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Innovazione tecnologica e territorio: scenari, sfide e opportunità per lo sviluppo locale

@Camilla Lenzi

@Camilla Lenzi

di Daniela La Foresta, Ilaria Bruner [*]

 Innovazione tecnologica e sviluppo locale: prospettive teoriche

Negli ultimi decenni, il rapporto dialettico tra innovazione tecnologica e sviluppo territoriale ha assunto una posizione di crescente centralità all’interno del dibattito accademico interdisciplinare, catalizzando l’attenzione di geografi economici, economisti regionali e studiosi delle politiche pubbliche sui complessi meccanismi di generazione, diffusione spaziale e territorializzazione dei processi innovativi (Lundvall, 1992; Edquist, 1997; Cooke, 2001). Lungi dall’essere neutra e uniformemente distribuita nello spazio geografico, l’innovazione costituisce un fenomeno intrinsecamente e marcatamente territoriale, caratterizzato da dinamiche di co-evoluzione con le specificità storiche, istituzionali e socio-economiche dei contesti locali, contribuendo simultaneamente a rafforzare le traiettorie di sviluppo virtuose ovvero, in taluni casi, a perpetuare o addirittura esacerbare le disuguaglianze geografiche preesistenti (Storper, 1997; Camagni, 2009; Maskell & Malmberg, 1999).

Il vasto corpus teorico consolidatosi attorno a questa tematica ha progressivamente evidenziato come i processi innovativi si strutturino attraverso la complessa interazione di molteplici variabili territoriali, segnatamente la dotazione di capitale umano altamente qualificato, la presenza di infrastrutture materiali e immateriali adeguate, l’efficacia delle istituzioni locali nella facilitazione dei processi di coordinamento e governance, nonché l’intensità e la qualità delle relazioni reticolari che si instaurano tra il sistema imprenditoriale locale, le istituzioni universitarie e i centri di ricerca pubblici e privati (Asheim & Gertler, 2005; Boschma, 2005; Rodríguez-Pose, 2013; Isaksen & Trippl, 2014).

In questa prospettiva analitica, si è progressivamente affermata e consolidata la nozione concettuale di ecosistemi territoriali dell’innovazione, configurazioni spaziali complesse nelle quali le specificità locali – intese come patrimonio di conoscenze tacite, competenze specialistiche, relazioni fiduciarie e istituzioni formali e informali – costituiscono un asset strategico nella capacità sistemica di generare, assorbire e ricombinare conoscenze innovative (Autio, 1998; Oh et al., 2016). I paradigmi interpretativi che hanno maggiormente contribuito a delineare questo quadro teorico includono il modello dei sistemi regionali dell’innovazione (Cooke et al., 1997; Doloreux & Parto, 2005; Tödtling & Trippl, 2005), che enfatizza il ruolo delle istituzioni regionali nella creazione di un ambiente favorevole all’innovazione, e la teorizzazione dei milieux innovateurs (Aydalot, 1986; Maillat, 1995; Camagni, 1991) che privilegia l’analisi delle dinamiche relazionali e culturali che favoriscono l’apprendimento collettivo territoriale.

A questi approcci si affiancano importanti contributi che, all’interno del contesto europeo, hanno sottolineato il ruolo strategico delle risorse territoriali specifiche – materiali, relazionali e cognitive – nella strutturazione della capacità innovativa dei luoghi. In particolare, studi come quelli di Camagli e Capello (2002) hanno evidenziato la centralità dell’apprendimento collettivo e delle interazioni multilivello tra attori pubblici e privati, mentre Dematteis (1997) ha messo in luce la rilevanza delle reti territoriali e delle dinamiche spaziali nella costruzione del capitale territoriale e della competitività locale [1]. Questi approcci contribuiscono a una lettura integrata dello sviluppo territoriale, in cui la coerenza tra istituzioni, reti e specializzazioni produttive si configura come un elemento chiave per comprendere le traiettorie di innovazione.

