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Il volontariato e le sfide aperte nel contesto economico-sociale globalizzato

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2023 @ 02:19 In Cultura,Società | No Comments

giv22_card_card-3-5-dicdi Giuseppe Lumia

Premessa

Il Volontariato moderno, strutturato in gruppi e reti, è immerso nei travagli del proprio momento storico. Non è infatti una realtà disincantata, avulsa dalle dinamiche più generali sul versante sociale, culturale, economico e politico. I volontari sono figli della società del loro tempo e le organizzazioni di volontariato condividono le ansie e si nutrono delle speranze del cammino dell’umanità.

Le drammatiche condizioni in cui versano interi popoli, le disuguaglianze disseminate nei contesti urbani e nelle aree interne delle società occidentali, gli esodi biblici degli immigrati che giungono in condizioni terribili sulle nostre coste, le tantissime guerre diffuse nel mondo, gli innumerevoli episodi di discriminazioni di genere e generazionali, i devastanti cambiamenti climatici, la diffusione delle dipendenze sia da sostanze che da comportamenti, il ruolo sempre più pervasivo delle mafie sono solo alcuni dei problemi nodali che caratterizzano il contesto in cui il Volontariato moderno fa esperienza quotidiana di accoglienza, di dono, di condivisione, di promozione dei diritti e delle nuove relazioni di comunità. Che sia impegnato in una stazione ferroviaria ad alleviare i mali dei senza fissa dimora, che agisca in un quartiere a rischio a sostegno dei bambini in difficoltà, che operi nelle comunità terapeutiche, che attivi i principali beni comuni, rimane sempre dentro il vortice e le contraddizioni del cambiamento. Che voglia o no, è partecipe delle difficoltà delle persone e della ricerca di nuovi percorsi di solidarietà e fraternariato. 

tavazzaIl “metodo Tavazza” e l’identità del Volontariato

Nella società globalizzata di oggi, a maggior ragione il Volontariato organizzato soprattutto a livello di reti nazionali e internazionali, avverte l’esigenza di capire di più e di alimentare meglio quella cultura e politica della liberazione dai profondi mali presenti nella società. Ecco perché è necessario anche per il Volontariato ripensare e riprogettare il proprio cammino, mettendosi in gioco a tutto tondo, restando tuttavia con i piedi ben piantati nella propria identità.

Anzi, a ben riflettere, il Volontariato moderno ha due dimensioni scolpite nella propria identità, che rimangono vitali e indispensabili al fine di rilanciare e orientare la propria attività: “il saper fare” e “il saper essere”. Il fare concreto scandisce l’impegno del Volontariato nella sua attività feriale. Senza questa dimensione operativa verso gli altri o il contesto culturale e ambientale, non c’è in sostanza Volontariato. Il “fare” è il primo pilastro del vivere dentro l’esperienza di un gruppo o di una rete del Volontariato.

Basta questo primo pilastro? No! C’è anche un altro pilastro meno evidente, meno appariscente ma altrettanto decisivo e costitutivo dell’identità del Volontariato moderno. È il “saper essere”, che lo rende soggetto di cambiamento della vita delle persone con cui si condivide un’esperienza di accoglienza o di impegno: così verso la società il Volontariato moderno agisce soprattutto in rete, con l’obiettivo di rimuovere le cause dell’emarginazione che conosce direttamente o su cui opera quotidianamente.

Ma c’è di più. Nel contesto globalizzato il Volontariato moderno avverte l’esigenza di strutturare un pensiero e una progettualità di più ampio respiro, visto che oggi tutto è concatenato, formando una sorta di interdipendenza a maglie strette tra i vari drammi e le speranze del nostro travagliato tempo storico.

