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Immaginario di un cittadino e cittadino immaginario
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2021 @ 00:27 In Cultura,Migrazioni | No Comments
per la cittadinanza
di Linda Armano
Si potrebbe dire che le società umane hanno due confini. Uno è tracciato dalle esigenze del mondo naturale e l’altro dall’immaginazione (Susan Griffin, “To love the Marigold. Hope & Imagination”, 2005).
In un pomeriggio del 2005 la scrittrice Susan Griffin si recò a Parigi a visitare una piccola mostra di fotografie scattate in Messico da Tina Modotti negli anni Venti e Trenta.
Nell’osservare la bellezza di tali immagini, la scrittrice si impressionò degli sguardi di uomini e donne colti davanti alla sede del partito comunista messicano. In una fotografia, un uomo sorreggeva una bandiera statunitense recuperata dai primi sandinisti in Nicaragua. Lo scatto immortalava un momento di vittoria che si rifletteva negli sguardi delle persone fotografate le quali, allo stesso tempo, comunicavano una peculiare innocenza e speranza tipica delle espressioni dei bambini. Osservando questi volti, la scrittrice si soffermò a pensare come la vita sia spesso difficile, soprattutto in concomitanza con periodi di violenza.
Satura della bellezza e del dolore di quelle immagini, l’umore della scrittrice cambiò nuovamente di fronte ad altre fotografie. Ora queste ultime narravano fatti recenti immortalando una fila di persone affiancate da uno schieramento di poliziotti a Montparnasse. Rispetto agli scatti di Modotti il contesto era qui più contemporaneo: strutture in acciaio e in vetro erano ai margini della fotografia. Eppure, stranamente, rifletteva la scrittrice, in questo nuovo mondo caratterizzato da ogni confort, i volti delle persone nelle fotografie, con sullo sfondo grattacieli a icona di un potere anonimo, sembravano essere impotenti. Nel nostro mondo infatti, sosteneva Griffin, tra coloro che vorrebbero o cercherebbero un cambiamento sociale la disperazione è ormai endemica. Schemi ripetuti di insoddisfazione cronica si legano a comportamenti di impotenza. Narrazioni di paura e odio, che orientano verso il fallimento dei sogni, smontano modelli e utopie per progettare un futuro migliore.
La sfiducia per ogni forma di politica sfocia nel nichilismo. La situazione sembra disperata, ma la stessa Griffin ed altri autori sostengono che in questa visione c’è ancora qualcosa che non può essere accettato. Di fatto, alcuni comportamenti sparsi mostrano che la rotta può essere ancora invertita. In How Did We Do That? The Possibility of Rapid Transition (2017), Andrew Simms e Peter Newell, raccontando l’episodio dell’eruzione dell’Eyjafjöll in Islanda che nel 2010 liberò nell’atmosfera per migliaia di chilometri una nube di ceneri vulcaniche paralizzando buona parte del traffico aereo mondiale, descrivono alcuni interessanti cambiamenti nei comportamenti quotidiani della popolazione avvenuti a seguito di tale episodio. I supermercati sostituirono quasi immediatamente merci trasportate via aerea con alternative locali, le persone scoprirono altri modi, più lenti, di viaggiare o giunsero alla conclusione che certi spostamenti erano superflui.
Nonostante oggi sempre più persone pensano di avere ormai poche possibilità di riscatto, è giusto sottolineare come ogni epoca della storia è testimone di passaggi repentini che innescano ingegno, prosperità, capacità creativa e spirito solidale. A tal proposito Rob Hopkins (2020) testimonia la sua esperienza personale quando, dieci anni fa a Totnes (cittadina di 8500 abitanti nel Devon in Inghilterra), cominciò a pensare, con un gruppo di amici, a come poter fare fronte alle sfide imposte dalla nostra epoca, partendo da iniziative dal basso direttamente progettate ed esperite da una comunità di individui che lavorano assieme, senza considerare utopistiche proposte dai governi e dalle imprese. Hopkins afferma infatti che le soluzioni non risiedono nello sterile isolamento del survivalismo, nella critica del consumismo selvaggio o nella sfiducia attesa di un qualche leader politico capace di salvare la popolazione. Le soluzioni, secondo l’autore, risiedono nella dimensione comunitaria: «Se aspetteremo i governi sarà troppo tardi, se agiremo come singoli individui sarà troppo poco, ma se opereremo come comunità potrebbe bastare e potremmo agire in tempo» (Hopkins 2020: 15).
