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Interazioni e comunicazione interculturale. Il dialogo possibile

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Foto Garofalo

 di Concetta Garofalo

Una citazione che, dopo tanto tempo, mi è tornata in mente è di Cioran «Non si abita un paese, si abita una lingua»: io sono d’accordo solo in parte e pertanto vorrei procedere con delle riflessioni dal punto di vista semio-antropologico, focalizzando contesti quotidiani caratterizzati dalla presenza di culture diverse, integrazione, intercultura e migrazione e, speci- ficatamente, le dinamiche e le modalità di comprensione di una lingua quando, l’apprendimento della L2 in contesti d’uso la rende necessaria quanto L1 [1]. Il taglio teorico disciplinare è una scelta personale deliberata e basata sull’intento di coniugare l’approccio greimasiano e uno sguardo antropologico interpretativo.

Probabilmente non si tratta di delineare l’oggetto di studio dal punto di vista esclusivo del linguaggio oppure dal punto di vista delle funzioni comunicative e dei contesti d’uso; si tratta, invece, di focalizzarne simultaneamente i molteplici aspetti delineando il campo nell’evento di interazione che avviene attraverso, con e nell’uso di lingue e linguaggi, secondo modalità più o meno consapevoli e performative, da parte dei rispettivi interlocutori attori. Tali attori sono da considerarsi, nel mio intento, agenti di attanti culturali in movimento nel tempo storico e nello spazio geografico territoriale. Lo sguardo antropologico, congiuntamente da vicino sia da lontano, sia partecipante e al tempo stesso funzionalmente oggettivante, mi permette di individuare l’oggetto-antropologico nell’istanza individuale calata in un contesto di dialogo condiviso a livelli diseguali di investimento identitario. Riporto subito un passo da Ochs:

«Muovendo dal presupposto che l’acquisizione del linguaggio è profondamente legata al processo attraverso cui si diviene membri competenti della comunità sociale, lo studio della socializzazione linguistica prende in esame la socializzazione all’uso del linguaggio e al tempo stesso la socializzazione attraverso il linguaggio. La competenza comunicativa prevede non solo il padroneggiamento del codice linguistico ma anche la conoscenza di una vasta gamma di norme socio-culturali che ne regolano l’uso, la funzione, la forma in situazioni diverse. […] Le pratiche discorsive non sono veicoli neutri di trasmissione di informazioni ma convogliano parte di tale patrimonio informazionale» (Ochs, 2006: 15-16).

Questo assunto è strettamente riferito dalla Ochs all’analisi dei processi di apprendimento linguistico nell’età evolutiva e volto allo studio delle interazioni fra adulti e bambini, nelle varie fasce di età, in contesti comunicativi via via sempre più strutturati che implicano e promuovono il posizionamento dei soggetti parlanti non solo nello spazio dialogico, in itinere, ma anche all’interno di una cornice semantica culturalmente connotante e denotante.

«La socializzazione linguistica è stata considerata sin dagli esordi un processo che si protrae ben al di là dell’infanzia e che dura di fatto tutta la vita. Strettamente connessa a tale idea troviamo l’enfasi sulla bidirezionalità del processo di socializzazione» (Ochs, 2006: 18).
 Foto Garofalo

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La Ochs si riferisce ad eventi comunicativi che avvengono all’interno di una comunità parlante fra soggetti che condividono lo stesso sistema linguistico strettamente correlato al sistema sociale e culturale di appartenenza; il discorso dialogico rafforza, di fatto, l’inserimento sociale dei soggetti più giovani mediante i livelli e le modalità di attribuzione di ruoli, funzioni e agentività (Duranti, 2007). In particolare, è mia intenzione ampliare il campo scientifico disciplinare di applicazione di tale assunto rivolgendo le mie riflessioni agli eventi comunicativi fra soggetti dialoganti appartenenti a culture diverse. In tal senso lo studio della socializzazione linguistica, che implica la localizzazione storico-culturale e sociale dell’evento comunicativo, mette in primo piano, per così dire, il movimento! Cioè applico l’assunto ai contesti d’uso delle lingue quando esse, in movimento, promuovono il dialogo interculturale. Cosa accade, dunque, se uno degli interlocutori è “migrante”?