A soccorso di questa complessa e creativa dinamica del “saper fare” concretamente e del “saper essere” soggetto di cambiamento, giunge il “metodo Tavazza”, il metodo cioè del principale fondatore e ispiratore del Volontariato moderno, che ha promosso l’esperienza del Movimento del Volontariato Italiano e dei primi coordinamenti dei soggetti sociali del Terzo Settore. Il “metodo Tavazza” si esplicava nel dare un ritmo di vita alle organizzazioni di Volontariato imperniato su tre coordinate tra loro integrate. La prima si riferisce alla formazione e alla comunicazione, peculiari per un Volontariato moderno e qualificato, in grado di cogliere i segni del cambiamento anche quando sono fragili e in nuce e di rendere i volontari formati e sensibili all’apertura verso la società, promuovendo una informazione sobria, non sensazionalistica o pietistica. La seconda fa riferimento alla dimensione del curare l’organizzazione e del promuovere l’agire in rete, per evitare lo sterile spontaneismo e per dare al Volontariato moderno una forte capacità di incidere sia sul piano locale sia su quello globale. La terza dimensione riguarda la sfera della progettualità e del concepirsi anche come soggetto politico per far acquisire al Volontariato moderno il profilo di un attore di cambiamento e liberazione, evitando così di essere una benvoluta stampella della società civile e delle istituzioni, che nel frattempo continuano a dispensare ingiustizie e disuguaglianze, così delegando al Volontariato una funzione meramente riparativa.

Le sorgenti da cui Luciano Tavazza ha tratto il proprio pensiero per supportare e promuovere, negli anni Settanta, l’avvio del cammino del Volontariato moderno sono due: il Concilio Vaticano II e la Carta Costituzionale italiana. Tavazza era un credente e, sin da giovane, autorevole dirigente dell’Azione Cattolica Italiana, che dalla feconda stagione conciliare seppe trarre quella visione capace di legare i percorsi di fede alla promozione umana, per liberare le persone fragili o in situazione di disagio dai meccanismi di soggezione, sfruttamento e sudditanza. Una fede in sostanza aperta al dialogo, in costante ricerca e sempre in condivisione con altre fedi e altre culture emancipative. Nel Volontariato moderno, che promosse, volle una laicità ispirata e aperta a tutti i contributi ideali forgiati lungo il cammino di liberazione e di crescita democratica delle società uscite profondamente ferite dalla Seconda guerra mondiale.

di-mario-1974-i-mali-di-roma-2Una tappa fondamentale per comprendere questa ispirazione fu la scelta di organizzare la partecipazione di molti cittadini al convegno su: “I mali di Roma” (1973), una clamorosa iniziativa con cui venne messo in discussione un assetto di potere che lasciava migliaia e migliaia di persone in condizioni di miseria nelle baraccopoli, ben descritte dalla sociologia e dalla cultura soprattutto del Neorealismo. Egli in quella circostanza animò una spinta finalizzata a rompere i cortocircuiti collaterali tra l’agire cristiano e le classi dirigenti autoreferenziali e a dare al Concilio Vaticano II quel respiro sociale che fu tradotto nel binomio “evangelizzazione e promozione umana” e nell’altra direttrice di marcia della “scelta preferenziale verso gli ultimi”.

L’altra fonte di ispirazione fu appunto la Carta Costituzionale, in particolare il secondo comma dell’articolo 3: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Si tratta di un fondamento culturale che ha unito le varie idealità costituenti. Nel Volontariato moderno, queste correnti calde, che davano tensione all’agire sociale e politico, trovano un comune percorso di impegno e responsabilità nel fornire al radicamento della democrazia non solo un riferimento nelle procedure tipiche della democrazia liberale, ma anche un percorso sociale di crescita ed emancipazione dei cittadini e delle comunità.

Ancora oggi il “metodo Tavazza” ci orienta nel pensare e nell’agire nel più vasto e complesso contesto globalizzato, dove si consumano i principali drammi delle società e al tempo stesso maturano i possibili percorsi di cambiamento.

625061Il “metodo Tavazza” e il contesto della globalizzazione

Il metodo Tavazza non è legato solo alla stagione iniziale del Volontariato moderno. È infatti un metodo ancora vivo, che può orientare il pensare e l’agire odierno nel più ampio contesto globalizzato. Sulla globalizzazione si è dibattuto tantissimo. È oggetto di benedizioni e di maledizioni. Si sono scontrati approcci tra loro diversi e spesso conflittuali: alcuni tesi a decantarne le varie potenzialità e i tanti benefici che si ritiene possano scaturire da essa, altri invece volti a far emergere una serie di gravi conseguenze che la globalizzazione produce sul piano soprattutto sociale, ambientale e politico, sino a considerarla la principale fonte dei vari mali che attanagliano l’umanità.

