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“In Abortion We Mistrust”. Tre interpretazioni della sentenza Dobbs v. Jackson nel complottismo americano

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2022 @ 01:47 In Cultura,Società | No Comments

Norma McCorvey (Jane Roe) e la sua avvocata Gloria Allred dopo la sentenza Roe v. Wade

Norma McCorvey (Jane Roe) e la sua avvocata Gloria Allred dopo la sentenza Roe v. Wade

di Nicola Martellozzo 

Vite contestate, vite sostituite 

It is so ordered. Con queste quattro parole è stato siglato l’esito del contenzioso Dobbs v. Jackson Woman Health Organization, quattro parole che aprono una revisione delle leggi sull’aborto in tutti gli Stati Uniti. La decisione della Corte Suprema annulla di fatto la sentenza Roe v. Wade, emessa dalla stessa istituzione statunitense nel 1973. Ancora prima della sua ufficialità, l’opinione pubblica americana si è profondamente divisa sul tema, con un coinvolgimento che è difficile comprendere senza conoscere l’eccezionalità e la storia di quella sentenza. La Roe v. Wade è stata il risultato degli sforzi di un «growing movement for abortion reform among workers in the health, social service, and law professions during the early 1960s» (Ginsburg 1989: 37), che entro il 1972 aveva portato quattordici Stati ad approvare leggi per l’aborto terapeutico. La decisione della Corte Suprema diede, per così dire, riconoscimento e autorevolezza a un mutamento storico nell’opinione pubblica del Paese, che ha retto bene alla prova del tempo: oggi come negli anni Novanta, il 60% della popolazione rimane favorevole all’aborto (Ophir et al. 2022: 2). Ad essere cambiata è la struttura dell’opinione pubblica, con la creazione di nuovi spazi e l’ingresso di attori inediti o del tutto marginali, fino ad ora. 

In questo contributo non tenteremo una ricostruzione del dibattito sull’aborto nel contesto statunitense, né approfondiremo le ripercussioni dell’annullamento della sentenza o le specifiche categorie e istituzioni giuridiche coinvolte nel processo. Invece, riprendendo le fila di un’analisi già avviata nei mesi precedenti (Martellozzo 2022: 127-152), cercheremo di comprendere come la questione Roe v. Wade abbia aggiunto un nuovo tassello al mosaico del complottismo statunitense. La teoria della “Grande sostituzione” promossa dal nazionalismo bianco, il panico morale per un’imminente insurrezione violenta dei gruppi estremisti left-wing [1], e il ritorno dei post oracolari di Q dopo un anno e mezzo di silenzio sono tutti fenomeni che inseriscono la decisione della Corte Suprema in un quadro “occulto” più ampio ed eterogeneo.

Prima di analizzare come la sentenza del 24 giugno 2022 abbia influito sull’ambiente complottista statunitense, è opportuno esaminarne brevemente le ripercussioni sul diritto all’aborto. Partiamo dal fatto che nelle novantotto pagine di motivazioni alla sentenza non c’è alcun giudizio morale esplicito sull’aborto in sé. I giudici della Corte Suprema non hanno preso posizione né a favore né contro, consapevoli della problematicità del tema, esprimendosi invece sulla costituzionalità della sentenza e, di conseguenza, del diritto all’aborto. Quest’ultimo possiede caratteri unici, non equiparabili a quelli sanciti nella Costituzione americana, che sono al contrario «deeply rooted in this Nation’s history and tradition and implicit in the concept of ordered liberty» (SCUS 2022: 5). Qui entra in gioco un concetto specifico dell’ordinamento giuridico statunitense, ossia quello di “libertà ordinata” che si contrappone alla libertà assoluta potenziale, differenziandosi attraverso l’imposizione e l’accettazione di limiti ad azioni e comportamenti specifici. Vedremo come la questione dei limiti culturali e dei confini simbolici ritornerà costantemente, a cominciare proprio dalla sentenza del 1973.

La sentenza Roe v. Wade ha rappresentato infatti uno spartiacque nella società statunitense, garantendo a livello federale il diritto all’aborto. Di fronte alla frammentarietà delle legislazioni nazionali, per quasi cinquant’anni questo documento ha permesso l’accesso alle strutture sanitarie per milioni di donne, arginando al tempo stesso la promulgazione di leggi più severe o restrittive da parte dei singoli Stati. Non possiamo comprendere le ripercussioni del suo annullamento se non consideriamo questo doppio valore, di garanzia e argine. Del resto, tutta la questione dell’aborto si gioca intorno a soglie e limiti: quando il feto diventa una persona? Entro quante settimane, mesi o trimestri la donna può decidere se abortire o meno? Quale condizione o capacità differenzia un embrione da una “vita fetale” o da un neonato? Sono domande che ricorrono costantemente nel dibattito sull’aborto, in cui vediamo schierati non soltanto medici, ma anche bioeticisti e filosofi.

