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In memoria di Emiliano Giancristofaro
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2022 @ 00:31 In Cultura,Letture | No Comments
il centro in periferia
di Mariano Fresta [*]
Tra i folkloristi italiani della seconda metà del Novecento Emiliano Giancristofaro (6 giugno 1938 – 15 giugno 2022) è stato certamente uno dei più ragguardevoli oltre ad aver continuato egregiamente l’opera di Gennaro Finamore e di Antonio De Nino. La ricerca di Giancristofaro non solo si è estesa per tutto l’Abruzzo e per una parte del Molise, ma ha anche tolto alle tradizioni popolari di quelle regioni quel manto di romanticismo ed insieme di positivismo con cui i ricercatori ottocenteschi le avevano rivestite e soprattutto quell’estetismo decadente e quel falso primitivismo con cui D’Annunzio le aveva interpretate.
Con la sua ricerca demologica Giancristofaro voleva soprattutto ricostruire la storia di quelle genti che per molti anni erano state viste attraverso gli stereotipi degli zampognari che nei giorni di Natale scendevano a suonare per le strade di Roma: per questo le sue indagini sono state vaste territorialmente, puntuali nella varietà dei contenuti, tendenti a delineare le condizioni di esistenza di quelle popolazioni e a cancellare quell’immagine di un Abruzzo terra di un folklore pittoresco. Nell’intervista rilasciatami per la rivista «Lares» (LXXXV, n. 1, Gen.-Apr. 2019) ribadiva che per lui «demologia e antropologia erano al servizio della storia, e da storico locale mi sono dedicato all’etnografia, tenendomi defilato da questioni teoriche che mi parevano irrisolvibili, e confrontandomi di volta in volta con Bronzini, Cocchiara, Lanternari, Bonomo, Di Nola, Buttitta, Seppilli, Lombardi Satriani».
Dal che si evince che le sue posizioni teoriche erano eclettiche, ma ciò gli consentiva di svolgere un tipo di etnografia senza pregiudizi, storicamente vicina alla realtà delle cose. Nello stesso tempo Giancristofaro era cosciente che, presentando gli esiti delle sue ricerche nella loro essenza, i suoi lettori potessero fraintendere il folklore come cultura identitaria e cadere nella nostalgia:
«Sicuramente ho idealizzato la cultura popolare, forse portandomi dietro alcune scorie dell’evoluzionismo e dell’anacronismo, e sono consapevole che la divulgazione di questo approccio nel tessuto popolare può produrre nostalgia, rifacimenti e rivitalizzazioni. Anche se un demologo mette in guardia il lettore, gli spiega di non considerare il folklore come repertorio autonomo e separato dalla società, il lettore tende sovente a banalizzare, a generalizzare, a spettacolarizzare… Questo fenomeno mi sconforta … [ma] io ho cercato di spiegare che ciò che i demologi hanno documentato in Abruzzo negli anni Sessanta e Settanta era straordinario, era una cultura d’altri tempi».
Nonostante i suoi timori Giancristofaro è riuscito a collocare la cultura tradizionale abruzzese in un contesto storico più ampio, nazionale ed europeo, restituendola così alla nostra sensibilità moderna nella sua essenza di cultura tout court. Per far questo, però, nei suoi interventi critici ogni tanto più che l’etnografo prevaleva il cittadino in possesso di una coscienza etica e politica, ma è un difetto che gli si può perdonare facilmente, perché così ha potuto evidenziare in quali condizioni esistenziali quella cultura trovava nutrimento. L’indagine vasta e approfondita e il continuo ricorrere alla storia senza dubbio riescono a fargli raggiungere quegli scopi che si era prefisso: e cioè togliere alle “superstizioni” quella patina di pittoresco che spesso riveste queste manifestazioni, far dimenticare l’idea dannunziana dell’“Abruzzo forte e gentile”.