La questione è aperta. Enfatizzare i benefici della globalizzazione rischia di produrre una acritica adesione, che disarma il pensiero e l’impegno della sua nobile funzione di far emergere le condizioni negative e di indicare i possibili rimedi. L’altro approccio, invece molto critico con la globalizzazione, ha una sua innegabile funzione perché è una risorsa di consapevolezza e di crescita, a condizione che sia sempre progettuale e non diventi l’anticamera di nostalgie e di ritorni indietro.

Il Volontariato, soprattutto organizzato nelle reti, ha un potenziale enorme nel prendere le giuste misure alla globalizzazione rispetto ad altri soggetti sociali oggi in crisi di rappresentanza e di progettualità e può raffinare un approccio ad essa scevro da pregiudizi positivi e negativi, per valutarne meglio i limiti e le possibilità che trascina con sé. Ad una osservazione più meditata, emerge una intelligenza del Volontariato nel cogliere i vari profili e limiti che la stessa globalizzazione ha acquisito in diverse fasi, che si sono articolate in pochi anni. In particolare, abbiamo tre letture che hanno scandito le tappe della recente globalizzazione, che ci aiutano a comprendere le opportunità mancate e il lavoro che bisogna sostenere al fine di dare una nuova governance ad essa.

associazione-luciano-tavazza_2La lettura entusiasta della prima fase della globalizzazione

Nella prima fase della globalizzazione, realizzatasi soprattutto alla fine degli anni Ottanta e in tutti gli anni Novanta, è prevalsa tutta una serie di letture molto positive su tale fenomeno. Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino, si sono messi in moto cambiamenti a carattere geopolitico: si abbattevano storiche barriere economico-sociali e culturali, si incrociavano differenti modi di vivere, si creavano virtuose interdipendenze, si liberavano nuove energie soprattutto nei contesti più poveri ed emarginati, si affermavano economicamente e politicamente nuovi Paesi denominati con l’acronimo Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), con l’intenzione di rompere i consolidati schemi Est-Ovest e Nord-Sud del mondo.

Un certo entusiasmo caratterizzava anche i soggetti sociali più diffidenti nei confronti delle novità descritte dagli apologeti della globalizzazione. Il Volontariato moderno è stato più attento e guardingo, meno ingenuo e accomodante. Non ha tralasciato di rilevare, nella sua esperienza concreta, le difficoltà che si intravedevano nel nuovo modello di sviluppo, che nel frattempo si affermava proprio su scala globale. L’esperienza stessa del commercio equo e solidale delle ONG faceva emergere proprio la consapevolezza dei limiti ancora strutturali presenti nei rapporti tra Paesi ricchi e poveri, denunciando il permanere delle varie disuguaglianze radicate proprio nei Paesi emergenti così apprezzati e sostenuti.

In questa iniziale fase della globalizzazione, non si è saputo dare allo sviluppo una direzione di marcia sostenibile socialmente e ambientalmente. È stata un’occasione mancata che si è ripercossa anche nelle sue fasi successive.

La lettura “affannata” nel cogliere le involuzioni della globalizzazione

La globalizzazione è diventata via via il leit motiv dello sviluppo economico ed è stata incanalata verso una direzione liberista, che ha portato la sua governance non in mano alla politica o all’economia produttiva, ma a quei soggetti finanziari privi di legittimazione democratica e non sottoposti a controlli adeguati. Si è lasciata scivolare velocemente la globalizzazione verso l’economia finanziaria, verso la moneta elettronica, verso le transazioni telematiche. È un’economia che ha aggredito quella reale in uno scontro reso impari, costringendo il lavoro a una funzione marginale, precaria e impoverita di reddito, di cultura e di rilevanza politica, sia sul versante imprenditoriale sia su quello dei lavoratori.