L’apprendimento di una lingua seconda passa, sempre e comunque, da un sistema culturale che non è quello originario del sistema morfo-sintattico e semantico generatore e condiviso da un interlocutore, per così dire, “nativo”. L’uso delle strutture morfo-sintattiche avviene mediante una inevitabile ri-elaborazione semantica. L’enciclopedia degli interlocutori non è un sistema condiviso di credenze, valori e investimenti semantici. Si realizza, in tal senso, un livello di dialogo metadiscorsivo che possiamo spiegare individuando almeno due livelli comunicativi interagenti e incidenti ma non coincidenti fra loro. In parole semplici: io parlo con te e tu, per comprendermi, devi interpretare l’investimento semantico e valoriale che attuo – in virtù della mia cultura di origine – nel contesto d’uso che ci definisce interagenti. Chiaramente, l’impegno soggettivo è vicendevole e implica la predisposizione all’ascolto reciproco! La bidirezionalità è un aspetto fondamentale se consideriamo che la parola è un atto culturale; i soggetti interagenti sono istanze complesse e sistemiche. Pertanto, il dialogo non origina da una dualità, semplice e quantificabile, e sussiste necessariamente della multidimensionalità degli enti. I soggetti individuali coinvolti in eventi di dialogo agiscono attuando schemi preformanti. Questa dimensione multiprospettica fa sì che i soggetti individuali siano nuclei generatori del soggetto collettivo che, a sua volta, è denotato e connotante sistemi culturali che dialogano mettendo in gioco complessi rapporti di interrelazione. Da questo punto di vista, intendo affermare che il dialogo interculturale assume una propria grammatica, solo in parte data a priori, nella quale le questioni morfologiche e sintattiche sono strettamente connesse ad aspetti semantici e sociosemiotici.

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Percorsi di scrittura (ph. Garofalo)

A mio avviso, la questione va approfondita proficuamente dal punto di vista dei tre differenti modelli tessonomici esposti da Greimas quando individua i possibili confini epistemologici di una disciplina che egli definisce sociosemiotica [2]. Prima di tutto vorrei sottolineare un paio di passaggi significativi riguardo, rispettivamente, all’accezione di “lingua naturale” e al “concetto di comprensione”:

«Le lingue naturali fungono da significanti che consentono di distinguere e di opporre i gruppi sociali in tanto in quanto questi sentono di appartenere o di non appartenere a comunità linguistiche» (Greimas, 1991: 56).
«[…]. Quest’ultimo caso illustra con molta evidenza quanto è relativo il concetto di comprensione. È chiaro, in fondo, che non si tratta della comprensione vera e propria, ma del riconoscimento dell’identità e delle alterità dei soggetti parlanti. Ogni lingua comporta di per sé criteri ed elementi distintivi sufficienti a produrre atteggiamenti di identificazione e di esclusione rispetto ai partecipanti alla comunicazione reale o supposta» (Greimas, 1991: 59).

 Dunque, l’atto di comunicazione interculturale è un evento procedurale bidirezionale coniugato fra la tensione dell’affermazione di sé e del sé sociale e culturale ma, a mio avviso, non si tratta di un percorso lineare di in or out bensì della configurazione di uno spazio dialogico “altro”, generatore di sensi pregnanti dal punto di vista soprattutto antropologico. Per tornare a Greimas, aggiungo un altro tassello al quadro teorico, spiegando il livello descrittivo rappresentato dalle categorie connotative dei “modelli prossemici”, proprio quello che si basa sui processi binari di inclusione/esclusione, come si evince dal seguente passo:

«Come è evidente, in base agli scarti linguistici implicitamente riconosciuti, un soggetto del genere esclude una classe di individui in quanto “altri”, diversi da sé, e si include nello stesso tempo di individui, che riconosce come “identici”, come uguali a sé, entro questa prospettiva. Si tratta dunque di un modello logico molto semplice, che funziona in base al principio binario di esclusione e di inclusione e che può contenere parecchi livelli gerarchici, al variare di complessità delle società considerate» (Greimas, 1991: 62-63).