Contemporaneamente a quando il gruppo di amici di Hopkins cominciava a far circolare l’idea di un nuovo progetto di socialità comunitaria a livello sempre più ampio, iniziò ad entrare nel loro uso linguistico anche la parola “transizione” per descrivere l’atto intenzionale di passare da un massiccio sfruttamento di risorse, alte emissioni di anidride carbonica, pratiche estrattive e frammentazione del tessuto comunitario ad una società culturalmente più sana, basata su economie locali più resilienti e diversificate, rapporti umani più solidi, biodiversità più ricca, più tempo disponibile, meno solitudine, più democrazia e più bellezza. Transition Town Totnes mise alla base delle sue iniziative il concetto di “come-sarebbe-se”. Da tale presupposto, riporta Hopkins, le cose ingranarono rapidamente. La gente piantava alberi da frutta in luoghi pubblici, coltivava ortaggi alla stazione dei treni, seminava verdure in condivisione con i vicini che avevano spazio inutilizzato in giardino. Tramite il crowdfunding le persone riuscirono ad acquistare un mulino (il primo a Totnes dopo più di un secolo) per macinare i cereali locali producendo in questo modo un’ampia gamma di farine ed inaugurando un festival annuale per celebrare i prodotti locali coltivati in città o nelle immediate vicinanze. Nel 2013 venne mappata a Totnes l’economia locale con il progetto, portato avanti dalla comunità, chiamato Local Economic Blueprint il quale invita ancora oggi le persone a sostenere sempre nuove imprese create dal basso. Nella città Hopkins e alcuni amici hanno aperto anche un birrificio artigianale, chiamato New Lion Brewery, di proprietà comunitaria il quale produce birre con ingredienti locali. Oltre a tali aspetti, il progetto Transition Town Totnes ha creato anche il Totnes Pound, ossia una valuta locale che ha ispirato poi molte altre valute locali nel mondo.
Nello stesso periodo in cui i cittadini della comunità stavano mappando l’economia locale, con il progetto “Strade in Transizione” circa 550 famiglie, suddivise in gruppi di sei-dieci nuclei, cominciarono a riunirsi per discutere di questioni relative al consumo dell’acqua, a produzioni sempre più efficienti di cibo e di energia oltre che per accordarsi sulle future azioni da compiere. Afferma Hopkins che quando ancora oggi viene chiesto ai partecipanti quale sia l’effetto più importante determinato dalla progettazione di Strade in Transizione, nessuna persona nomina il controllo dell’emissione di anidride carbonica oppure il risparmio di denaro. Tutti, al contrario, citano il senso di appartenenza ad una comunità formata direttamente da una nuova idea di cittadino. In generale quindi, più importante di qualsiasi progetto in sé, è immaginare un futuro creato assieme. In questo modo Hopkins ha cominciato pian piano a capire che le varie iniziative portate avanti all’interno di questo progetto, si stavano trasformando in una diversa storia che i cittadini di Totnes raccontavano su loro stessi, la quale, nel contempo, mutava anche il senso collettivo di quello che era considerato come “il possibile”:
Parte della bellezza della progettazione e della condivisione di immagini di futuro sta nel continuo esperimento:
Realizzare il mondo in cui aspiriamo a vivere e lasciarlo in eredità ai nostri figli è sostanzialmente un lavoro per l’immaginazione o per quella capacità che il pedagogista John Dewey definisce «possibilità di guardare alle cose come se potessero essere altrimenti» (cit. Greene, 2007: 20). Pare che lo studioso non sia l’unico a giungere a queste conclusioni. Nel 2009 Paolo Lugari, fondatore in Colombia dell’oasi sostenibile sperimentale Las Gaviotas, scrisse: «Più che una crisi energetica ci troviamo ad affrontare una crisi dell’immaginazione e dell’entusiasmo» (Lugari, 2009: 65). Allo stesso modo, lo scrittore Amitav Ghosh definì i cambiamenti climatici «una crisi della cultura e pertanto dell’immaginazione» (Ghosh, 2017: 43). Nello stesso periodo il giornalista George Monbiot sostenne che «il fallimento politico è essenzialmente un fallimento dell’immaginazione» (Monbiot, 2017).