camagniTuttavia, è necessario sottolineare con forza che l’innovazione tecnologica non costituisce automaticamente un sinonimo di sviluppo locale equilibrato e sostenibile. Al contrario, una crescente mole di evidenze empiriche ha documentato come la polarizzazione geografica dell’innovazione – fenomeno caratterizzato dalla concentrazione spaziale delle attività innovative in specifiche aree metropolitane o regioni centrali – possa significativamente accentuare le preesistenti disuguaglianze regionali, innescando dinamiche cumulative di tipo “Matthew effect” che tendono a favorire sistematicamente i territori già dotati di vantaggi competitivi consolidati (Martin & Sunley, 2006; Crescenzi et al., 2007; Shearmur, 2012; Rodríguez-Pose & Wilkie, 2017). All’opposto, l’assenza o l’inadeguatezza delle condizioni territoriali abilitanti – quali la scarsità di capitale umano qualificato, l’insufficienza delle infrastrutture digitali e di ricerca, la debolezza del tessuto istituzionale locale – può contribuire a marginalizzare ampie porzioni del territorio nazionale, aggravando significativamente i divari di sviluppo e perpetuando condizioni di dipendenza strutturale (Grillitsch & Nilsson, 2015; Tödtling & Trippl, 2005). In questo contesto problematico, assume particolare rilevanza teorica ed empirica il tema della capacità territoriale di assorbire, adattare e valorizzare l’innovazione esogena, concetto che trova la sua principale elaborazione teorica nella nozione di absorptive capacity mutuata dagli studi organizzativi e successivamente applicata all’analisi territoriale (Cohen & Levinthal, 1990; Tödtling & Trippl, 2005; Giuliani, 2007; Fitjar & Rodríguez-Pose, 2013).

Nel campo della geografia economica si è, quindi, sviluppato e consolidato un approccio più critico e relazionale, che propone di analizzare l’innovazione non esclusivamente come semplice output tecnologico quantificabile, bensì come costrutto socio-spaziale influenzato da traiettorie storiche di lungo periodo – path dependency –, governance locali e interdipendenze multi-scalari che collegano la dimensione locale con quella nazionale e globale (Pike et al., 2006; Moulaert & Sekia, 2003). Questo approccio, che trova ulteriore espressione nella letteratura sui territorial innovation models, sui social innovation systems e sulle innovation ecosystems (Neumeier, 2012; Nyseth & Hamdouch, 2019; Stam & Spigel, 2017), consente di cogliere con maggiore attenzione la co-evoluzione tra innovazione e territorio, e di analizzare i potenziali di trasformazione locale attivati da politiche pubbliche mirate, come le strategie di specializzazione intelligente (Foray, 2015) o gli investimenti europei in innovazione e coesione territoriale che caratterizzano le politiche di sviluppo europee (Barca et al., 2012).

pikeObiettivi della ricerca ed approccio metodologico

Nonostante il crescente interesse della letteratura accademica per i temi dell’innovazione territoriale e della trasformazione digitale, permane una relativa scarsità di strumenti analitici capaci di misurare e valutare comparativamente le performance dei territori, in particolare a scale sub-nazionali o infraregionali, e in contesti caratterizzati da elevata eterogeneità strutturale. Le classificazioni aggregate di tipo macroregionale o nazionale, pur offrendo una visione d’insieme utile, tendono spesso a non cogliere la complessità delle dinamiche territoriali differenziate che contraddistinguono i processi di innovazione, specialmente nei contesti periferici, policentrici o con forti squilibri interni. In particolare, si rileva una carenza di approcci valutativi capaci di integrare dimensioni multiple dell’innovazione – tecnologica, digitale, infrastrutturale e umana – in modo coerente con le specificità geografiche e istituzionali dei contesti analizzati.