Al contrario, e, a mio avviso, in direzione complementare a questo modello formale, le categorie connotative dei “modelli morfologici” spostano l’attenzione sulle «articolazioni interne di queste società» mediante la descrizione secondo categorie centripete (sesso, classe d’età, gerarchie) e categorie centrifughe (transociali, antisociali, extrasociali). Il terzo livello descrittivo proposto da Greimas è il modello funzionale come si evince dalla sua seguente definizione:

«In opposizione ai primi due, esso sarebbe definito dalla mobilità degli individui, rispetto alle classi sociolinguistiche e in conseguenza del loro raggruppamento in categorie funzionali. Possiamo dire, per sommi casi, che si tratta in questo caso di semplice trasformazione di classi morfologiche in classi sintattiche e che questa trasformazione corrisponde, sul piano sociolinguistico, alla sostituzione delle lingue delle classi con classi di discorsi» (Greimas, 1991: 65).

In realtà Greimas pensa più che altro ad un processo di trasformazione sociolinguistica che si svolge sul piano diacronico e in maniera geograficamente circoscritta. A mio avviso, è invece interessante applicare tale modello generale ai contesti sincronici caratterizzati da una significativa compresenza multiculturale. L’individuo che viaggia (migrante) costituisce una categoria morfosociale di cui parla Greimas?

3Uno dei punti forti del terzo modello risiede proprio nel tentativo di coniugare gli aspetti fondamentali  della mobilità linguistica e le categorie di analisi e descrizione, da intendersi funzionali sia dal punto di vista comunicativo sia socio-culturale. Il passaggio fondamentale utile alle mie riflessioni consiste proprio nel ricorso all’accezione di “discorso sociolinguistico”. L’integrazione interculturale diviene inclusione se si riesce a superare un’accezione assoluta, esclusiva e chiusa di lingua nazionale per aprire i contesti dialogici al concetto più ampio di “lingua di cultura”, cioè «uno stadio di plurilinguismo» dialogico «caratterizzato dal fatto che tutti i discorsi funzionali verrebbero tenuti in una lingua sola», basato non da un «giudizio di valore» ma da «uno stadio estremo» di polarizzazione dei sistemi sociali e culturali che essa rappresenta (Greimas, 1991: 66). Queste mie riflessioni costituiscono un contributo ad ampliare l’accezione di “lingua dell’inclusione” e di “lingua accogliente” che, chiaramente risuonano e rinviano al concetto di “cultura accogliente”.

«Il fatto è che, nel quadro della comunicazione interindividuale, le connotazioni sociali risultano soggiacenti ai messaggi scambiati e questo le trasforma in criteri impliciti e di riconoscimento e di classificazione dell’interlocutore» (Greimas, 1991: 67).

In tal senso, gli interlocutori sono, secondo Greimas, nell’ hic et nunc dell’evento comunicativo, sia lettori, ma anche “interpreti del discorso” e “produttori del discorso”. La deissi, l’uso delle forme pronominali, le forme di saluto, le modalità indessicali sono aperture, varchi, soglie di interlocuzione al fine di affermare i posizionamenti, di esitare nella comprensione di sensi e significati, di oltrepassare il livello informativo, di attualizzare la performativitità del parlare, di assicurare pregnanza al livello pragmatico non solo, dunque, nella sua dimensione dialogica del linguaggio e dello scambio di informazioni, ma anche e soprattutto dal punto di vista delle dinamiche sociali e dei sistemi culturali.

In base alle mie riflessioni viene meno, inoltre, uno dei tanti modi di intendere l’uso e l’apprendimento delle lingue che tende a distinguere, da un punto di vista lessicale, le accezioni di “lingua madre”, “lingua straniera”, “L2”, “L3”. In contesti di dialogo interculturale, nei territori di frontiera, negli spazi istituzionali e non, pubblici e privati, caratterizzati dalla compresenza dialogica di culture diverse, dal plurilinguismo e dal multiculturalismo, è necessario e indispensabile promuovere l’apprendimento significativo della lingua d’uso. Ai due poli della transitività individuo due direzioni che procedono dal contesto sociale e culturale al singolo evento comunicativo, e viceversa.

Nello schema grafico di sintesi, ponendo agli estremi le rispettive lingue nazionali e i sistemi culturali di riferimento (localizzati nel tempo e nello spazio secondo i canoni dell’antropologia classica) emergono i tratti di confronto e interazione così come illustrato in Fig. 1.

figura-1I tratti delle diagonali mettono in evidenza le modalità di dialogo che risultano essere asimmetriche se considerate dal punto di vista sociolinguistico. Gli interlocutori sono, produttori e fruitori, definiti da posizionamenti, seppur contestuali, significativamente differenti dal punto di vista degli esiti della performatività delle lingue e dei linguaggi.