Eppure nessuno sembra in grado di spiegare il motivo per cui l’immaginazione è così tanto messa da parte per progettare un futuro sociale così come il ruolo del cittadino. Perché siamo incapaci di unire le forze per concepire, alimentare e realizzare una visione in cui si affrontino sapientemente le crisi globali, guadagnandoci peraltro anche gusto nel progettare idee e nel viverle assieme? Afferma Hopkins che buona parte dell’umanità attuale sta diventando sempre meno creativa proprio nel momento storico in cui dovrebbe esserlo di più, in cui l’immaginazione proposta dal basso dovrebbe essere tonica e ben allenata, anziché flaccida e atrofizzata.
Dall’antropologia politica alla antropologia della cittadinanza
In anni recenti, i discorsi accademici sul concetto di cittadinanza hanno occupato un posto centrale all’interno dei dibattiti di antropologia politica, come anche dell’antropologia del lavoro, unendo il concetto di cittadinanza anche al concetto di educazione (Ladson-Billings, 2004; Spindler, 1987). Sostiene però Bradley Levinson (2011) che l’estensione del concetto di cittadinanza verso il concetto di educazione può essere inteso solo teoricamente nella misura in cui esso sia in grado di inglobare la costruzione dell’identità e degli orientamenti morali di un gruppo. La concezione di cittadinanza di Levinson è certamente più ampia rispetto ad una comprensione intesa come socializzazione politica. L’autore dà piuttosto una definizione esplicitamente politica del concetto di cittadinanza definendolo come segue:
Riprendendo Spindler, Lave sostiene che tutte le pratiche di educazione costituiscono delle formazioni di identità e quindi anche delle forme di cittadinanza (Lave, 2011). Lo stesso autore sottolinea come negli ultimi anni gli studiosi considerino la cittadinanza semplicemente come il tentativo di produrre e di mantenere una democrazia pubblica (Hall, 1996). In particolare, questa enfasi sul concetto di cittadinanza ha accompagnato l’ascesa della pratica democratica liberale partendo dalla Rivoluzione Francese. In effetti, l’unione tra cittadinanza e democrazia connota spesso una sorta di partecipazione attiva che si contrappone alla passività dei cittadini sottoposti a regimi autoritari. Infatti, sottolinea Lave, termini quali “political socialization” oppure “national identity formation” sono spesso applicati a regimi autoritari, mentre “citizenship education” invoca implicitamente un contesto democratico. Avverte però lo studioso che in taluni casi, i regimi contemporanei non democratici possono comunque dare vita a progetti collettivi di forme di cittadinanza. Si pensi per esempio all’Italia fascista oppure alla Germania nazista che determinarono pratiche altamente partecipative e patriottiche, sia in senso negativo che positivo, attraverso forme di resistenza (Lall and Vickers, 2009; Paley, 2002).
Alcuni autori ritengono inoltre che la globalizzazione economica, i nuovi flussi migratori transnazionali, una crescente cultura online e mediatica, nuove norme di doppia cittadinanza hanno complicato ciò che costituiva una relazione pressoché stabile tra territorio nazionale e cittadinanza legale (Levinson, 2011; Gupta and Ferguson, 1992; Ong, 1999; 2003). Il paradigma dell’affiliazione e dell’appartenenza, che in precedenza appariva limitato al clan, all’etnia, alla nazione è stato ora reso infinitamente più complicato (Trouillot, 2001). Ciononostante, la prospettiva attualmente acquisita da questi nuovi sviluppi ci ha anche costretto a renderci conto che la cittadinanza non è mai stata stabile e semplicemente legata al territorio come avremmo potuto pensare fino a qualche decennio fa. Le divisioni di classe, di genere e di religione hanno sempre scisso, dall’interno, le identità di cittadinanza (Rosaldo, 1999; Holland et al., 2007; Appadurai, 1996, 2002).
Come risultato di questa comprensione teorica, gli antropologi hanno intrapreso sofisticati studi sulla formazione della cittadinanza. A tal proposito Levinson (2011), in maniera originale, definisce la cittadinanza, come una sorta di educazione a pensarci cittadini, come gli sforzi delle società e dei gruppi sociali per educare i loro membri ad immaginare la loro appartenenza ad una comunità ed esercitare la loro partecipazione come cittadini (possibilmente in senso democratico). La caratteristica di tali studi è stata soprattutto quella di aver voluto esplorare nuove modalità attraverso le quali si sono potute formare pratiche culturali di cittadinanza.
