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Io e mio padre. Intervista ad Antonino Buttitta*

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2014 @ 00:36 In Cultura,Interviste | No Comments

Antonino Buttitta

Antonino Buttitta

di    Antonino Cusumano

In più occasioni, in molti suoi scritti, lei ha affermato che uno dei suoi maestri da cui ha imparato a conoscere e ad amare la cultura siciliana e con essa lo studio delle culture in senso lato, è stato suo padre. La figura del padre, oggi “evaporata” e dissolta nella liquidità dei legami familiari del nostro tempo, è stata per lei fondativa non solo come riferimento affettivo ma anche come modello d’ispirazione etica, civile e culturale del suo pensiero di studioso. È così?

Per quanto riguarda l’identità intellettuale non v’ha dubbio che la mia formazione è nata e maturata nel radicamento con la cultura siciliana che ho esemplato da mio padre. Da mio padre ho anche ricevuto un’eredità morale e politica, nel senso che ho appreso che un vero uomo di cultura deve stare sempre dalla parte degli “scartati”, cioè dei vinti. Da mio padre ho capito, attraverso un modo di dire, la concezione del mondo e della vita dei Siciliani: Si u riccu non fussi foddi un campassi u puvireddu; come dire che l’unica possibilità che ha il povero, il debole per sopravvivere, sta nelle contraddizioni del potere, il suo cosmos è consentito soltanto dal caos del potente.

In un vecchio articolo pubblicato su L’Ora (21 novembre 1978) richiamando i versi “Cu camina calatu/ torci a schina/ s’è un populu torci a storia”, così scriveva: «Padre, perdonaci se anche noi calando la schiena, abbiamo subito la distorsione della storia. Solo i diversi come te non si fanno umiliare dalla vita». Nel riconoscere il debito che ha contratto con suo padre, quanto ingombrante è stata la forte personalità del poeta, l’autorevolezza della sua esposizione pubblica, quanto dialetticamente conflittuale è stato il rapporto privato con lui, e quanto, d’altra parte, decisivo e fondamentale per la sua formazione umana e intellettuale?

Non c’è dubbio che non in uno ma in più momenti mi sono reso conto che il mio io, la mia identità assumeva senso soltanto nel rapporto con mio padre. Quando in alcune occasioni per divergenze politiche entravamo in conflitto, mi dispiaceva dover constatare che la fede socialista ricevuta da mia madre differiva dalle scelte comuniste di mio padre. Temevo di essere dalla parte del torto. Mi convincevo – e ne sono ancora convinto – del fatto che la scelta politica di mio padre era così vissuta, sentita, partecipata che la mia posizione era fragile rispetto al suo impegno etico, oltre che letterario. Al di là delle differenze politiche, peraltro oggi assolutamente insignificanti, rispetto a lui, rispetto a quella speranza nella quale lui credeva e della quale viveva, penso di non aver avuto abbastanza fede. Ancora oggi sono convinto che dal punto di vista morale mio padre fosse molto più nel giusto di me.

In concreto, cosa crede di avere imparato da suo padre, quale eredità si sente di avere raccolto?

Credo che innanzitutto gli debbo la varietà dei miei interessi. Mi colpiva e mi ha formato la sua grande curiosità intellettuale. La sua biblioteca, da cui ricavai le mie prime letture, era varia e rapsodica. Accanto alle opere di Pitrè, c’erano testi di argomento politico e filosofico. La letteratura siciliana (Martoglio, Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Vittorini) e la italiana si alternavano a quella spagnola (Calderớn, Blasco Ibanẽz), francese (Dumas, Hugo, Zola, Maupassant), russa (Gogol, Tolstoi, Dostoievski, Gorki), ungherese (Körmedi, Molnár) e americana (Steinbeck, Saroyan, Hemingway). C’erano molte raccolte di poesie in italiano, in siciliano (Meli, Tempio, Di Giovanni, Ammannato) e anche in altre parlate locali. I poeti stranieri erano Lorca e Neruda. Sono stati questi gli scrittori della mia giovinezza e da questi ho imparato a privilegiare la letteratura su ogni altro operare umano.

Ignazio Buttitta, Favignana 1985

Ignazio Buttitta, Favignana 1985

Avevo quattordici anni quando in un quaderno dalla copertina nera, come allora usava, cominciai a raccogliere proverbi e canti popolari. I primi me li riferiva mio padre, i secondi me li cantava mia madre. Ricordo ancora il testo di un canto che mia madre amava ripetermi: Giuvini siti beddu e dilicatu/dilicateddu di megghiu misura/ lu giummu d’oru tiniti a latu/e lu rulogiu cu la firmatura./ Nisciti un fazzulettu addamascatu/e vi stuiati sta ianca sudura,/chiù vi stuiati chiù beddu pariti,/un ànciuli di diu m’assimigghiati.