In questa prospettiva, il presente contributo si propone di esplorare in chiave metodologica la potenziale utilità dell’approccio multicriterio (MCDA) per la valutazione territoriale dell’innovazione, con l’obiettivo di verificare se esso possa offrire una prima base analitica per la costruzione di un quadro comparativo delle capacità territoriali di innovazione, ovvero della cosiddetta readiness territoriale. La riflessione si colloca dunque a cavallo tra analisi empirica e sperimentazione metodologica, con l’intento di contribuire al dibattito sul monitoraggio delle traiettorie locali di trasformazione innovativa, adottando una prospettiva geografico-economica attenta alla specificità dei contesti.

ludvallValutazione multicriterio dell’innovazione territoriale in Campania

Sulla base del framework teorico delineato, è stata sviluppata e implementata una versione semplificata della MCDA, specificamente calibrata per il contesto delle province campane, al fine di esplorare la readiness territoriale all’innovazione, intesa come la capacità endogena di un territorio di generare, assorbire e valorizzare processi di innovazione tecnologica e digitale secondo i paradigmi teorici dell’innovation system approach (Lundvall, 1992; Nelson, 1993) e della geografia dell’innovazione. Il modello adottato si è basato sull’identificazione di tre dimensioni teoriche fondamentali che, secondo la letteratura specialistica, strutturano la capacità innovativa territoriale: il capitale umano, l’infrastruttura digitale e il sistema produttivo innovativo, dimensioni che trovano ampio riscontro negli studi sui sistemi regionali di innovazione e nelle ricerche sulla competitività territoriale (Porter, 1990).

La dimensione del capitale umano è stata operazionalizzata attraverso tre variabili: la percentuale di giovani NEET (Not in Education, Employment or Training), che rappresenta un indicatore inverso della qualità del sistema formativo locale; la quota di popolazione adulta coinvolta in percorsi di formazione continua, che riflette la capacità di apprendimento permanente del territorio secondo i paradigmi dell’economia della conoscenza; e la percentuale di laureati sulla popolazione totale, variabile ampiamente utilizzata negli studi empirici come proxy del capitale umano avanzato (Florida, 2002).

L’infrastruttura digitale è stata misurata mediante tre indicatori tecnici che catturano la dotazione infrastrutturale ICT del territorio: la percentuale di copertura in banda ultra-larga, la velocità media di download e la velocità media di upload su rete fissa, variabili che la letteratura identifica come determinanti fondamentali della capacità di innovazione digitale territoriale e dell’attrattività per le imprese knowledge-intensive. La dimensione del sistema produttivo innovativo è stata, invece, descritta attraverso due variabili strutturali rilevanti: il numero di start-up innovative attive, che rappresenta un proxy della dinamicità imprenditoriale e della capacità di generazione di nuove imprese innovative, e il numero di imprese operanti nei settori ad alta intensità tecnologica, con particolare riferimento alle divisioni ATECO C26 (fabbricazione di apparecchiature elettroniche) e J62 (produzione di software e consulenza informatica), classificazioni che seguono le tassonomie OCSE per i settori high-tech e knowledge-intensive services. Per ciascun indicatore, i dati raccolti sono stati sottoposti a una procedura di normalizzazione lineare min-max al fine di renderli confrontabili su una scala comune compresa tra 0 e 1, distinguendo gli indicatori in base alla loro natura funzionale tra indicatori beneficio (per cui valori più elevati sono considerati preferibili) e indicatori costo (per cui valori più bassi sono da ritenersi favorevoli), secondo una logica coerente con la teoria della valutazione multidimensionale. È stata, poi, adottata una strategia di equa ponderazione, attribuendo a ciascun indicatore un peso uguale nella composizione del punteggio finale.

La valutazione finale è stata strutturata su due livelli analitici complementari: da un lato, è stato calcolato un punteggio aggregato complessivo (Score MCDA Totale) per ciascuna provincia, ottenuto come media aritmetica dei valori normalizzati di tutti gli indicatori considerati; dall’altro lato, sono stati calcolati tre punteggi parziali dimensionali, con l’obiettivo di restituire un quadro più articolato delle differenti configurazioni territoriali e delle asimmetrie interne alla regione, approccio metodologico che trova riscontro negli studi di benchmarking territoriale e nelle analisi di competitività regionale.

Figura 1: Componenti e risultato del punteggio MCDA per le province campane Fonte: Elaborazione personale

Figura 1: Componenti e risultato del punteggio MCDA per le province campane Fonte: Elaborazione personale

I risultati emersi dall’applicazione della matrice MCDA (rappresentati nella Figura 1 e Figura 2) evidenziano una marcata eterogeneità territoriale all’interno del sistema regionale campano, fenomeno che trova ampio riscontro nella letteratura sui divari territoriali italiani e sulle asimmetrie innovative interregionali.