La ricerca e gli investimenti non erano più indirizzati a migliorare in chiave ambientale i prodotti, non si mirava a tutelare il benessere dei lavoratori e dei territori, ma veniva tutto orientato al gioco della speculazione finanziaria, la cui crescita sembrava inarrestabile. I nodi antichi restavano irrisolti, mentre gli intermediari finanziari e le lobbies finanziarie prendevano facilmente il sopravvento rispetto alla governance democratica.

Nell’economia finanziaria del “just in time” anche i narcotrafficanti acquistavano un peso rilevante, come anche le vecchie mafie, basti pensare alla crescita esponenziale della ‘ndrangheta, senza tralasciare l’affermarsi delle nuove mafie, come quella russa. L’esplodere della bolla immobiliare dei cosiddetti subprime ha messo in crisi questo modello della finanziarizzazione dell’economia, causando costi sociali terribili sia nei Paesi a capitalismo maturo, sia nei Paesi emergenti e ancor di più nei Paesi poveri. Le letture sociali si sono pertanto trovate in affanno, perché non sono state in grado di cogliere per tempo l’involuzione che in quegli anni la globalizzazione aveva subìto.

Il Volontariato moderno ne aveva invece avvertito i suoi aspetti più drammatici, sia in Occidente, con l’impoverimento di una fetta consistente della classe media costretta a ricorrere addirittura alle mense dei poveri per soddisfare le proprie basilari necessità di sopravvivenza, sia nei Paesi emergenti e in quelli più poveri, dove le condizioni economiche non hanno consentito di far crescere una classe media ma hanno prodotto una sempre più divaricante condizione tra i ceti sociali meno abbienti e quelli ricchi. In sostanza, avere lasciato all’economia finanziaria un ruolo egemone nella globalizzazione è stato un errore clamoroso.

sls2023_libretto_defLa lettura critica e irriducibile della globalizzazione

La crisi finanziaria del 2008 ha fatto esplodere tutte le contraddizioni di un modello di sviluppo a guida neoliberista. Non si sono affermati, tuttavia, approcci innovativi e progressivi in grado di mettere in evidenza nel ripensamento dei caratteri dello sviluppo le dinamiche psicosociali e le più avanzate culture comunitarie ed ecosostenibili in grado di migliorare la governance della globalizzazione in chiave sociale e ambientale, ma si è rimasti inermi di fronte allo scatenarsi di una serie di rigurgiti sovranisti e populisti che hanno sollecitato approcci involutivi, verso il ritorno indietro al primato del vecchio e discutibile Stato-Nazione, che blocca qualunque cultura dell’interdipendenza, esalta i localismi autoreferenziali e riproduce conflitti devastanti e discriminatori.

L’impoverimento reale e drammatico del ceto medio-basso e l’esplosione delle marginalità metropolitane e di quelle delle aree interne hanno causato così reazioni regressive, che lasciano inalterate le disuguaglianze sociali, soprattutto a danno dei Paesi poveri, i quali vengono egemonizzati, insieme ai Paesi emergenti, dagli interessi speculativi. Alla fine, nel cuore delle società avanzate, ha preso corpo un carico aggressivo e xenofobo senza precedenti, soprattutto nei confronti dei flussi migratori, utilizzati come alibi per occultare le vere difficoltà sociali ed economiche e per aprire la strada a vasti consensi politici dei soggetti a spinta populista e sovranista.

Anche in questa fase il Volontariato moderno ha dovuto farsi carico di forme di accoglienza e condivisione degli strati più marginali, su cui il consenso sociale è stato molto critico, come si è potuto registrare in molte occasioni, quando approdano sulle nostre coste esseri umani privati dei più elementari diritti umani. In sostanza, anche in questa fase si è persa l’opportunità di un ripensamento radicale del modello di sviluppo sempre in chiave di sostenibilità ambientale e sociale.