Questi contributi non si sono quindi limitati ad analizzare il concetto di cittadinanza all’interno di uno spazio nazionale, ma si sono, per la maggior parte dei casi, estesi a livello transnazionale (Coutin, 2000; 2007), introducendo termini come “cittadinanza culturale inclusiva” (Flores, Benmayor, 1997) e “cittadinanza disciplinare” ossia vincolante in termini etnici, di classe o di genere (Ong, 1999). Per esempio Aihwa Ong (2003), usando il termine foucaultiniano di ‘governabilità’, ha esaminato il ruolo sociale dei fornitori di servizi immigrati cambogiani stanziati nell’area della baia di San Francisco al fine di comprendere comportamenti accettabili affinché i residenti li potessero considerare cittadini a tutti gli effetti. James Holston (2009) ha esplorato invece nuove forme di cittadinanza generate nelle periferie urbane delle principali citta brasiliane attraverso occupazioni di terreni adibiti a coltivazioni auto-organizzate. Purnima Mankekar (1999) e Lila Abu-Lughod (2005) hanno analizzato in modo assai incisivo il ruolo della visione di particolari programmi televisivi nella costruzione della cittadinanza nazionale di genere rispettivamente in India e in Egitto, mentre Sara Friedman (2006) ha studiato la complessa relazione tra la costruzione, da parte dello Stato cinese, di cittadini socialisti moderni e le pratiche locali relative all’abbigliamento delle donne nel sud est rurale. Altri autori hanno infine indagato il ruolo della scrittura creativa tra le madri immigrate (Hurtig, 2005), della cerimonia religiosa (O’Neill, 2010), di attività imprenditoriali (Werbner, 2004), della coscienza diasporica (Siu, 2005) e dell’attivismo politico (Coutin, 2000; Oboler, 1996) nel plasmare nuove forme di identità di cittadinanza.
Una delle più pregnanti branche, dal punto di vista teorico, dell’antropologia della cittadinanza riguarda il rapporto tra i gruppi indigeni e lo Stato-nazione in Sudamerica. Nell’ultimo ventennio, un’economia politica neoliberista in America Latina ha paradossalmente generato importanti forme di attivismo indigeno e vari movimenti sociali, che a loro volta hanno costituito nuove forme di cittadinanza e di rivendicazioni nazionali (De la Peña, 2006; Fischer, 2009; Postero, 2007). Nel contesto sudamericano, le riforme tendevano infatti a garantire un pluralismo simbolico multiculturale, restringendo però nel contempo le effettive possibilità di riforma agraria, di partecipazione politica e di giustizia sociale (Hale, 2002; 2006). Spesso inoltre, tali riforme neoliberiste hanno incluso nuovi programmi educativi “interculturali” generalmente destinati, in linea teorica, a creare opportunità per una significativa partecipazione indigena nel progetto di programmi educativi, nonché competenze per uno scambio sociale rispettoso che colmasse il divario tra indigeni e non indigeni in queste società. Tuttavia, nonostante la possibilità di incontri ed alleanze inaspettate, la cittadinanza interculturale è per di più nella pratica una forma simbolica di empowerment indigeno (Gustafson, 2009).
Il concetto di cittadinanza come costrutto culturale
Il concetto di cittadinanza non può essere concepito solo come un’idea giuridica o politica, ma esso necessita di essere inquadrato anche come una categoria culturale che sia l’espressione di una dimensione nella quale convergono identità, istituti e pratiche sociali. Per di più, in presenza degli attuali movimenti non più occasionali di migrazione, si apre l’ulteriore problema della discrepanza tra i diritti acquisibili con la cittadinanza e i diritti della persona. Questi ultimi, nonostante la relativa implementazione delle normative specialmente europee, sono destinati a rimanere diritti di nessuno in assenza dei requisiti relativi alla figura di cittadino di uno Stato nazionale. In mancanza di una cittadinanza cosmopolitica, la quale rimane un’aspirazione senza riconoscimenti istituzionali efficaci, le persone che escono dal perimetro della cittadinanza nazionale di origine entrano spesso in una zona di tolleranza sgradevole se non addirittura di rigetto totale, anche quando ottengono lo status di “rifugiati politici”.