Quest’aspetto di cittadino politicamente cosciente non si manifestava solo nell’attività di folklorista e di demologo, ma anche in altri campi; perché Giancristofaro è stato personalità poliedrica che si è occupata di molte questioni: oltre alla ricerca etnografica è stato operatore di cultura, come testimoniano la sua attività di insegnante di Filosofia, la sua lunga dirigenza della «Rivista Abruzzese», la difesa dei beni culturali materiali come la chiesa di San Giovanni in Venere, le sue battaglie per l’ambiente condotte come responsabile dell’associazione di Lega Ambiente.
Tra le sue numerose (per un breve elenco si veda la nota bibliografica in Appendice) e più importanti pubblicazioni certamente è da considerare Totemaje, una specie di summa in cui sono presenti molte ricerche effettuate in tempi diversi e che a noi danno un’idea delle sue attività etnografiche e demologiche; il volume ha avuto due edizioni, la prima nel 1978 e la seconda, molto ampliata, nel 2012. Tra i capitoli ci piace ricordare quello sulla religiosità popolare e quello sull’alimentazione, perché i due temi per la loro importanza hanno permesso all’Autore di poter riferirsi ad un amplissimo quadro della vita e della cultura degli Abruzzesi.
Per analizzare meglio gli aspetti della religiosità popolare abruzzese, particolare attenzione Giancristofaro dedicò al mondo dei pastori e alle loro transumanze; addirittura per una etnografia più partecipata anch’egli affrontò le fatiche e il buio delle notti seguendo uno dei tratturi che dall’Abruzzo arrivano fino al mare pugliese. Scoprì così che buona parte delle credenze religiose nasce durante le soste notturne passate dentro o fuori i santuari collocati lungo il cammino delle greggi. E capisce anche che la differenza tra mondo contadino e mondo pastorale sta nella diversa concezione del tempo: per i primi il calendario scandisce le fasi delle attività agricole (aratura, semina. raccolta); per i pastori il tempo si dilata tra l’alpeggio estivo e il pascolo invernale delle pianure pugliesi, dando ad essi la possibilità di leggere i classici dell’epopea cavalleresca, di comporre poemetti in ottave e di inventarsi musiche e balli da eseguire con la zampogna e il tamburo.
Nel mondo odierno, però, pastorizia e transumanza non ci sono più: da questo fatto Giancristofaro prende spunto per tirare conclusioni di ordine generale:
In queste sue parole è riecheggiato un tema che negli anni immediatamente dopo la guerra e poi nel decennio cosiddetto del Sessantotto era stato ripreso da gruppi intellettuali che avrebbero voluto innestare nella società moderna alcuni di quei valori che avevano sorretto il mondo contadino. Ma si è trattato di un desiderio intellettuale mai cominciato e non realizzato, forse perché le sorti della Nazione sono state sempre nelle mani non della politica e della cultura ma del potere economico, che ha come scopo principale della sua esistenza solo il profitto immediato. Capita così che le zone e i paesi dove non c’è possibilità di fare affari vengano abbandonati e coloro che restano devono pur inventarsi un modo di sopravvivere: come i giovani di Guilmi, paese in via di estinzione, i quali trovandosi senza lavoro accettano, dietro pagamento, di accompagnare i morti al cimitero. Costumanza alquanto strana che lascia perplessi chi legge la notizia e lo stesso studioso che la illustra.
L’altro tema, che offre al demologo di spaziare nella cultura tradizionale è quello del cibo che, come si sa, assolve diverse funzioni nella vita degli uomini, di cui la prima, quella dell’alimentazione quotidiana assume grande importanza, ovviamente, dal punto di vista dell’esistenza materiale, e l’altra, quella rituale e festiva su cui si basano gli universi simbolici. Giancristofaro usa queste due categorie per illustrare a lungo tutte le tradizioni culinarie e la storia dell’alimentazione delle genti abruzzesi. Si comincia col pane: quello nero, destinato ai meno abbienti, e quello bianco per le famiglie più agiate ma anche per i degenti degli ospedali. E poi la deficienza di grano, in alternativa al quale si usavano semi diversi (per il cosiddetto pane selvaggio, come ci ha spiegato Piero Camporesi) e il mais, che era l’unico alimento che cresceva abbondante nei piccoli poderi dei mezzadri e dei coltivatori diretti.