Debbo, senza dubbio, al particolare interesse di mio padre per il patrimonio linguistico del popolo le mie scelte di orientamento scientifico. Già questo è tanto. Ma mi sento in maggior debito con lui per avermi educato al rifiuto delle disuguaglianze fra gli uomini in qualunque forma praticate. Ho imparato da lui che si debbono e si possono combattere contrapponendo loro la forza di valori ideali anche quando mitici. Ho letto e riletto mille volte una cartolina, attaccata al vetro della sua libreria, diffusa dai socialisti dopo il delitto Matteotti. Recavano le ultime parole rivolte dal deputato socialista ai suoi assassini: «Uccidete me ma le mie idee non le ucciderete mai. I miei figli si glorieranno del loro padre. I lavoratori benediranno il mio cadavere. Viva il socialismo». Queste parole, probabilmente mai pronunciate, hanno avuto per me tanto valore formativo quanto mai avrei potuto ricavarne, né ho ricavato, da qualsiasi altra lettura. D’altra parte la scelta politica di mio padre era implicita e consequenziale al suo impegno culturale. Il mito in cui credeva e in cui io, seguendo il suo esempio, malgrado le mille smentite quotidiane, insisto nel continuare a credere, se non altro per restare fedele alla sua memoria, era quello che la cultura dei deboli potesse un giorno sconfiggere l’impostura culturale dei potenti. Per lui questa cultura si identificava con quella del popolo siciliano. Di esso si sentiva mèntore e voce critica. Inascoltato profeta, consapevole di essere fuori dal mondo, sapeva di vivere in una realtà altra da quella da lui sognata e sorrideva con dolcezza quando quest’ultima agli altri appariva follia. Cercava l’umano in tutti quelli che incontrava, sia essi essi noti e ignoti, con tutti intratteneva rapporti estroversi e generosi: che si trattasse di grandi intellettuali come Rafael Alberti e Carlo Levi o di semplici contadini.

Nella vita quotidiana suo padre era dunque un uomo che pare vivesse immerso in un altro mondo, nella dimensione poetica di una realtà altra rispetto a quella comune. Come conciliava questo suo mondo con la realtà di tutti i giorni, con gli impegni familiari, con le “coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”?

Mio padre è stato un acrobata che ha camminato con la leggerezza del poeta su un filo sottile e tenace, sospeso in un equilibrio mobile e precario. Amava la libertà e rincorreva l’ispirazione. Capitava spesso che si allontanasse improvvisamente da casa e restasse assente per lunghi periodi. Un giorno, ricordo che per farsi perdonare da mia madre si presentò a casa di notte con in braccio una grande oca bianca. In un’altra occasione, uscito per comprare qualcosa, non rientrò e comunicò molto dopo con una cartolina di essere felicemente a Mosca. Era così mio padre, ma solo apparentemente disincantato e distratto. Non finiva di sorprendere per la capacità immediata di cogliere in uno sguardo l’essenza dei tanti che gli chiedevano una dedica in un suo libro di poesie. Un giorno trovò una scritta anonima sul cancello di casa: «Comunisti cornuti morirete tutti». Non si affrettò a cancellarla. Si limitò ad aggiungere in calce: «Questa è la morale fascista». Immerso in un rapporto profondo con la natura, mio padre parlava perfino con i pesci e con gli uccelli e incredibilmente uccelli e pesci parlavano a lui. Teneva un gallo, che amava e curava come una persona cara, con cui dialogava con naturale disinvoltura. Ogni volta lo mostrava orgoglioso agli ospiti. In realtà anche nel quotidiano mio padre era un poeta e si comportava come tale. Invertendo il titolo di una sua poesia, si può affermare che non era un uomo che faceva il poeta ma un poeta che faceva l’uomo.

Si deve sicuramente a questo il suo unico amore filosofico, per quel Platone di cui leggeva e annotava i Dialoghi. Un fortunato caso ha fatto sì che io rientrassi in possesso dei due volumi della copia da lui posseduta. Qualcuno degli innumerevoli suoi ospiti, delle più diverse e incerte estrazioni sociali, politiche e morali, in genere amiratori e poeti essi stessi, l’aveva sottratto alla sua libreria. Li ho ritrovati in una bancarella di vecchi libri a Palermo. Mi ha colpito e commosso, per il suo significato di spia di un orizzonte ideologico senza perimetro, il fatto che a un certo punto un’affermazione del Filosofo greco per bocca di Epicarmo, secondo la testimonianza di Alcino, riferita da Diogene Laerzio, venga commentata con un pensiero di Mao. Questo tracimare luoghi, tempi e persone, trasferendole in una dimensione dove il divenire molteplice e diversificato della storia si permuta nella continuità omogenea e atemporale dell’essere, è proprio del pensiero mitico e della poesia che ne è il prodotto più nobile.