Come antropologi siamo in grado di riconoscere l’inevitabile ambiguità e arbitrarietà di ogni limite culturalmente dato, specie di quelli che toccano la sfera esistenziale. Ma per giuristi e legislatori, che nel nostro contesto sociale sono incaricati di tracciare questi limiti, l’ambiguità è problematica, o peggio, inaccettabile. In questo senso la sentenza Roe v. Wade fissava alla fine del secondo trimestre della gravidanza il termine entro il quale ogni donna statunitense poteva ricorrere all’aborto. Questa soglia è determinata dalla cosiddetta viabilità fetale, cioè la capacità del feto di sopravvivere autonomamente fuori dal ventre materno. Al centro della sentenza c’era l’intendimento secondo il quale nessuno Stato poteva proteggere la vita fetale prima di questa viabilità: da una soglia biomedica culturalmente fissata derivava perciò un limite legislativo altrettanto netto. 

«Abortion presents a profound moral issue on which Americans hold sharply conflicting views. Some belive forvently that a human person comes into being at conception and that abortion ends an innocent life. Others feel just as strongly that any regulationofabortion invades a woman’s right to control her own body and prevents women from achieving full equality. Still others in a third group think that abortion should be allowed under some but not all circumstances, and those within this group holda variety of views about the particular restrictions that should be imposed» (SCUS 2022: 2). 

Nel caso Dobbs v. Jackson è stata presa in esame la costituzionalità della legge sull’aborto del Missisippi (Missisippi’s Gestational Age Act) che anziché rispettare il limite del secondo trimestre aveva spostato il termine massimo alle quindici settimane. Già prima del giudizio della Corte Suprema, l’opinione pubblica era stata informata della probabile cancellazione della sentenza grazie a una fuga di notizie senza precedenti: il 2 maggio venne diffusa una bozza riservata, sostanzialmente identica alla successiva versione ufficiale al netto dell’opposizione dichiarata di tre giudici. Gli argomenti portati dalla Corte per l’annullamento della sentenza Roe v. Wade sono principalmente tre: (a) l’aborto (non il suo diritto) è una questione cruciale dalle profonde implicazioni etiche e sociali; (b) la sentenza del 1973 è priva di precedenti storici e basi giuridiche solide, per cui «the inescapable conclusion is that a right to abortion is not deeply rooted in the Nation’s history and traditions. On the contrary, an unbroken tradition of prohibiting abortion on pain of criminal punishment persisted from the carliest days of the common law until 1973» (SCUS 2022: 24); (c) ne consegue che la sentenza in sé, come atto giuridico, costituisce un’applicazione indebita di potere che «usurped the power to addres a question of profound moral and social importance that the Constitution unequivocally leaves for the people» (SCUS 2022: 40). Nella sentenza del 1973 c’erano sicuramente delle criticità, anche se non del genere espresso dai giudici. Faye Ginsburg, antropologa statunitense che negli anni Ottanta si è occupata del dibattito sull’aborto nella comunità di Fargo (ND), osservava già allora che: 

«The court offered no provision or guarantee for making abortion available, nor did the health care system respond uniformly to the increasing demand for abortion services. The gradual realization of the uneven availability of abortion in many parts of the country eventually resulted in pro-choice efforts to ensure more widespread, low-cost abortion services» (Ginsburg 1989: 41). 

fig-2La componente sociale della sentenza è stata considerata in modo alquanto marginale dai giudici, che pure hanno dimostrato una grande solerzia nella ricerca storica e nella ricostruzione della percezione culturale dell’aborto negli Stati Uniti. I decenni di lotte e impegno politico della prima metà del Novecento sono quasi totalmente disconosciuti in questa ricostruzione, e si ha così l’impressione che la sentenza del 1973 sia stata un azzardo privo di alcun fondamento, estraneo ai “valori tradizionali” della nazione. Insomma, «Roe was egregiously wrong from the start. Its reasoning was exceptionally weak, and the decision has had damaging consequences. And far from bringing about a national settlement of the abortion issue, Roe and Casey have enflamed debate and deepened division» (SCUS 2022: 6). La conseguenza più immediata della sentenza Dobbs v. Jackons è che la possibilità di ricorrere all’aborto non è riconosciuto come un diritto costituzionale fondamentale, e che la competenza circa la sua regolamentazione è rimandata (o restituita, secondo la Corte Suprema) agli elettori e ai loro rappresentanti. Che la stessa istituzione giuridica contraddica, per così dire, se stessa, è un punto che chiaramente emerge nel dibattito, e che i giudici hanno giustificato riferendosi ad altri precedenti.