Per parlare delle cucine tradizionali locali, Giancristofaro affronta anche la questione, che spesso è misconosciuta nelle ricerche etnografiche, delle “piante alimentari”, di quelle erbe spontanee che «offrono una gamma vastissima nelle consuetudini nutritive della popolazione; anzi, esse costituivano la parte più consistente per la sopravvivenza della gente povera e dei contadini … e forniscono testimonianze e documenti di stratificazioni sociali e storiche, di condizioni economiche» (Giancristofaro 2018: 157).
La trattazione relativa ai cibi rituali prende molto spazio, perché essa prevede la contemporanea illustrazione delle occasioni festive in cui essi si consumano. Anche in questo caso, la sensibilità dell’Autore trovava modo di esprimere pertinenti considerazioni demologiche: dopo aver riportato l’informazione che in molti luoghi sono persone facoltose ad offrire i piatti rituali, come i cicerocchi o la panarda, una volta preparati per i poveri ed oggi offerti a tutti quelli che si recano sul luogo del cotturo, Giancristofaro osservava che queste occasioni, in cui si consuma comunitariamente cibo molto semplice e povero non festivo, istituiscono «legami profondi fra gli uomini».
Riguardo alla situazione novecentesca della cultura popolare tradizionale Giancristofaro non provava nostalgia; a volte, semmai, c’era in lui un po’ di rammarico, non tanto per la perdita del mondo folklorico, quanto per la scomparsa del senso di solidarietà e di rispetto umano che quel mondo caratterizzava; per questo, tra le righe delle sue opere, si legge che l’accettazione del presente non è priva di qualche recriminazione.
La produzione scientifica di Emiliano Giancristofaro si è protratta per oltre un cinquantennio: essa è molto vasta e comprende se non la totalità almeno una gran parte dei fenomeni folklorici di tutto l’Abruzzo. Si tratta di testi in cui sono confluiti sia gli apporti originali frutto delle ricerche personali, sia parte del materiale raccolto dai maggiori studiosi di folklore abruzzese, come il Finamore e il De Nino, sia i risultati dovuti ai lavori di altri ricercatori contemporanei, meno famosi ma non meno importanti.
E tutto sulla scia del De Nino e di Giuseppe Pitrè: egli solo di sfuggita si definiva demologo, perché preferiva essere uno “storico locale”. Il che non è stato vero, specie dopo aver conosciuto Alfonso Di Nola, che gli fece mettere da parte «le scorie dell’evoluzionismo e dell’anacronismo» e che è stato suo prefatore in varie occasioni editoriali. Tra l’altro, è qui da ricordare che ultimamente aveva curato alcuni scritti di Di Nola in collaborazione con Ireneo Bellotta, quest’ultimo scomparso proprio qualche settimana prima di Giancristofaro.
La sua opera, oltre ad una visione globale della cultura tradizionale abruzzese, mette in mostra la padronanza della materia che è discussa con una scrittura agile, corroborata, e per nulla appesantita, da una profonda cultura classica, cui si unisce una notevole varietà di letture storiche, letterarie, sociologiche e antropologiche. E soprattutto è pregevole il fatto che il folklore non è visto come un fenomeno chiuso in sé, immutabile nel tempo, in quanto c’è sempre un confronto tra il passato e il presente, tra la tradizione da una parte, e l’odierna cultura di massa. Tutto ciò, evidentemente, fa di Emiliano Giancristofaro più di uno storico locale, ma un Maestro dell’etnografia e della demologia italiana.
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