Ignazio Buttitta e Renato Guttuso

Ignazio Buttitta e Renato Guttuso

La casa di Aspra dove abitava suo padre è stata sempre luogo di incontri, spazio di convivialità e di intrattenimento amicale, punto di riferimento di intellettuali, artisti e poeti. Cosa ricorda di quegli incontri, di quei festosi raduni?

Sì, è vero. La villa di Aspra era un porto di mare. Io non ricordo mai mio padre solo, c’era sempre gente. Si mangiava, si beveva e si recitavano poesie. Questa era la casa di Aspra. Cosa che, a volte, faceva molto arrabbiare mia madre. A casa di mio padre era familiare la presenza di Renato Guttuso, vi si radunavano artisti destinati a diventare famosi come Cagli, Migneco, Treccani, il cileno Sebastian Matta, pittori che aveva conosciuto a Milano. Era un luogo di riferimento dell’intellighentia di sinistra, che era allora di moda ed egemone nei costumi culturali. Sulla terrazza di Aspra ho conosciuto Alberto Bevilacqua, Mario Soldati, Elio Vittorini, Enzo Siciliano e numerosi altri, ma, a dir la verità, pur nel rispetto della loro fama, l’impressione che ricavavo da loro non era del tutto positiva. Intravedevo una certa finzione, una certa teatralità. Mi parevano non del tutto autentici. Non mi convinceva il loro interesse di classe. Il loro stare dalla parte del popolo era forse solo letteratura, teatro. La conclamata militanza marxista di alcuni serviva per conseguire fruttuose posizione di potere accademico e letterario. Non si può dire la stessa cosa per il poeta e patriota greco Alexandros Panagulis, che mio padre aiutò e ospitò per mesi in questa casa di Aspra, quando era perseguitato dai colonnelli. Credo che sia stato nel 1969, in occasione della prima fuga di Panagulis dal carcere in cui era stato rinchiuso. Attraverso Panagulis mio padre conobbe il noto poeta Ritsos che poi si adoperò per tradurre in neogreco e pubblicare il Lamento per la morte di Salvatore Carnevale. Panagulis non era soltanto un politico rivoluzionario, ma anche un apprezzato poeta, un vero intellettuale.

A ripensare a quella stagione, quel che più mi ha impressionato è stato scoprire ciò che mio padre mi aveva insegnato e più volte ripetuto e in cui ha creduto fino agli ultimi giorni della sua vita: non è vero che a sinistra ci sono tutti i buoni, gli onesti e gli intelligenti e a destra gli altri. Per me scoprire questo fatto ha avuto un effetto fortemente traumatico, soprattutto quando ho constatato che in alcuni settori scientifici, come in quello degli studi storico-religiosi, i maggiori studiosi erano di destra, anzi di estrema destra. Tuttavia, aggiungo subito che questa scoperta non mi ha fatto perdere la fede negli ideali illuministi di libertà, solidarietà ed eguaglianza che alimentano la cultura di sinistra.

Quale peso sulla sua formazione intellettuale hanno avuto comunque gli studi meridionalistici degli anni Sessanta, figure come quelle di Danilo Dolci, di Carlo Levi o di Scotellaro?

L’interesse per questi autori in me c’era, perché ovviamente lo esemplavo da mio padre. Ma era più di tipo politico e umano che scientifico. Non c’è dubbio che Dolci è stata una figura che, al di là delle diversità di opinioni, ha svolto un ruolo fondamentale per la riscoperta del mondo popolare. Il caso Scotellaro non è meno significativo perché, non diversamente da Dolci, al suo interesse per la civiltà contadina ha associato un impegno politico, che ha saputo esprimere nella sua produzione artistica. Mio padre era molto vicino a Carlo Levi, che tra l’altro condusse a casa della mamma di Carnevale, fornendogli suggerimenti per descrivere quasi in termini mitici la sua figura di madre addolorata. A guardar bene, la matrice del pensiero di Levi è riconducibile all’Illuminismo più che al Romanticismo. Nella grazia del suo “guardare” va ricercata la dote che gli consentì, meglio di sociologi e antropologi, di cogliere l’ordito invisibile in cui consisteva il lato segreto e dolente degli uomini che ha incontrato e raccontato.