Ora, la scelta di questi casi non è stata delle più felici, dato che la Corte paragona l’annullamento della Roe v. Wade con quello della sentenza Plessy v. Ferguson del 1954, la quale mise fine alla discriminazione razziale nei contesti pubblici. Un atteggiamento fondamentalmente razzista giustificato su un’interpretazione fallace della Costituzione. Ma non è bastato cancellare una legge, o censurare una parola, per eliminare quell’atteggiamento, ancora diffuso negli Stati Uniti sotto molteplici forme. Una di queste è particolarmente interessante per il nostro caso, dato che congiunge razzismo, diritto all’aborto e teorie complottiste. Si tratta del Great Replacement, una variazione dell’idea di sostituzione etnica particolarmente diffusa tra i nazionalisti e suprematisti bianchi.

Per costoro la maternità è un valore assoluto, un dovere che ogni donna ha nei confronti della propria comunità e della propria razza. Ogni pretesa di controllo del proprio corpo da parte della donna è assolutamente secondaria, e dovrebbe semmai passare per il marito o il padre. «The perpetuation of a pure white race, threatened by the politics of multiculturalism, immigration, and feminism (per the ‘Great Replacement’) is at the heart of the White Nationalist movement» (Ophir et al. 2022: 5). Al centro di questa teoria c’è la paura di un “genocidio dei bianchi”, destinati a diventare una minoranza oppressa o a scomparire del tutto. Tali idee non sono affatto recenti nel contesto statunitense: erede di una lunga tradizione anti-abortista ottocentesca, la teoria della sostituzione etnica si lega alla condanna verso le donne che rovinano la propria razza: 

«The writings of […] antiabortion physicians portrayed any practice that interfered with the reproductive functions of white middle-class women in particular as threatening to what they considered to be “female nature”. In this construction, women were held responsible for the decline of “the white race”; abortion and birth control came to signify, more broadly, women’s “betrayal” of men, marriage, the family, and the very future of society» (Ginsburg 1989: 27). 

Ritorna la questione dei confini. Per i gruppi di white nationalist la sentenza Roe v. Wade non è affatto un argine, bensì una fonte di anarchia e disordine; al contrario, la negazione dell’aborto diventa il modo per ristabilire i “giusti” confini sociali e identitari, proteggendo la razza bianca. In realtà, è più corretto dire che l’anti-abortismo si applica solo alle donne bianche, mentre per le corrispettive di altri gruppi (afro-americani, asiatici, latini) è decisamente auspicato, sempre nell’ottica di uno scontro tra “razze” per il dominio demografico degli Stati Uniti. La teoria del Great Replacement non si limita alla questione dell’aborto: politiche migratorie e demografiche, sussidi finanziari e accesso ai servizi pubblici sono altri aspetti su cui, secondo i suoi sostenitori, si gioca la partita della sostituzione. E tuttavia l’aborto costituisce un punto cruciale, sia per la convergenza di temi etici e religiosi, sia perché passa letteralmente attraverso i corpi dei – anzi, delle – nazionaliste bianche.

La capacità di questa comunità politica estremista di influenzare la regolamentazione del diritto all’aborto permette non solo di esercitare un potere sui corpi delle donne, ma anche di legittimare e “normalizzare” certe retoriche razziste. Inoltre, come nel caso dei vaccini, la politicizzazione dell’aborto produce distorsioni e sfiducia nei confronti delle posizioni scientifiche e delle conoscenze ortodosse (Ophir et al. 2022: 17), raccogliendo consenso su altri fronti. Questi due aspetti spiegano anche perché quella del Great Replacement sia la teoria complottista di gran lunga più diffusa tra i conservatori right-wing; non tra rappresentanti di movimenti con percentuali da prefisso telefonico, ma tra membri del Partito Repubblicano che la utilizzano nella propria comunicazione politica. Non è più possibile pensare il complottismo come un fenomeno di nicchia giacché, come insegna Hofstadter (2021), un certo “stile paranoide” ha sempre fatto parte della politica americana. Le tensioni seguite alla decisione della Corte Suprema hanno dato nuovo vigore a questo orientamento, che non è estraneo da un certo calcolo politico per la ricerca di consenso. 