9788892224414_0_536_0_75Un’altra idea della globalizzazione è possibile

Papa Francesco, con l’enciclica “Fratelli tutti”, ha messo in moto un tentativo di governance della globalizzazione che non parte da una lettura figlia del pregiudizio conservatore e populista, destinata a spingere la società verso il mito della pre-globalizzazione. In “Fratelli tutti” non vi è infatti una nostalgica adesione alla fase storica precedente, ma si cerca di individuare i nuovi modelli di governance che possano affrontare le tre grandi questioni che oggi attanagliano l’umanità: le disuguaglianze, il cambiamento climatico e le guerre. Di fronte a queste tre drammatiche sfide, Papa Francesco non propone un ritorno al passato, non fa perno sulla tentazione che durante le fasi di crisi ci attraversa un po’ tutti: “quanto erano belli i tempi antichi!”. Con un approccio aperto alla ricerca e alla progettualità, invece, ci invita ad andare avanti, ad aprire strade nuove, in sintesi richiede allo sviluppo percorsi inediti di sostenibilità sociale e ambientale. Questa è l’essenza sociale, oltre che pastorale e teologica, della sua enciclica.

Si tratta di un cammino molto interessante, che supera quella tentazione molto presente nella storia del mondo cattolico che, di fronte ai momenti di transizione, si rifugia nell’approccio pauperistico e conservatore, molto chiuso rispetto alla complessità del cambiamento: un approccio che, nel suo primo passo, si esprime con un giudizio esclusivamente negativo sul mondo, per poi proporre un impegno di dedizione compassionevole alla cura dei mali esistenziali e della povertà, rinunciando a un orizzonte di cambiamento e di liberazione.

Nell’enciclica “Fratelli tutti”, si è rifiutata anche le soluzioni neopopulista e neosovranista che imperversano trasversalmente in tutte le società, soprattutto in quelle occidentali. In sostanza, si è proposta una lettura in grado di denunciare tutti i caratteri ingiusti dell’attuale globalizzazione, che con la dimensione neoliberista o l’assenza di regole condivise ha prodotto guasti irreparabili, causando disuguaglianze, aggravando il cambiamento climatico e mettendo in pericolo la pace. Nello stesso tempo, si sono promosse delle letture più complete di sviluppo integrato, mirate ad affermare una diversa governance globale, all’altezza delle domande di sano cambiamento che nel mondo si stanno positivamente sperimentando e che oggi sono in grado di aprire i percorsi dello sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente. Il mondo del Volontariato moderno sta apprezzando molto i valori e i contenuti presenti nell’enciclica “Fratelli tutti” e sente la necessità di sostenerla e di valorizzarla come risorsa formativa e progettuale del proprio agire.

newsletter-n1-13-marzo-2019-3Il “metodo Tavazza” come risorsa per il cammino del Volontariato moderno

Il “metodo Tavazza” è ancora attuale, perché aiuta il Volontariato a guardare avanti e a fare della memoria una risorsa per gettare lo sguardo sui nuovi orizzonti verso cui incamminarsi. Allora bisogna rompere gli indugi e liberare il Volontariato dai suoi attuali limiti, per metterlo di fronte ai nuovi scenari, in un contesto globale totalmente cambiato.

Le reti in cui il mondo del Volontariato è organizzato dovranno essere stimolate e supportate a confrontarsi con le contraddizioni del cambiamento, per viverlo intensamente e consapevolmente. Bisogna accettare alcuni rischi e liberare nuove energie. Non è da escludere che nasceranno anche nuovi movimenti, come solitamente avviene nelle fasi di transizione. Chiudersi non è pertanto una buona soluzione. La bellezza della storia sta nel mettere insieme la capacità di aprirsi da parte di chi ha un lungo cammino alle spalle e quella di lasciare che arrivino nuovi apporti e contributi. Solo così si crea una sinergia intelligente, che alimenta la maturità democratica e la capacità della società di approdare a obiettivi di sostenibilità condivisi.