Questo aspetto emerge in maniera particolarmente chiara quando si parla di cittadinanza europea la quale è segnata da una peculiare tensione tra una cittadinanza derivata appunto dallo Stato-nazione e una cittadinanza definita dalla libera circolazione. Da un lato quindi i diritti di cittadinanza sono concessi principalmente ai cittadini degli Stati membri e sono estesi solo parzialmente o in modo differenziale ai cittadini di Paesi terzi (Maas, 2008); dall’altro i diritti di cittadinanza nell’Unione si attivano principalmente attraverso pratiche di libera circolazione, rendendo la mobilità dei cittadini centrale per l’effettiva istituzione della cittadinanza europea (Aradau et al. 2010). Questa tensione fra integrazione e mobilità è stata mediata in termini prettamente territoriali e culturali nella letteratura sull’integrazione europea. Se mettiamo da parte la logica geopolitica del superamento della violenta rivalità interstatale attraverso l’integrazione funzionale, lo sviluppo della libera circolazione transfrontaliera europea è guidato prima di tutto dal ragionamento economico. Pertanto, i primi resoconti della costituzione di un sistema politico europeo concepiscono questo aspetto come dipendente dallo sviluppo di un livello sufficiente di integrazione sociale ed economica attraverso l’aumento della libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone.
Uno degli effetti più visibili determinato dall’incremento delle transazioni transfrontaliere tramite viaggi e mobilità legate al lavoro è anche una produzione, per contro, di sentimenti nazionalistici sviluppati da persone di Paesi diversi. Le mobilità funzionali sono quindi viste come potenzialmente costituenti una coscienza collettiva europea e un’identità europea espressa in cultura e valori condivisi. La mobilità è in questo caso un veicolo per trascendere le identità nazionali nella formazione di un demos sovranazionale. Allo stesso tempo è però innegabile anche un rafforzamento di rappresentazioni di diversità culturale determinate da più massicce opportunità di confronto tra cittadini europei.
Già nel rapporto Tindemans (Commissione 1976), la cittadinanza europea fu intesa come un veicolo chiave attraverso il quale venne espresso e contestato l’interesse a trasformare una comunità di Stati in una comunità di persone con uno status e un’identità comuni, creando quindi un passaggio da un’integrazione economica ad un’integrazione politica (Aradau et al. 2010). Questo particolare inquadramento della cittadinanza europea ha avuto una serie di importanti conseguenze. Sebbene la libera circolazione sia stata cruciale nel creare le condizioni economiche e sociali rispetto alle quali sono sorte le questioni di identità e status politici, la ricaduta politica ricercata attraverso la concezione della cittadinanza europea non è stata quella di politicizzare la mobilità, quanto piuttosto quella di passare dalla mobilità ad un diverso insieme di questioni riguardanti la costituzione di diritti e di valori culturali dei cittadini appartenenti agli Stati europei. All’interno di questo quadro però la mobilità continua a rimanere in gran parte una pratica socio-economica che crea le condizioni per una domanda di cittadinanza europea, anche se, di per sé, essa non è implicata in nessuna concreta questione politica, sociale e culturale.
É quindi il caso di riassumere rapidamente il percorso sulla costruzione della nozione di cittadinanza e di diritti. La cittadinanza moderna si definisce in rapporto a diritti di cui si può godere e a facoltà che possono essere esercitate per fruire di beni e di opportunità concernenti la realizzazione esistenziale. In un’analisi evolutiva, la cittadinanza decolla con la conquista dei diritti civili, che sono fondamentalmente i diritti alla proprietà e al libero scambio dei beni. I diritti civili maturano e si consolidano nel fronteggiare l’arbitrio del sovrano assoluto, il quale viene così circoscritto e delimitato a favore dell’autonomia della società civile che emerge con la sua capacità di autogestione (Totaro 2018). La seconda generazione dei diritti, come ha sottolineato anche Norberto Bobbio (1990), comprende i diritti politici grazie ai quali si esprime la facoltà di decidere. Nello Stato moderno molte categorie sociali sono state a lungo escluse dal voto e quindi dalla possibilità, almeno indiretta o per rappresentanza, di decidere. È stato il caso delle classi subalterne e delle donne. L’acquisizione sempre più estesa dei diritti politici, fino al suffragio universale per entrambi i sessi e senza limiti di censo, ha significato l’ampliamento della facoltà di decidere da pochi a molti. La terza generazione dei diritti è stata invece quella dei diritti sociali, grazie ai quali si è arrivati a partecipare a quote della ricchezza comune e al benessere che la convivenza rende disponibile. Possiamo così registrare, attraverso la crescita dei diritti, un’evoluzione nel godimento dei beni e delle facoltà che costituiscono concretamente il patrimonio della cittadinanza intesa anche come convivenza e condivisione.