moral-panicThe Night of Rage 

La notte della rabbia (Night of Rage) si candida come uno dei più recenti e interessanti mitemi elaborati all’interno del complottismo statunitense. Al contempo, dimostra come l’interpretazione di un fenomeno sociale venga distorto e risignificato da una pluralità di gruppi che, anche se mancano di una alleanza dichiarata, condividono un continuum di immaginari culturali e utilizzano strategie narrative simili. Nella creazione della Night of Rage come “mito” non sono coinvolti solo minoranze marginali o estremiste alt-right, bensì politici conservatori e Repubblicani (right-wing). Anzi, soprattutto quest’ultimi hanno contribuito ad alimentare un clima di panico morale, in cui alcune frange estremiste left-wing pro-aborto vengono viste come avanguardie di un’insurrezione civile dalle conseguenze disastrose. La categoria del moral panic si applica particolarmente bene al contesto del complottismo, che spesso genera forme di paura collettiva e ingiustificata. Goode e Ben-Yehuda (2009) definiscono il panico morale per mezzo di cinque fattori: anzitutto, un alto livello di preoccupazione (concern) nei confronti del comportamento di certi gruppi, ritenuto causa di conseguenze negative sulla società; ne consegue un aumento dell’ostilità (hostility) verso quel gruppo, con la tendenza a creare schieramenti dicotomici ed essenzializzanti (noi vs. loro). Qui entra in gioco il consenso (consensus) verso questa visione, che se anche non riguarda la totalità della popolazione è abbastanza alto da garantire supporto a coloro che si ergono a “difensori” della società; poco importa che questo consenso sia sincero o frutto di tecniche comunicative o di manipolazione. A questo contribuisce un fattore di sproporzione (disproportion), cioè la percezione che la minaccia sia molto più pericolosa o consistente di ogni valutazione realistica. Infine, la volatilità (volatility) di questo tipo di panico, che tende a scomparire in fretta, dimenticato o sostituito da altri problemi più cogenti (Goode & Ben-Yehuda 2009: 37-43).

Torniamo perciò al nostro caso, e vediamo se sia possibile rintracciarvi tutti questi fattori. In un tweet pubblicato il 24 giugno, il membro del Congresso Kevin McCarthy ha affermato che «Biden has a Costitutional duty to keep Americans safe – he must direct the Justice Department to deter and prevent violence against Supreme Court Justices, churches, and pro-life pregnancy centers. Now. Before it’s too late» (Holt 2022). In queste tre righe troviamo una sintesi di tutto l’immaginario complottista legato alla Night of Rage, compreso il fatto che essa non venga mai nominata, ma solo suggerita; McCarthy elenca i bersagli di questa insurrezione imminente, ma mentre è chiaro il riferimento alla sentenza Dobbs v. Jackson, quello alle chiese non è immediatamente comprensibile. Non si capisce nemmeno chi siano i perpetratori di queste violenze, che rimane per così dire disincarnata. Traspare invece l’urgenza dei provvedimenti (ma quali?) richiesti al Presidente Biden, ma in questo appello al “dovere costituzionale” risuonano ancora i fatti e le narrazioni dell’assalto al Campidoglio, e all’ambiguo coinvolgimento dell’ex-Presidente Trump. Insomma, il tweet di McCarthy possiede molte peculiarità delle retoriche complottiste: profetizza una minaccia oscura e imminente, suggerisce connessioni nascoste con altri fatti e attori sociali, si identifica e difende aspetti della società americana dall’alto valore simbolico.

Tweet di Kevin McCarthy riferito alla Night of Rage]

Tweet di Kevin McCarthy riferito alla Night of Rage

Come molte altre teorie del complotto, essa prende spunto da fenomeni reali, distorcendoli e interpretandoli con una logica “oracolare”, come vedremo nel paragrafo successivo nel caso di QAnon. Ben prima dell’ufficialità della sentenza Dobbs v. Jackson si sono verificate proteste, disordini, e finanche atti di vandalismo nei confronti di centri anti-abortisti; non atti coordinati, ma episodi indipendenti organizzati localmente. Jane’s Revenge è un collettivo autonomo online che, all’indomani della fuga di notizie sulla decisione della Corte Suprema, ha pubblicato un appello diretto a tutte le donne, comunità e realtà femministe degli Stati Uniti per sfogare la propria rabbia contro la negazione del diritto all’aborto [2]. Uno sfogo che Jane’s Revenge ha esortato a focalizzare in una night of rage aggressiva, feroce, diretta contro quei soggetti – non meglio specificati – che incarnano la supremazia patriarcale e opprimono la libertà riproduttiva delle donne americane. L’appello si chiude con un motto piuttosto minaccioso: «to those who work to oppress us: If abortion isn’t safe, you aren’t either. We are everywhere». Una frase che, oltre alla ripresa esplicita del motto di Anonymous, è stata usata più volte durante gli atti di vandalismo degli ultimi mesi, spesso rivendicati dal collettivo. A dispetto di ciò rimane difficile quantificare la rilevanza di Jane’s Revenge, che più che un gruppo organizzato è pensabile come una rete di gruppi autonomi ideologicamente allineati e di recente costituzione. Lungi dal rappresentare una forma di terrorismo domestico, la Night of Rage invocata dal collettivo è rimasta un’esortazione senza concretezza, vuoi per il suo linguaggio fortemente aggressivo o per l’incapacità di organizzare e coordinare un evento simile.