Ma il Volontariato organizzato è realmente proiettato sia sulla dimensione del “saper fare” sia su quella del “saper essere”? Sulla prima dimensione gli esempi sono innumerevoli, così come le testimonianze quotidiane sono diffuse in ogni angolo dei nostri quartieri e delle nostre comunità. Il Volontariato ha saputo dare il meglio di sé in vari momenti di crisi, ad esempio per l’accoglienza e integrazione degli immigrati, per il sostegno alle fragilità durante la pandemia e, più di recente, per gli aiuti umanitari ai profughi ucraini.

Sulla seconda, la valutazione deve essere più articolata: in sintesi, in parte lo è e in parte non lo è. Esistono forme di impegno fecondo nella rigenerazione urbana, sociale ed educativa che hanno saputo indicare idee e progetti di cambiamento di alto livello, così sul Welfare Community e sulla co-programmazione territoriale. Mentre sono in ritardo quelle diverse realtà del Volontariato che ancora rimangono schiacciate in una logica riparativa e gestionale delle varie forme di disagio e del proprio impegno, per quanto generoso ed encomiabile.

La prima dimensione va pertanto apprezzata e sostenuta, senza interferire, lasciandola crescere dentro il quadro dei valori presenti nella Carta dei diritti umani e nella nostra Costituzione. Sulla seconda dimensione, siamo chiamati a rafforzarla per ampliarla e darle una strategia più popolare e condivisa. Non dobbiamo dimenticare che Luciano Tavazza teneva moltissimo alla prospettiva progettuale e popolare del Volontariato, in alternativa a quella acritica ed elitaria, e aveva sempre stimolato quel ruolo democratico e partecipativo del cambiamento che aveva maturato sin da giovanissimo, visto che proveniva dalla cultura democratica della Resistenza e dalla formazione in Azione Cattolica, cioè da una radice culturale della democrazia che è popolare e promozionale. Nella nostra Costituzione, infatti, ritroviamo continuamente il richiamo ai doveri sociali visti come impegno per la rimozione delle cause che producono disagio ed emarginazione, ingiustizie e disuguaglianze.

Gli interrogativi sulla capacità del Volontariato di alimentare il suo “saper essere” progettuale vanno posti per gettare uno sguardo sul futuro percorso da intraprendere, che coinvolge pertanto la sua identità, la sua funzione e le sue strategie. Le risposte vanno cercate non tanto in un contesto autoreferenziale, tutto interno alle dinamiche del Volontariato, ma piuttosto nel suo rapporto reale con la società. Allora bisogna chiedersi: perché le reti nazionali hanno una difficoltà a sviluppare quelle caratteristiche che vanno oltre l’essere-fare per diventare un comune sentire verso l’essere-progettuale proiettato al cambiamento? Perché da alcuni anni sono scivolate lentamente in una dimensione meramente gestionale che le ha via via risucchiate nell’attivismo e ha tolto loro la linfa vitale su cui sono state fondate e su cui hanno improntato i loro primi passi?

La dimensione gestionale rischia di diventare “la dimensione”: essa è essenziale e costitutiva della identità del Volontariato, ma una cosa è viverla come “una dimensione”, un’altra cosa è viverla come “la dimensione”, in senso cioè totalizzante, sino ad esaurire in essa la propria natura. La mera funzione gestionale è stata spesso una scelta non meditata e voluta, ma è stata indotta. Cosa ha spinto una parte di questo mondo così vitale verso una deriva gestionalistica?

A ben vedere, ci sono diversi fattori scatenanti. Uno di essi coinvolge anche il mondo del Volontariato: è quello che da tempo viene definita la deriva dell’“Io” e l’eclissi del “Noi”. Tutto l’Occidente è stato colpito da questa sorta di peculiare pandemia sociale e culturale. Ne sono stati attratti, infatti, i vari soggetti della rappresentanza: i partiti innanzitutto, con la nascita addirittura dei “partiti-Io”, le organizzazioni sindacali, quelle religiose e le stesse realtà del Terzo Settore e del Volontariato. Chi l’avrebbe mai detto che ad un certo momento della storia delle democrazie si sarebbe imposta una leadership preoccupata solo di organizzare a propria misura un partito, sino a inserire il nome del leader all’interno dei simboli distintivi? Una scelta di questo tipo, ancora nella storia recente, era considerata senz’altro un disvalore.