Si è trattato di un processo progressivo e insieme faticoso, che è costato spesso lotte sia individuali sia collettive e che continua a impegnare molte categorie sociali per difendere i risultati raggiunti in una complicata situazione di contrasto alle diseguaglianze sociali. Nel percorso tracciato, il diritto del lavoro è stato uno dei pilastri fondamentali dei diritti sociali che si è assunto il compito storico di sottrarre il destino dei molti all’arbitrio dei pochi.
Le sorti attuali della cittadinanza non investono soltanto la tutela efficace dei diritti civili, politici e sociali, ma si giocano in misura sempre più rilevante a livello culturale. Ciò che oggi viene maggiormente sollecitato e messo in questione, nel vivo delle pratiche di convivenza, è il profilo antropologico-culturale della cittadinanza, che non è affatto sovrastrutturale rispetto ad altri ambiti che si possono più facilmente considerare strutturali. Oggi infatti la cultura, cioè l’espressione dell’essere dei soggetti, e del percepirsi tra soggetti, è diventata parte costitutiva dello stare insieme, determinando identità e senso di appartenenza, capacità di apertura o di chiusura alle relazioni di cui è intessuta la convivenza. La “ontologia sociale” (per riprendere il titolo di un’opera di Giörgy Lukács) si gioca insomma in misura cospicua sul piano della cultura e in proporzione ai beni culturali ai quali si è in grado di accedere: conoscenze generiche e specialistiche, stili di vita, gusti, strumenti di mobilità e di comunicazione, rapporto selettivo e qualitativo con la risorsa spaziale e temporale. La cultura, come cifra sostanziale della cittadinanza, struttura l’essere di ciascuna persona e il sistema delle relazioni intersoggettive, dall’ambito comunitario a quello sociale in senso più lato. La cittadinanza si apre in questo modo alla globalità della persona e dei rapporti interpersonali (Totaro 2013).
Nel quadro d’insieme sin qui delineato a grandi linee è possibile abbozzare alcune riflessioni in relazione soprattutto alla costruzione di uno statuto allargato della cittadinanza la quale si riferisce in primo luogo al concetto di persona nella sua totalità e alla complessità antropologica che la costituisce.
Se viene spesso considerato il lavoro la via di accesso privilegiata o persino esclusiva alla cittadinanza, privilegiando in questo modo il paradigma lavoristico, dobbiamo oggi non certo cancellare il lavoro dalla tavola dei suoi valori, bensì inserirlo nel contesto antropologico di cui lo stesso modello di una cittadinanza allargata non può prescindere. I cardini di un’idea soddisfacente dell’umano sono le dimensioni dell’essere, dell’agire e del lavorare. Queste dimensioni dell’umano, certamente costanti nella vicenda storica, vanno assunte senza fratture e riduzioni unilaterali e, inoltre, senza arcaiche gerarchizzazioni, le quali, nella cultura premoderna, hanno penalizzato l’immagine del lavoro. Come distinguere i tre momenti del lavorare, dell’agire e dell’essere nell’esperire umano? Il rapporto con l’essere consiste in un’apertura totale al reale e a ciò che ci è possibile. L’essere nella sua pienezza non è infatti rappresentabile come l’oggetto di una produzione, in quanto si offre piuttosto all’atto del contemplare. Noi contempliamo ciò che è incondizionato rispetto alla nostra potenza produttiva. L’apertura senza limiti all’essere non rimane però senza conseguenze sulla condizione umana. Essa dà conto dell’atteggiamento di libertà nei confronti di ogni situazione determinata. Inoltre, la contemplazione dell’essere che si dà da sé, e non è in nostro possesso, è la sorgente del dono gratuito nella relazione con gli altri.