Questo però non ha impedito ad altre parti della società americana di dipingere l’appello del collettivo come l’anteprima di una sollevazione violenta di massa. Come per sineddoche, Jane’s Revenge è diventato il rappresentante par excellence di tutte i movimenti di protesta nel Paese, giustificando così le critiche ai politici Democratici che hanno dato il loro appoggio. L’attacco è stato ancora più duro dopo l’arresto di diciassette membri del Congresso, tra cui Alexandra Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, per la loro partecipazione a un comizio di protestanti fuori dalla sede della Corte Suprema, lo scorso 19 luglio. Diversi politici e candidati Repubblicani hanno rivolto accuse pesanti ai loro colleghi, paragonando la Night of Rage a un nuovo attacco al Campidoglio, condotto stavolta da estremisti dell’altro fronte. È interessante notare come l’episodio del 6 gennaio sia stato rielaborato all’interno delle narrazioni complottiste: da momento di svolta e riscatto, apoteosi della profezia di QAnon, dopo il suo fallimento e l’insediamento di Biden l’attacco a Capitol Hill viene ora utilizzato per accusare coloro che più l’avevano condannato, ossia il Partito Democratico e i gruppi left-wing.

La Night of Rage diviene allora una sorta di controparte dell’assalto al Campidoglio, la minaccia di una esplosione violenta che, secondo rumors presto smentiti – ma non per questo meno efficaci – avrebbe come bersaglio le chiese. Che la narrazione complottista abbia scelto proprio le chiese come obiettivo della furia pro-abortista è decisamente significativo, dato che la dimensione religiosa fondamentalista (cattolica e protestante) è uno dei tratti comuni di buona parte della galassia alt-right, e le comunità cristiane statunitensi sono uno dei gruppi che più si oppone alla pratica dell’aborto. E tuttavia vediamo all’opera un meccanismo di distorsione dell’Altro, accusato di compiere gesti dissacranti che sono una trasfigurazione negativa di quelli della propria comunità; come nel caso degli ebrei, accusati di profanare l’ostia cristiana nei loro riti segreti, qui troviamo gruppi abortisti che assaltano le chiese. Ma nell’uno e nell’altro caso si tratta di accuse assurde che, come attraverso uno specchio deformato, restituiscono un immaginario in negativo della stessa comunità che accusa.

Questo tema di una violenza collettiva, questo panico per una guerra civile causata dal mondo liberale – supportato da chissà quali élite economiche – era già stato “testato” durante le proteste del movimento Black Lives Matter. Oggi come allora, la speculazione su un’insurrezione in attesa di esplodere ha portato, per reazione, alla mobilitazione armata di gruppi reazionari come i Proud Boys, o iniziative autonome di persone e comunità che afferiscono all’ideologia alt-right. Uno dei rischi maggiori della narrazione complottista della Night of Rage è quello di innescare un aumento della tensione sociale, portando a incidenti, violenze e scontri cruenti. Ormai abbiamo tutti gli elementi per affermare che ci troviamo davanti al tentativo di creare una forma di panico morale nei confronti dei movimenti pro-aborto. Certo, il consenso intorno al fenomeno e ai “difensori” Repubblicani è ancora lungi dall’essere completo, ma l’eco raggiunta tra i gruppi alt-right è già sufficientemente preoccupante; e non si tratta, in questo caso, di farsi prendere dal panico a nostra volta, bensì di ricordare tutti gli scontri avvenuti durante i mesi di mobilitazione di BLM. È probabile che la volatilità, ultimo dei fattori indicati da Goode e Ben-Yehuda, entri in gioco presto, non appena saranno trascorse le elezioni di midterm e i candidati al Congresso non avranno più bisogno del consenso tra le fasce estreme dell’elettorato.