Figura 2: Distribuzione territoriale dei punteggi MCDA nelle province campane (score complessivo e per dimensione) Fonte: Elaborazione personale

Figura 2: Distribuzione territoriale dei punteggi MCDA nelle province campane (score complessivo e per dimensione) Fonte: Elaborazione personale

L’analisi comparativa dei punteggi complessivi rivela una distribuzione asimmetrica delle performance innovative, con differenze sostanziali tra i diversi contesti provinciali che riflettono le dinamiche di path dependence e di lock-in territoriale. Napoli emerge come il territorio con il punteggio complessivo più elevato (Score MCDA = 0.66), principalmente trainato da un’eccellente performance nella dimensione del sistema produttivo innovativo (Score_IntensitàTech = 1.0) e da risultati soddisfacenti nell’infrastruttura digitale (Score_Infrastruttura = 0.98), risultato che conferma il ruolo di polarizzazione economica e tecnologica dei grandi centri urbani evidenziato dalla letteratura sui sistemi urbani di innovazione e sulle economie di agglomerazione (Krugman, 1991).

Tuttavia, tale dinamica positiva risulta significativamente compromessa da una performance critica nella dimensione del capitale umano (Score_CapitaleUmano = 0.07), evidenziando un potenziale squilibrio strutturale tra dotazione tecnologico-imprenditoriale e capacità della popolazione di assorbire e valorizzare l’innovazione. Salerno si posiziona al secondo posto nella graduatoria complessiva, con un profilo caratterizzato da un equilibrio intermedio tra le diverse dimensioni, pur mantenendo una certa debolezza relativa nel capitale umano (Score_CapitaleUmano = 0.46), configurazione che rispecchia il pattern tipico delle città di media dimensione nel Mezzogiorno italiano, caratterizzate da una struttura economica diversificata ma da persistenti debolezze nel sistema formativo e educativo. Avellino presenta un profilo particolarmente interessante dal punto di vista analitico, caratterizzato dal punteggio più elevato nella dimensione del capitale umano (Score_CapitaleUmano = 0.91), nonostante performance modeste nelle altre due dimensioni (Score_IntensitàTech = 0.02; Score_Infrastruttura = 0.06), pattern che suggerisce la presenza di un potenziale latente significativo, rappresentato da una popolazione relativamente qualificata e formata, fenomeno che la letteratura identifica come “brain retention” tipico delle aree interne e periferiche che riescono a trattenere capitale umano qualificato nonostante la debolezza del sistema produttivo locale. Benevento mostra una configurazione simile ad Avellino, con una discreta performance nel capitale umano (Score_CapitaleUmano = 0.58) ma valori contenuti nelle altre dimensioni, mentre Caserta presenta valori uniformemente bassi in tutte le dimensioni analizzate (Score MCDA Totale = 0.18), configurazione che riflette le dinamiche di marginalizzazione economica e sociale che caratterizzano alcune aree del Mezzogiorno.

L’analisi dei risultati MCDA rivela pattern territoriali complessi che richiedono un’interpretazione che vada oltre la mera descrizione quantitativa, indagando i meccanismi causali profondi che sottendono le asimmetrie osservate. La performance eccellente di Napoli nel sistema produttivo innovativo, contrapposta alla criticità del capitale umano, costituisce un paradosso che trova spiegazione in dinamiche strutturali di lungo periodo riconducibili al concetto di urban innovation trap, fenomeno che si manifesta quando una metropoli riesce ad attrarre imprese innovative dall’esterno grazie agli effetti di agglomerazione, ma non riesce contestualmente a trattenere e formare il capitale umano locale, generando una dicotomia tra economia dell’innovazione e società dell’innovazione che compromette la sostenibilità e l’inclusività del processo di sviluppo tecnologico.