L’antropologia si pone ad un livello meta-descrittivo che non va però inteso al di sopra delle parti ma un livello interpretativo che origina dall’evento in sé. L’atto di dialogo carica le dimensioni dell’hic et nunc di profondità, narratività in fieri e storicizzazione oggettivante. Al fine di mettere in rilievo la dimensione interpretativa soggettiva e l’investimento di valori e significati nelle interazioni umane che avvengono in contesti di dialogo e posizionamento culturale plurimi e complessi, riporto, a titolo puramente esemplificativo, due stralci di racconto e narrazione del sé; sono testimonianze di qualche tempo fa, sempre attuali che, frequentemente, si verificano e lasciano il segno del ricordo in chi vive giornalmente la realtà del dialogo interculturale [3].

R. è una bambina di 6 anni, proviene dai paesi dell’Est europeo, è arrivata in Italia e dopo pochi giorni viene inserita in una classe prima di scuola primaria, nel rispetto della normativa vigente riguardo l’assolvimento dell’obbligo scolastico. L’anno scolastico è già iniziato da qualche mese e i compagni di classe hanno già avviato l’apprendimento della letto-scrittura. Il team dei docenti titolari della classe predispongono, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, un piano personalizzato e attuano strategie e metodologie di didattica inclusiva per supportare le difficoltà di apprendimento dell’italiano come seconda lingua. La maestra di italiano si dedica a predisporre attività ed esercitazioni di pre-grafismo ed esercitazioni graduate di letto-scrittura. R. frequenta la scuola con entusiasmo ed è ben accolta dai compagni della classe. R. mostra impegno nello svolgere i compiti e in breve tempo impara a leggere e a scrivere. La maestra dedica anche le ore del pomeriggio alla progettazione delle attività didattiche da proporre, porta a casa i quaderni per predisporre materiali didattici integrativi, mette a disposizione di R. libri che la bambina può prendere in prestito per esercitarsi a leggere anche a casa. I suoi familiari non sono italofoni. Durante i colloqui con gli insegnanti R. si improvvisa mediatore linguistico. […] Un giorno, quasi giunti alla conclusione dell’anno, R. chiede alla maestra di organizzare una piccola festa dei saluti. La maestra teme di non comprendere: R. dovrà andare via, la sua famiglia dovrà trasferirsi per motivi di lavoro. La maestra chiede “Dove andrete?”. R. risponde prontamente “[…] In Germania!”. “Ma è un paese di lingua tedesca. Tu non parli tedesco”. “Sì, troverò anche in Germania una maestra che mi insegnerà a palare tedesco come tu hai insegnato a me l’italiano”.

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Sono esempi significativi nella loro semplicità e nella spontaneità espositiva, sono dotati della forza e del potere della narratività del raccontare e del raccontarsi. Soprattutto sono tasselli di uno specchio infranto, sono porzioni semiotici di un sistema a livelli sempre più complessi di interventi e pratiche politiche, amministrative, sociali e culturali specifiche di ogni singolo contesto di vita quotidiana [4]. Dal punto di vista degli studi umanistici e sociali, si rende necessario spostare l’ago della bilancia e tenere in considerazione i fattori determinanti riconducibili ai concetti di testimonianza, narratività e movimento [5].

