dare diffusione ed energia a un ‘buon senso’ linguistico che la rappresenti. Forse destinata a un lungo periodo di marginalità, di tenace resistenza.

Un nodo di questa battaglia culturale è contro l’itanglese. Dove mi ritrovo al fianco del lavoro appassionato e delle analisi puntuali di Ugo Iannazzi.

 Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021

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Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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