41kuzmpjd5sQueste ultime non sono composte solo dai classici maschi wasp, ma anche da molte donne con posizioni critiche verso il diritto all’aborto. Uno degli aspetti più interessanti e complessi emersi dopo la sentenza Dobbs v. Jackson è proprio la pluralità ideologica delle donne americane, in cui movimenti femministi di protesta si contrappongono a gruppi, altrettanto dichiaratamente femministi, anti-abortisti. Una posizione ulteriore è quella del collettivo Jane’s Revenge, che prende esplicitamente le distanze dalle “self-proclaimed ‘feminist organizations’ and non-profits”, accusate di avere un atteggiamento troppo tiepido nelle loro proteste, «channeled into Democratic party fundraisers and peace parades with the police». Per la verità, questa differenza di vedute era presente anche negli anni Settanta. Come osserva Ginsburg, «although feminists had made clear that their position — access to abortion for all women — differed from the liberal “right to choose’ formulation, the two views were conflated as abortion rights activists consolidated around the goal of elective abortion» (Ginsburg 1989: 39).

Ciò non toglie che oggi, rispetto al passato, ci siano molte più donne – parlamentari, candidate o comunque impegnate in politica – che sostengono leggi fortemente restrittive verso il diritto all’aborto. Lo stesso Mississippi’s Gestational Age Act è stata proposta e sostenuta da parlamentari donne di quello Stato, e sono quasi un centinaio quelle che supportano pubblicamente le stesse idee [3]. Su posizioni più estreme, sono molte quelle che aderiscono al white nationalism, organizzate in gruppi come le TradWives, «hyper-feminine and submissive personalities […] framing racist politics as heroic and romantic» (Ophir et al. 2022: 4), o le FeMRA (female men’s rights activists). Discorso simile per il movimento complottista QAnon: sviluppatosi inizialmente all’interno di spazi virtuali ultra-maschilizzati, la sua diffusione massiccia tra la popolazione è legata alla grande partecipazione delle donne, che utilizzano social più diffusi come Instagram, Telegram e Facebook. A questo proposito, Bloom e Moskalenko (2021) sottolineano il ruolo cruciale e troppo spesso sottovalutato delle donne nello sviluppo di movimenti reazionari, estremisti o violenti: «Women have been at the forefront of white racist movements for the past 100 years. [...] QAnon women are symbols of the movement, and like martyrs across the political spectrum, they are able to motivate others to follow in their footsteps» (Bloom & Moskalenko 2021: 36-37). Ed è proprio a questo movimento che volgiamo ora lo sguardo. 

la-q-di-qomplotto-cover-sitoIl ritorno di Q 

Il 24 giugno, poco dopo l’ufficializzazione del verdetto della Corte Suprema e dopo diciotto mesi di silenzio, sono comparsi sul sito 8kun tre messaggi della misteriosa figura nota come Q. Tre nuove “briciole” che si aggiungono all’immensa matrice complottista di QAnon, vera e propria “cosmologia occulta” (Rabo 2020). Non è semplice definire una realtà come QAnon, sorta di convergenza nella galassia alt-right statunitense, composta da movimenti di nicchia (fringe movements), sottoculture online e milizie auto-organizzate. Ciò che rende coeso questo mosaico è l’approccio complottista, una forma eterodossa di teoria sociale che propone una (sovra-)interpretazione della politica, della società e finanche della Storia (Saltman 2020). Ma l’influenza della sua cosmologia complottista si estende ben oltre le comunità virtuali estremiste: circa il 17% degli statunitensi crede alle teorie di QAnon, pur non facendo direttamente parte del movimento, e un altro 37% non esclude il fatto che possa esserci un fondo di verità (Bloom & Moskalenko 2021: 5).

Questo non significa necessariamente che le teorie del complotto stiano guadagnando favore nel contesto mainstream. Un autore come Michael Butter, che si riallaccia all’ormai classico lavoro di Hofstadter (2021), sostiene che le forme di credenza eterodossa come QAnon siano ancora relegate ai margini della sfera pubblica statunitense, e siano ben lungi dall’avere l’influenza e il riconoscimento di altre teorie complottiste precedenti alla Seconda guerra mondiale. Analizzando la presenza di queste credenze nel contesto americano, Butter distingue tre periodi: il primo va dalla formazione delle colonie fino alla Guerra fredda, una fase decisamente lunga in cui le teorie del complotto venivano considerate una forma di conoscenza ortodossa e influente. Con gli anni Sessanta, e fino all’attentato dell’11 settembre, il complottismo viene degradato e stigmatizzato come insieme di credenze eterodosse. Butter sceglie provocatoriamente l’attentato a John F. Kennedy, notando come: «the Kennedy assassination was the first event in American history that triggered large-scale conspiracy theories that were problematised immediately and on a completely new level» (Butter 2020: 654). Questo non toglie che, più recentemente, lo stesso evento sia stato reinterpretato all’interno di QAnon, profetizzando il ritorno di Kennedy e il suo sostegno alla campagna elettorale di Trump (Martellozzo 2022: 139-152). E infatti, il terzo periodo riconosce alle teorie del complotto una natura bifida, ortodossa ed eterodossa al tempo stesso all’interno di uno spazio pubblico sempre più frammentato.