 P. è una mamma bengalese, si è trasferita regolarmente in Italia da circa due anni, i suoi figli più piccoli frequentano regolarmente la scuola primaria, mentre i più grandi hanno trovato lavoro insieme al padre. La famiglia di P. vive in un quartiere modesto, sono ben voluti dai vicini e i bambini frequentano le lezioni con entusiasmo. […]P. non parla bene l’italiano e durante i colloqui con gli insegnanti riesce con fatica a comprendere e a farsi comprendere, i figli più grandi, a volte, la aiutano nelle comunicazioni scuola-famiglia e nel disbrigo di pratiche burocratiche presso gli uffici territoriali. […] Un giorno di qualche anno fa, P. si presenta a scuola e chiede di prendere il figlio S. in anticipo rispetto all’orario delle lezioni. P. parla con l’insegnante di classe “Devo portare a casa mio figlio S”. L’insegnante è perplessa “Oggi a scuola è un giorno di festa. Siamo in prossimità del Natale e i genitori hanno organizzato un giorno di giochi, di saluti e auguri”. P. ribadisce: “Devo andare a casa. Oggi è un giorno speciale anche per la mia famiglia. Oggi, quando mio marito e i figli più grandi rientrano da lavoro, è necessario che siamo tutti a tavola insieme”. L’insegnante si consulta con altri colleghi i quali intervengono e cercano di far comprendere a P. che è importane che il bambino partecipi alla festicciola e che prenda parte ai giochi con i suoi compagni di classe. La scuola attua metodologie e strategie di didattica inclusiva proprio per favorire l’integrazione dei bambini “stranieri” predisponendo contesti positivi di apprendimento e di socializzazione. P. segue con difficoltà il linguaggio tecnico degli insegnanti e ribadisce: “Voi non capite! Io devo essere a casa con i miei figli per ora di pranzo. Anche per noi oggi è un giorno di festa”. P. non dice altro, non fornisce altri particolari riguardo all’evento familiare. Lei incentra la sua comunicazione sull’importanza dell’essere a casa, a prescindere dalla motivazione personale. P. non svela l’intimità del focolare domestico, i festeggiamenti non vengono utilizzati a supporto della richiesta di portare il figlio a casa prima della fine delle lezioni. Un insegnante del team comprende la situazione di incomprensione reciproca e provvede a registrare l’uscita anticipata del bambino. S. porta a casa un fagotto con delle pizzettine da condividere in famiglia e un gadget di matite colorate comprato dai genitori per ogni alunno della classe. S. è dispiaciuto di dover salutare i compagni ma il suo pensiero è già rivolto al rientro a casa ed alla festa in famiglia.

Questo racconto mi sembra esemplificativo di situazioni comunicative rese problematiche non soltanto dalla scarsa padronanza linguistica delle strutture sintattiche e morfologiche della lingua del Paese di arrivo ma, soprattutto, perché vengono attivate modalità di interazione che fanno riferimento a sistemi linguistici, sociali e culturali non condivisi (Garofalo, 2017). Il gioco del detto e del non detto, il livello di informazioni non completamente esplicitate nella comunicazione rispetto alla significatività degli elementi dichiaratamente impliciti perché considerati non funzionali secondo una valutazione, non condivisa, dell’evento in progress. L’interazione linguistica avviene perché è necessaria la dimensione interpretativa della comunicazione. Ma è vero anche che l’azione e il livello pragmatico si mettono in atto solo se “funziona” il livello interpretativo. La mobilità culturale che caratterizza i movimenti transnazionali, impone, a livello di micro-sistemi territoriali il superamento dell’accezione di integrazione e inclusione misurata e valutata in base agli esiti di assimilazione e adattamento (Garofalo, 2015).

Le nuove generazioni di “nativi-migranti” vivono una dimensione interculturale che va al di là dei desueti assunti di attaccamento e distanza sociale. La comunicazione interculturale si svolge solo apparentemente sul piano della sincronia poiché la descrizione linguistica tiene conto del sistema culturale di origine degli interlocutori. Il movimento migratorio, ascrivibile al piano della diacronia, sposta, per così dire, gli scenari geografici e carica di bidimensionalità l’evento dialogico che avviene – che accade – nel contesto territoriale della cultura di arrivo. Il processo di comprensione reciproca fra gli interlocutori è inevitabilmente orientato dalla compresenza dell’istanza sociale degli interlocutori provenienti da territori culturalmente distanti. Duranti afferma che

«I parlanti in quanto esseri sociali devono sempre avere a che fare con dei sistemi di significazione che li precedono sia storicamente sia epistemologicamente. È per questo che qualsiasi lingua, in quanto processo e prodotto sociostorico, è anche una “traccia” dei percorsi sociali e cognitivi fatti dai suoi utenti» (Duranti, 2007: 27).