krugmanLa concentrazione di start-up e imprese high-tech nel territorio napoletano riflette l’operare di tre meccanismi interconnessi che la letteratura economica ha ampiamente documentato nei contesti urbani ad alta densità (Glaeser et al., 1992; Moretti, 2012). Le economie di scala urbane riducono significativamente i costi di transazione per le imprese innovative, facilitando l’accesso a servizi specializzati, fornitori qualificati e network professionali che rappresentano asset critici per le imprese knowledge-intensive. Gli spillover tecnologici, amplificati dalla prossimità geografica, consentono la diffusione tacita di conoscenze e pratiche innovative attraverso la mobilità del personale qualificato, le relazioni informali e i processi di imitazione che caratterizzano i cluster tecnologici. L’accesso privilegiato a mercati e finanziamenti, tipico delle aree metropolitane, completa il quadro dei vantaggi competitivi che rendono Napoli attrattiva per le imprese innovative, configurando un ecosistema che favorisce l’insediamento e la crescita di attività ad alto contenuto tecnologico (ISTAT, 2022; Invitalia, 2024).

Tuttavia, l’elevata percentuale di NEET e la scarsa partecipazione della popolazione locale ai percorsi di formazione continua evidenziano come questi benefici macro-economici non si traducano automaticamente in upgrading del capitale umano autoctono, configurando quello che può essere definito un modello di crescita estrattivo (Rodríguez-Pose, 2018), in cui il valore aggiunto generato dall’innovazione non è redistribuito, bensì concentrato in segmenti sociali ed economici limitati. Questa dinamica alimenta un circolo vizioso – documentato anche nella Strategia Nazionale per le Competenze Digitali (Dipartimento per la Trasformazione Digitale, 2021) – dove la domanda di competenze avanzate delle imprese innovative non trova corrispondenza nell’offerta formativa locale, determinando fenomeni di importazione di talenti esterni che aggravano la marginalizzazione della popolazione residente e accentuano i divari socio-economici interni al territorio metropolitano. Il mismatch strutturale così generato – particolarmente acuto nel Sud Italia, secondo il rapporto Svimez 2023 – rischia di creare sacche di esclusione che minacciano la coesione sociale e la legittimità politica dei processi di innovazione.

Il caso di Avellino presenta caratteristiche diametralmente opposte che meritano un’analisi approfondita in quanto rappresenta un interessante controesempio alle teorie tradizionali dell’emigrazione selettiva che caratterizzano le aree interne del Mezzogiorno. Il pattern di brain retention osservato può essere interpretato attraverso una molteplicità di fattori che interagiscono in modo complesso per trattenere capitale umano qualificato nonostante la debolezza del sistema produttivo locale. Gli effetti di ancoraggio territoriale (Davezies, 2008), legati ai legami familiari e sociali che caratterizzano le comunità di dimensioni ridotte, esercitano una forza centripeta significativa che limita la mobilità del capitale umano qualificato, contrastando le spinte migratorie verso i grandi centri urbani. I costi opportunità differenziali giocano un ruolo altrettanto importante, in quanto il gap salariale tra centri urbani e aree interne viene spesso compensato da minori costi della vita, maggiore qualità ambientale e stili di vita meno stressanti che vengono valorizzati dalle nuove generazioni di lavoratori qualificati, sempre più attenti agli aspetti di work-life balance. La presenza di settori pubblici sovradimensionati, caratteristica strutturale delle aree interne meridionali, assorbe significative quote di capitale umano qualificato offrendo prospettive occupazionali stabili che, pur non generando dinamiche innovative nel sistema produttivo privato, contribuiscono a trattenere competenze che altrimenti migrerebbero verso contesti economicamente più dinamici.

Questo fenomeno genera capitale umano latente, risorsa potenzialmente strategica ma sottoutilizzata a causa della debolezza dell’ecosistema innovativo locale che non riesce a valorizzare appieno le competenze disponibili. Tale configurazione, pur rappresentando una criticità nell’immediato, presenta opportunità significative per politiche di attivazione che potrebbero trasformare questo asset dormiente in vantaggio competitivo territoriale attraverso interventi mirati di sostegno all’imprenditorialità qualificata e di creazione di opportunità di innovazione sociale e tecnologica compatibili con le specificità locali.