Non è un caso che tutto il movimento di QAnon sia nato all’interno del web, da una manciata di messaggi criptici e dall’incredibile lavoro di esegesi di alcuni utenti anonimi. Sarei quasi tentato di proporre un’analogia con i sūtra della cultura indiana, brevi testi aforistici che abbisognano di commentari più estesi per essere effettivamente compresi; ma mentre lì lo stile asciutto e talvolta enigmatico era funzionale alla trasmissione orale e al mantenimento del sapere all’interno di linee di discepolato, nel caso di QAnon troviamo un’oscurità fine a se stessa, che come certi testi usa la fumosità per nascondere la mancanza di contenuti. McIntosh si è occupato diffusamente di questa sovra-interpretazione della realtà operata dai membri di QAnon, che va ben oltre i post originali di Q.

9788845935916_0_536_0_75La ricerca spasmodica di significati segreti – dietro la gestualità dei politici, nelle date di pubblicazione di post online, nella disposizione dei seggi al Congresso – fa parte di una “ideologia semiotica” radicata nel movimento e nello stile comunicativo di Q. I messaggi volutamente criptici pubblicati in questi anni necessitano di una costante divinazione da parte dei lettori. Le “briciole” lasciate da Q vengono raccolte da (auto-definiti) “panettieri” (bakers), che svolgono un compito di esegesi e divulgazione amalgamando man mano le briciole nel corpo della macro-teoria di QAnon, fino ad ottenere un “impasto” grezzo per tutti i seguaci (Wu Ming 1 2021). La diffusione attraverso i social media corrisponde all’ultima fase di “cottura” dell’impasto, dopo la quale il “folQlore” viene consumato da milioni di persone in tutto il globo. Quest’ultima fase si differenzia anche per un cambiamento di spazio virtuale: se la diffusione delle briciole e il lavoro di interpretazione avviene in nicchie del web come 8kun, la propagazione mainstream delle teorie complottiste passa su Twitter. Tutta la prima fase si basa sugli ampi margini di ambiguità, e di conseguenza interpretazione, della comunicazione di Q, creando così un movimento “oracolare”. Il costante alt-signalling (McIntosh 2022: 10) di QAnon crea un’incompatibilità, quando non una vera e propria ostilità, nei confronti del linguaggio scientifico e nella comunicazione politica liberale, ritenute ambedue forme ingannevoli che nascondono verità accessibili solo a coloro che padroneggiano questa semiotica del complottismo.

Il primo dei tre post di Q arriva, nemmeno a dirlo, dopo l’ennesima invocazione da parte di un utente, che a nome di tutti chiede «Throw us a bone Q, we’ve all been waiting for what seemed like an eternity. What’s going on?». La rivelazione arriva dopo una manciata di minuti, pochi di più delle parole usate da Q: «Dev’essere fatto in questo modo» (It had to be done this way). Notiamo subito il doppio livello di significazione, con cui egli si riferisce tanto al modo in cui avviene la comunicazione con gli altri utenti, quanto al modo in cui altre cose – nella società o nella Storia, il livello rimane discrezionale – devono essere fatte. Molti hanno abbinato questo messaggio alla sentenza della Corte Suprema, dando inizio a una nuova catena di domande. Il processo oracolare ha inizio, e a stretto giro arrivano due nuovi messaggi di Q: «Shall we play a game once more?» e «Are you ready to serve your country again? Remember your oath». Entrambe le domande costituiscono un appello per tutti i seguaci, una mobilitazione – alquanto ambigua nei suoi termini – per proteggere il proprio Paese. Da chi, e in che modo, non viene detto. Potremmo legittimamente aspettarci una ripresa della Night of Rage, un invito a combattere l’élite occulta di Democratici ed ebrei che manipola le proteste. E invece è proprio qui che la cosmologia occulta di QAnon dà prova della sua creatività, e si distacca nettamente dalla teoria complottista più mainstream, ritenendo quelle proteste e quegli atti di vandalismo delle false flag.

→ [I primi due messaggi di Q del 24 giugno 2022]

I primi due messaggi di Q del 24 giugno 2022

In altre parole, finte operazioni orchestrate dal governo che, fingendo di attaccare se stesso, ha il doppio vantaggio di scaricare la responsabilità su certe categorie sociali e sviare l’attenzione pubblica da altri avvenimenti. Questo atteggiamento è il motivo per cui Rabo (2020) parla di una continua divinazione da parte di QAnon, che rifiuta di accettare ciò che è palese, in superficie, e cerca di scoprire la dimensione nascosta che sta dietro la “realtà”. Dal punto di vista di QAnon, la storia della Night of Rage è fin troppo scontata, e il timore di un’insurrezione armata serve a distrarre l’opinione pubblica dal vero pericolo. O meglio, a concedere al governo il tempo per insabbiare la verità sulle frodi elettorali del 2020.