Il dialogo interculturale si pone, dunque, in termini di prospettiva e punti di vista, focalizzazione su mondi individuali e collettivi che si caricano dell’universalità dei processi comunicativi e meta-narranti. Il dialogo inteso come processo di interazione è sì un atto creativo e generativo ma è anche performante dei sistemi culturali interagenti aspettualizzati negli atti di parola, nelle azioni, nei canali comunicativi, negli elementi verbali, non verbali e paraverbali che ne costituiscono la dimensione, appunto, sintattica e semantica. Lo sguardo antropologico concorre alla definizione teorica di modelli interpretativi capaci di svelare il complesso gioco di schemi regolativi dell’evento comunicativo. Dunque, l’analisi antropologica del dialogo interculturale manifesto nelle varie forme di comunicazione e interazione procede nell’oggettivazione dei processi premurandosi di investire i soggetti individuali del valore di rappresentatività dei rispettivi sistemi culturali di riferimento. Si delineano universi culturali possibili e mondi dialoganti. Bisognerebbe allora ridiscutere le accezioni teorico-disciplinari di “lingua standard”, “lingua nazionale” e “lingua ufficiale”.

Il mio contributo non muove in direzione di un  rinnovato relativismo culturale nell’ambito degli attuali studi socio-antropologici rivolti all’analisi semio-descrittiva dei contesti urbani e dei fenomeni di mobilità culturale e sociale. Piuttosto tendo qui a delineare uno spazio antropologico al quale applicare un modello integrato semio-interpretativo che tenta di coniugare l’istanza teorica prettamente antropologica con l’approccio semiotico greimasiano. Dunque, in questo caso l’oggetto antropologico non consiste in una “zona franca” di disconoscimento dei sistemi culturali di appartenenza dei soggetti agenti. Anzi, al contrario, si tratta di delineare uno spazio di dialogo in termini procedurali e processuali di integrazione, di riconoscimento e di affermazione delle identità culturali, specifiche e individuali rappresentative di semiosfere d’interazione più ampie. Inoltre è proprio dalla specificità degli eventi comunicativi che emerge l’utilità di individuare un modello o dei modelli teorici di analisi, più o meno generali. A tale scopo muove il costante riferimento ad Ochs e a Greimas nelle pagine di questo mio contributo.

Del resto, le mie riflessioni protendono verso il superamento del senso di appartenenza geograficamente localizzato nel tempo e l’hic et nunc diventa un’istanza individuale che rivendica la propria specificità all’interno di sempre più ampi contesti collettivi. Dunque, penso a una rinnovata idea di senso di appartenenza che si traduce in capacità di partecipazione, attribuzione di agentività sociale e culturale, nel riconoscimento dell’istanza individuale che sia tutt’uno nell’essere, nel fare e nel processo di costruzione dell’identità personale. Dubito sempre più del concetto di identità plurime e non intendo rinunciare all’idea della coerenza dell’essere persona e reinvestire un approccio di antropologia esistenziale nello studio semio-descrittivo dell’istanza individuale e nella definizione teorica del concetto ecosistemico di identità personale. La dimensione sociale, culturale, politica, interazionale, comunicativa non sono aspetti slegati fra loro, quella cui aneliamo, noi antropologi, è un’accezione di identità individuale che si avvalga di un nucleo di coerenza esistenziale visceralmente orientato e alimentato dal sistema culturale, più o meno specifico, più o meno localizzato nel tempo e nello spazio, più o meno reale e virtuale, cui i soggetti-agenti sentono di appartenere. Gli assunti teorici fungono da criteri e da chiave di lettura della realtà osservata e oggettivata. In queste pagine, si riflette sulla significatività delle accezioni di differenza e diversità, di inserimento e integrazione[6], le quali si traducono negli assunti più attuali di “società inclusiva” e “cultura inclusiva” che a loro volta promettono il superamento di ideali (a mio parere, ingenui e poco veritieri) di cultura accogliente, di identità globale e di una pan-cultura planetaria. Piuttosto, il dialogo interculturale si palesa, sotto forma di futuro di cambiamento in divenire, nei discorsi disciplinari che focalizzano la direzione “funzionale” ed ecosistemica dei sistemi di comunicazione e di interazione sociale e culturale. Riprendendo l’apertura di questo mio contributo, vorrei sottolineare la questione che più mi preme lasciare aperta: avendo supportato teoricamente l’idea che «si parla una cultura», dunque «nel dialogo interculturale siamo tutti voci narranti».

Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017
Note

[1]  Leggasi lingua seconda e/o lingua straniera, rispetto alla lingua prima e/o lingua “materna” e/o lingua d’origine.
[2]  Greimas (e, chiaramente, anche Ochs) affronta la questione dei campi di competenza disciplinare. Siamo consapevoli delle annose questioni disciplinari volte a definire i confini e le soglie di contatto fra gli impianti epistemologici disciplinari. In tal senso tengo in debita considerazione anche l’impostazione comparativa, sempre attuale, in Lyons dal punto di vista specifico della linguistica: «Adottando la definizione più ampia di Sociolinguistica […], possiamo considerarla come «lo studio del linguaggio in rapporto alla società […]. In modo analogo, è possibile definire l’etnolinguistica come lo studio del linguaggio in rapporto alla cultura, prendendo il termine ‘cultura’ nell’accezione in cui è usato in antropologia e, più in generale, nelle scienze sociali». (Lyons, 1989: 274).  La linguistica ha sempre sentito l’esigenza di confrontarsi con le istanze disciplinari, da una parte, della psicolinguistica e della psicologia cognitiva dell’età evolutiva e, dall’altra parte, con la sociologia e l’antropologia sociale (cito queste branche degli studi umanistici e sociali solo a titolo esemplificativo).
[3]  I seguenti racconti non sono citazioni tratte da testi scritti pubblicati. Riporto liberamente degli stralci di conversazioni più o meno formali e informali alle quali ho assistito personalmente. Mi permetto questa licenza da scrittore perché quello che mi preme sottolineare è soprattutto il valore di testimonianza e le dinamiche di attribuzione di performatività e di investimento di significati nelle interazioni che emergono dalle narrazioni e dalle voci narranti.
[4]  L’Italia si è, attualmente, dotata di un ampio ventaglio di provvedimenti normativi atto a fronteggiare le situazioni di svantaggio socio-culturale derivato dalla mobilità migratoria che investe il nostro paese giorno dopo giorno. Centri di accoglienza e di primo soccorso, modalità di riconoscimento, accoglienza e rimpatrio, accordi internazionali e unitari, formazione, individuazione e reperimento di risorse economiche e professionali per supportare le azioni sociali a livello di micro-sistemi logistici e organizzativi (contesti socio-sanitari, amministrativi, economici, linguistici, scolastici).
[5]  Cfr. Clifford in Garofalo, 2014
[6] Per i quali si rimanda al contributo sempre attuale e di immediata consultazione in Marchetta, 1993: 119-120 e sgg.
       Riferimenti bibliografici
       Duranti A. (a cura), Cultura e discorso, Meltemi, Roma 2001
       Duranti A., Etnopragmatica. La forza del parlare, Carocci, Roma, 2007
      Garofalo C., “Antropologia del rimpatrio e mondo contemporaneo”, Dialoghi Mediterranei, n. 10, novembre 2014
     Garofalo C., “Azione e interazione nel dialogo fra culture in divenire”, Dialoghi Mediterranei, n. 15, settembre 2015
      Garofalo  C., “L’agire sociale verso il riconoscimento delle identità individuali”, Dialoghi Mediterranei, n. 23, gennaio 2017
       Greimas A. J., Semiotica e scienze sociali, Centro Scientifico, Torino, 1991, (ed. or. 1976)
       Lyons J., Lezioni di linguistica, Laterza, Roma, 1989
      Marchetta U., Coevoluzioni. Psicologia sociale dei processi formativi, Grifo, Palermo, 1993
       Ochs E., Linguaggio e cultura, Carocci, Roma, 2006
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 Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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Una risposta a Interazioni e comunicazione interculturale. Il dialogo possibile

  1. Al buon Cioran, Wittgenstein avrebbe ricordato che conoscere una lingua significa conoscere una cultura, e che abitare una cultura significa far parte di una forma di vita. Lotman avrebbe messo entrambi d’accordo (forse anche la tua lettura critica) parlando di Semiosfere.
    Sull’apprendimento linguistico, mi piacerebbe una considerazione sui mai passati di moda studi e ricerche di Bickerton, fra i massimi esperti di pidginizzazione, che mi pare attinente al suo oggetto di ricerca. Cordialmente

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