8b08228a-45d1-4b44-b63e-5ad24db99673Conclusioni e sviluppi futuri

L’applicazione della MCDA al contesto delle province campane, nonostante il carattere semplificato del modello adottato, ha dimostrato la rilevanza dell’approccio nel fornire una lettura comparativa e multidimensionale delle condizioni per l’innovazione, confermando la validità degli strumenti di valutazione multiciteria negli studi di geografia economica. L’analisi ha consentito di identificare sia le dinamiche cumulative e auto-rinforzanti che caratterizzano i territori già dotati di un ecosistema innovativo più strutturato, sia le fragilità sistemiche che limitano la capacità di altri contesti di attivare processi endogeni di sviluppo tecnologico. In tal contesto, la matrice restituisce con chiarezza le profonde asimmetrie interne al sistema regionale campano, sottolineando la coesistenza di modelli differenziati che richiedono strategie di intervento specifiche e la necessità di politiche place-based capaci di agire simultaneamente su capitale umano, infrastrutture digitali e sistema produttivo, secondo un approccio integrato che superi la logica settoriale tradizionale.

Sebbene il modello non ambisca a fornire una misurazione esaustiva della complessità dei fenomeni innovativi né a formulare predizioni deterministiche, esso si configura come uno strumento esplorativo metodologicamente robusto e replicabile, particolarmente utile per individuare colli di bottiglia strutturali e potenzialità latenti, contribuendo alla costruzione di una base conoscitiva più solida per la progettazione di interventi di policy. In un quadro in cui la capacità di innovare si configura come fattore discriminante nell’amplificazione o riduzione delle disuguaglianze regionali, approcci valutativi multidimensionali come quello proposto possono rappresentare un contributo significativo verso forme di governance più consapevoli, scientificamente fondate e contestualizzate rispetto alle specificità endogene di ciascun contesto, favorendo il superamento di approcci one-size-fits-all nella progettazione delle politiche regionali.

Dialoghi Mediterranei, n. 74, luglio 2025
[*] Questo lavoro è una ulteriore e inedita elaborazione del contributo che gli autori hanno presentato in occasione della Giornata di studio “Dialoghi di territorio e di sviluppo”, organizzata dal Gruppo di lavoro nazionale “Riordino territoriale e sviluppo locale: quali punti di contatto?” interno all’Associazione dei Geografi Italiani (A.Ge.I.) che ha avuto luogo a Messina il 7 febbraio 2025.
Note
[1] Il tema della relazione tra reti territoriali, dinamiche spaziali e capacità innovativa ha suscitato ampio interesse nella letteratura geografica e interdisciplinare, dando luogo a numerosi approcci teorici e applicativi. Tra i contributi più significativi in ambito geografico, merita attenzione il lavoro di Dematteis (1997), che ha offerto una delle prime sistematizzazioni del concetto di capitale territoriale, sottolineando il ruolo delle reti funzionali e simboliche nello sviluppo locale e nella costruzione della competitività dei luoghi. Pur non esaurendo il panorama di studi rilevanti su questo tema, tale contributo rappresenta un riferimento consolidato nella riflessione sulla dimensione relazionale dello sviluppo territoriale.
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Torre, A., & Rallet, A. (2005). Proximity and localization. Regional Studies, 39(1): 47-59. 

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Daniela La Foresta è professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove insegna Marketing territoriale, Pianificazione strategica e Geopolitica economica. I suoi interessi di ricerca si focalizzano sui processi di innovazione territoriale e sulle geografie delle aree marginali, con particolare riguardo all’applicazione delle tecnologie digitali a supporto dello sviluppo locale. Su questi temi ha fondato e presiede l’Osservatorio “Territori Digitali e Nuovi Strumenti di Aggregazione” (Te|Di).
Ilaria Bruner è dottoranda in Politiche pubbliche di coesione e convergenza nello scenario europeo presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle geografie digitali e sui processi di innovazione, con un’attenzione specifica all’uso sperimentale della cartografia e dei nuovi strumenti digitali per l’analisi e la rappresentazione dei territori.

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