L’attenzione di QAnon si sposta così dalla sentenza Dobbs v. Jackson al film 2000 Mules, diretto da Dinesh D’Souza e uscito a maggio 2022. La pellicola ripercorre le elezioni presidenziali del 2020 svelando i retroscena che portarono alla sconfitta di Trump, ossia una massiccia campagna di brogli elettorali orchestrata dal Partito Democratico. D’Souza non è nuovo a questo tipo di operazioni, e la sua produzione letteraria e cinematografica è assai apprezzata negli ambienti complottisti. Moltissimi membri di QAnon hanno trovato in 2000 Mules una rappresentazione di forte impatto, che riprende, elabora e amplifica tutti i temi usati dall’ex-Presidente Trump durante (e dopo) la sua campagna elettorale contro Biden. Nonostante l’assalto a Capitol Hill e il fallimento della profezia millenarista, Trump continua ad essere al centro della cosmologia complottista di QAnon. Anche nel terzo post di Q i membri del movimento hanno trovato spunti per questa interpretazione: il messaggio è ovviamente rivolto ai membri di QAnon, chiamati in modo personale e al tempo stesso astratto ad una partecipazione diretta; al tempo stesso, il tema del giuramento (oath) di una persona che torna a servire il Paese è un richiamo palese alla figura di Trump, che molti credono tornerà alla ribalta nel 2024. Mentre il primo e il terzo post giocano sull’ambiguità dei loro referenti, il secondo messaggio ha un ruolo meta-comunicativo: l’invito a continuare il gioco, inteso come quel bricolage divinatorio e di impasto delle briciole di Q che caratterizza QAnon.

filmIl modo in cui la sentenza Dobbs v. Jackson è stata integrata nella teoria cospirativa del movimento si differenzia fortemente dai casi precedenti. L’annullamento della sentenza Roe v. Wade ha rappresentato un evento decisamente positivo per il nazionalismo e il suprematismo bianco, in quanto la decisione della Corte Suprema costituisce per loro un argine al processo di sostituzione razziale. Ha generato molte più inquietudini tra i politici right-wing, non per la sentenza in sé bensì per la minaccia di una Night of Rage in risposta alla stessa; il clima di panico morale che vanno alimentando fa largo uso di immaginari e narrazioni complottiste, coinvolgendo le comunità alt-right più marginali. Infine c’è l’interpretazione di QAnon, per cui la sentenza non è altro che una cortina fumogena per celare le azioni della cabala satanista dei Democratici, nel loro tentativo di mantenere a tutti i costi il potere negli Stati Uniti. Come per le posizioni delle donne statunitensi, anche nel complottismo americano emerge una marcata pluralità di posizioni all’interno di immaginari culturali che sono, almeno in parte, condivisi. È difficile che queste interpretazioni “occulte” riescano a imporsi tra l’opinione pubblica statunitense al punto da cambiare radicalmente la percezione del diritto all’aborto. È più probabile il contrario, ovvero che un graduale mutamento sociale, di cui la Missisippi’s Gestational Age Act e la Dobbs v. Jackson sono espressioni formali, si stia manifestando anche nell’immaginario complottista; certo in una forma distorta ed estrema, ma non per questo meno significativa. 

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
Note
[1]   Ho preferito mantenere i termini statunitensi dato che la loro traduzione in italiano sarebbe equivoca. Left-wing e right-wing corrispondo grosso modo ai due principali schieramenti politici, rappresentanti (ma non completamente) dal Partito Democratico e dal Partito Repubblicano. Tuttavia sarebbe scorretto rendere i due poli con “sinistra” e “destra”, dato che anche le posizioni più liberal e progressiste dei Democratici sono distanti da quelle della sinistra socialista o riformista di stampo europeo. Nazionalisti bianchi e gruppi alt-right rientrano all’estremo dello schieramento conservatore, e sono pertanto classificati come far-right.
[2] È possibile leggere il post originale di Jane’s Revenge qui: https://www.anarchistfederation.net/janes-revenge-night-of-rage/ [controllato 03/08/22].
[3] Brief for Women Legislators and the Susan B. Anthony List as Amici Curiae supporting Petitioners, https://www.supremecourt.gov/DocketPDF/19/19-1392/185313/20210729144717861_Amici%20
Brief%20of%2079%20Women%20Legislators%20and%20The%20Susan%20B%20Anthony%20List.pdf[controllato 03/08/22] 
Riferimenti bibliografici 
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).

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