Come configurare il momento dell’agire e perché distinguerlo dal lavorare? L’agire è indubbiamente intrecciato al lavorare, ma lo trascende perché, nell’applicarsi di volta in volta a fini specifici, è sempre un adoperarsi in vista del fine complessivo della persona. Le espressioni dell’agire, in cui riversiamo i nostri pensieri e i nostri affetti, sono orientate ad un incremento sia dell’essere della persona singola sia ad un arricchimento degli altri individui di cui ci sta a cuore la loro dignità. Su questa linea l’agire ricerca quindi modelli e norme per una convivenza giusta, nell’impegno politico volto al bene di tutti.
Il lavorare si specifica come l’attività che pone sempre capo a oggettivazioni, traducendosi in risultati oggettivi fuori di noi, siano essi prodotti della mano – in quanto azioni della nostra corporeità – o della mente, oppure della loro congiunzione. Lavorare è pervenire a disporre di un mondo per noi e prendersi cura di esso. Il lavoro si esplica in modo specifico sulla linea dell’avere qualcosa e del processo operativo coerente con tale obiettivo. Ciò vale anche per le operazioni rivolte ad altri soggetti, ai quali forniamo prestazioni secondo procedure e codici di servizio oggettivabili. Di conseguenza, la logica del lavorare esige il farsi strumento per lo scopo esteriore che si vuole o si deve ottenere. Proprio quest’ultimo esempio ci porta però sulle tracce della contaminazione del lavorare con l’agire e con l’essere. Nel distinguerli dobbiamo quindi tener conto della loro connessione. In particolare, possiamo dire che il lavorare, quando non cade o non si lascia catturare nell’astrazione della mera autosufficienza strumentale, è quella manifestazione specifica dell’essere e dell’agire grazie alla quale l’essere e l’agire giungono ad avere una figura determinata (Totaro 1999).
Il lavoro va quindi riconosciuto nella sua peculiarità e, al tempo stesso, va correlato con le altre dimensioni dell’umano. Collocare il lavoro in un contesto antropologico più ampio non significa affatto sminuirne l’importanza, ma è essenziale alla sua valorizzazione e rappresenta un antidoto al rischio della sua riduzione esclusivamente strumentale. Collegare il lavoro alla persona nel suo complesso mi sembra inoltre l’aspirazione oggi più diffusa, anche quando non sia facile realizzarla. In sostanza, la ricerca dell’intreccio tra il lavoro e gli elementi di azione e di contemplazione in grado di conferirgli una qualità integralmente umana può essere proposta come il paradigma culturale oggi più valido. Se noi assumiamo un orizzonte antropologico complessivo, nell’intreccio di contemplazione, azione e lavoro, ci dotiamo di un paradigma culturale più ampio e più soddisfacente di quello attualmente dominante. Esso ci permette di guardare al lavoro non come a una dimensione unilaterale, bensì come ad una dimensione che va integrata dall’agire, inteso come incremento di essere, e dall’attività contemplativa, che si volge all’essere incondizionato. In questo modo il lavoro verrebbe sottratto al mero «imperativo della prestazione» (Han, 2012: 26)
All’interno del discorso sul lavoro emergono, in questo modo, componenti consapevoli e autogovernate di azione e di essere e quindi elementi di sapere, di partecipazione, di responsabilità e di decisione, i quali rischiano di rimanere soffocati in un vissuto lavorativo ingabbiato in prestazioni di natura puramente quantitativa o assorbito nell’accanimento funzionalistico. É vero infatti che il lavoro, nella sua evoluzione, ha manifestato la capacità non soltanto di afferrare, avvicinare, trasformare e curare il mondo, ma anche di esplorarlo e conoscerlo con gli artifici che esso escogita e di cui si serve operativamente (Popitz, 1995). Questa potenza manifestativa e di disvelamento creativo delle forme del mondo sarà però tanto più valorizzata quanto più la sfera del lavoro sarà coltivata da un soggetto umano che abbia come orizzonte di senso anche l’azione e la contemplazione non asservite a scopi soltanto strumentali.