Ignazio Buttitta, Carlo Levi e Danilo Dolci, 1957

Ignazio Buttitta, Carlo Levi e Danilo Dolci, 1957

C’è un episodio che ritiene possa aver rappresentato una svolta, una illuminazione nella scoperta di un padre che da quel momento non era più solo suo padre ma anche suo maestro?

Mio padre è un grande poeta: se la poesia è manifestazione di sentimenti umani e non immagini di donzellette. In nome dell’utopia di un mondo di liberi e di eguali i suoi versi sono diretti a risvegliare i «dannati della terra» dalle sabbie del sonno e dell’oblio, cui secoli di ingiustizie li hanno destinati. Vogliono essere e sono la loro voce. Non condizionato dagli schemi retorici della scuola italiana (per fortuna aveva frequentato solo le elementari), mio padre non distingueva tra il letterario e l´umano, tra poesia e politica. A differenza degli accademici medagliati la gente lo amava e lo ama ancora per la virtù, che solo ai poeti è data, di volgere in infinito il finito dell’umano. Una volta ne ho avuto una prova sorprendente. Mi trovavo a New York in difficoltà con un biglietto per Caracas, pasticciato dall’agenzia e per mia approssimazione. Intervenne un funzionario della compagnia aerea, come appresi dopo figlio di un emigrante di Riesi, che leggendo il nome nel biglietto mi chiese: «Lei ha qualcosa a che fare con Ignazio Buttitta?». Avendogli detto che ero il figlio, in pochi minuti risolse il mio problema. Lo ringraziai ma mi rispose: «Sono io che ringrazio lei per avermi dato l´occasione di dare una mano al figlio di chi ha dato una mano a tutti noi: il compagno – così disse – Ignazio Buttitta». Per parte mia, di mio padre questo mi basta e mi avanza.

Quando andai a trovare mio padre, due-tre giorni prima che spirasse, giaceva a occhi chiusi nel suo letto di ospedale. Quando avvertì la mia presenza si rianimò e prese a recitare i primi versi del Lamento per la morte di Salvatore Carnevale. Era questo mio padre. Un angelo senza ali, un santo fuori dal Paradiso. Sapeva rendere possibile l’impossibile miracolo di trasformare il poetico in vissuto, le nebbie del quotidiano nelle voci stellate della poesia. Per essere nato e vissuto da e accanto ad un poeta posso testimoniare della capacità dei poeti di vedere la sostanza invisibile dell’animo umano, di saper guardare oltre l’apparenza effimera del divenire alla permanenza eterna per quanto inattingibile dell’essere.

A lei si deve l’istituzione della Fondazione Ignazio Buttitta. Quali ne sono state le motivazioni, quali gli scopi e quali i progetti? A quasi dieci anni dalla sua costituzione quale bilancio può trarre e quali prospettive può ipotizzare?

La Fondazione è stata istituita nel 2005 con il patrocinio dell’Università degli studi di Palermo e con il riconoscimento come ente pubblico da parte dell’Assemblea Regionale Siciliana. Ha come obiettivi la tutela, lo studio e lo sviluppo della cultura siciliana in tutti i suoi aspetti storici, sociali e artistici. È dotata di un proprio patrimonio artistico e librario e svolge intensa attività di promozione e di produzione intellettuale. Ho creato la Fondazione non per innalzare un monumento a mio padre. Mi sono preoccupato di conservarne la memoria attraverso la costituzione di un ricchissimo archivio di materiali documentari cui hanno concorso numerosissimi privati. Tra gli altri, ultimamente, Sergio Flaccovio ha donato alla Fondazione tutto il patrimonio grafico e fotografico della storica casa editrice. Nell’archivio della Fondazione si conservano anche i preziosi nastri registrati di canti e musiche popolari raccolti in tanti anni dal Folk Studio. La sede naturale della Fondazione, quella a cui avevo pensato in origine, era la vecchia casa paterna di Bagheria, abitata dagli spiriti nella inesauribile immaginazione dei locali, ma dove in realtà si aggirano ancora le ombre dei miei avi. Debbo dire purtroppo che mi è mancata la collaborazione del Comune.

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014
* tratto da L’orizzonte della memoria. Intervista a Antonino Buttitta, a cura di A. Cusumano, in corso di stampa. Si pubblica per gentile concessione dell’editore Ernesto Di Lorenzo.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000: Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia.

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