Discorsi sulla cittadinanza sono oggi largamente utilizzati da un vasto amalgama di attori che comprendono governi nazionali e locali, ONG, leader politici, membri di movimenti sociali, oltre che istituzioni come la World Bank. Molti antropologi e sociologi sottolineano però la necessità di incrementare nelle analisi la questione di come la cittadinanza viene vissuta dai soggetti all’interno di specifici contesti socioculturali, al fine anche di esplorare come si costituiscono particolari comunità e azioni di mobilitazione politica. Lazar e Nuijten (2013), per esempio, sostengono che la teoria della cittadinanza può essere applicata per comprendere l’appartenenza di vari soggetti ad una comunità politica che si concepisce separata ed autonoma dallo Stato. Stack (2014) ritiene invece che i cittadini messicani parlano di cittadinanza in un linguaggio di “socialità civile”, ossia con linguaggio morale capace di andare oltre il rapporto con lo Stato stesso. Nuijten (2013) compara le tipologie di lingue locali di appartenenza politica con i linguaggi usati dai parlamentari brasiliani per parlare di cittadinanza. Grisaffi (2013) analizza le idee sulla cittadinanza presidenziale per discutere delle formazioni della democrazia nella regione del Chapare, in Bolivia, in cui si coltiva la coca con lo scopo di comprendere come tali idee si articolano a loro volta con i linguaggi del governo nazionale boliviano. Holston (2009) mostra come, dagli anni Settanta, i residenti delle periferie urbane del Brasile hanno iniziato a formulare nuove forme di cittadinanza che sono andate a destabilizzare vecchie concezioni dei ruoli dei cittadini brasiliani. Le mobilitazioni, lungi dallo svilupparsi attraverso esplicite lotte sociali, si sono concretizzate in pratiche di resistenza illegale attraverso la costruzione abusiva di case e l’appropriazione illecita di campi da coltivare. Lo studioso notò però come, una volta raggiunta una maggiore stabilità democratica, cominciarono inspiegabilmente ad aumentare forme di violenza sociali.
Accostando il concetto di cittadinanza con possibilità di immaginare nuovi ruoli di cittadino, Nussbaum (1998) discute sul ruolo vitale delle arti, ed in particolare della letteratura, nel coltivare i poteri dell’immaginazione che, a loro volta, contribuiscono a costruire sensibilità necessarie ai cittadini responsabili. Nussbaum distingue inoltre tre capacità essenziali per creare cittadini consapevoli: «the cultivated world citizen» (Nussbaum 1998: 408):
Il lavoro etnografico ha quindi la grande capacità di mostrare come forme di cittadinanza sono concretizzate in contesti culturali diversi e come la costruzione del soggetto politico avviene attraverso processi sia top-down che bottom-up. Aihwa Ong riassume tale caratteristica suggerendo che la cittadinanza è un «processo di auto-costruzione» degli individui (1996: 737).
Un filo conduttore nell’antropologia della cittadinanza utilizza un’analisi foucaultiana per esaminare come gli Stati e altre entità costruiscono cittadini sotto vari regimi di cittadinanza. In questo modo è possibile quindi esaminare le interconnessioni tra soggetti e funzionari statali o politici. Un argomento importante ancora poco sviluppato nella maggior parte degli studi finora prodotti è però l’analisi dell’aspetto più creativo che risulta essere un utile strumento per immaginare forme nuove di cittadinanza e di conseguenza di cittadini che costruiscono loro stessi e contemporaneamente il mondo in cui vivono.
L’immaginazione, concetto con cui è stato aperto questo contributo, è forse il luogo in cui i confini tra cittadino e non cittadino sono più contestati. In questo luogo per esempio l’interazione tra assimilazione e rispetto della differenza è stata indagata dapprima attraverso il concetto di “cittadinanza culturale”, proposto per la prima volta da Renato Rosaldo (1999), per il quale la cittadinanza culturale:
Uno dei modi più importanti con cui gli Stati creano i cittadini è anche attraverso l’istruzione. Infatti, i sistemi scolastici nazionali sono stati a lungo riconosciuti come centrali per lo sviluppo dell’identità nazionale e dell’impegno civico. Sebbene così strettamente associata ai progetti di costruzione della nazione, oggi l’educazione è anche transnazionale e costituisce un’area chiave per l’intervento della costruzione culturale del cittadino. Tuttavia, le virtù promosse attraverso la scuola variano da Paese a Paese, valorizzando lingue, disposizioni fisiche ed emotive diverse. Tra i contributi antropologici più interessanti al dibattito scientifico resta comunque il modo in cui gli studiosi arrivano a mettere in discussione le formulazioni normative della cittadinanza al fine di esplorare i linguaggi e le pratiche di appartenenza politica, economica, sociale e culturale proprie di varie comunità.
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