Nella politica è più evidente e volgare, ma sotto sotto tale fenomeno è avvenuto anche nella Chiesa, nelle organizzazioni sindacali, all’interno delle famiglie e nei mondi pulviscolari del sociale. Quando l’“Io” diventa l’elemento egemone della dinamica relazionale e della selezione della classe dirigente, è chiaro che prevale facilmente la funzione gestionale. Del resto che cosa vuole la leadership dell’“Io”? Pretende un consenso acritico, passivizzante ed è attento solo ai risultati della sua dimensione gestionale perché funzionale ad alimentare quell’“Io comunicativo” che è soprattutto autocelebrativo.

Di fronte a questo contesto, come reagire? Innanzitutto vanno possibilmente evitate due tentazioni. La prima è la nostalgia: è una tentazione che attraversa un po’ tutta quella generazione che ha fatto cose straordinarie nella costituzione del Volontariato moderno. Il “metodo Tavazza” è proprio l’antitesi della nostalgia. È naturalmente una tentazione psicologica comprensibile, che però impedisce di aprirsi ai segni dei tempi e rende, senza volerlo, subalterni alla stessa critica che si avanza.

C’è un’altra tentazione, quella di ritenere che il mondo ha ormai intrapreso la sua strada e quindi è conveniente omologarsi, sino a farlo diventare un assioma: è così e deve essere così. Questo passaggio culturale tra “è così” e “deve essere così”, nel metodo Tavazza viene messo fortemente in discussione: la dialettica tra la “Terra promessa” e la “Terra permessa” non rinuncia mai al cambiamento e semmai ne alimenta tutte le istanze positive.

Nel mondo del Volontariato di malesseri ce ne sono tantissimi, di lucide critiche pure: basti pensare all’appello diretto al Presidente della Repubblica elaborato dall’Associazione Tavazza per la riforma del Terzo Settore, così pure ai contributi culturali offerti in tale direzione sia dall’intellettuale Giuseppe Cotturri, che vive direttamente l’esperienza del Volontariato, sia dalla storica Fondazione Zancan, a cui fa riferimento molta parte del Volontariato, sia dal percorso dell’esperienza di Padova capitale europea del Volontariato, promossa da Emanuele Alecci. Adesso è decisivo alimentare una visione progettuale strategica, per scansare sia la tentazione nostalgica sia quella omologante e proiettare al meglio il Volontariato nelle sfide di questo particolare momento storico. Non basta tuttavia limitarsi a evitare le due tentazioni. Il salto di qualità da fare è più ambizioso: bisogna promuovere un piglio progettuale e quindi dotarsi anche di una visione.

friends-e1540543874982-768x497Le sfide che interpellano oggi il Volontariato organizzato

Ci sono molte indicazioni che nell’esperienza del Volontariato indicano un percorso. Quattro di esse spiccano e costituiscono una sfida, intorno a cui agire, riflettere e condividere attraverso il dialogo e quel piglio progettuale prima richiamato.

La dimensione della fraternità, che ci è stata sollecitata in particolare dall’enciclica “Fratelli tutti”. La fraternità va ricercata infatti nella necessità di dare una nuova governance alla globalizzazione, rifuggendo da tentazioni nazionalistiche e tipiche della pre-globalizzazione, per attraversare le drammatiche sfide delle povertà, delle guerre, delle disuguaglianze, del cambiamento climatico, alla ricerca di un nuovo rapporto di convivenza pacifica tra gli esseri umani, nella loro funzione di governo delle cose che tecnologicamente plasmano e costruiscono.

La dimensione del Welfare Community. È anche questa una realtà che il mondo del Volontariato già vive e sperimenta nelle periferie dei quartieri a rischio e nelle aree interne abbandonate a sé stesse. Gli anziani, i giovani, i bambini non richiedono un “welfare per”, cioè un welfare che li lascia in una condizione di passività e di estraneità, ma un “welfare con”, in modo da essere protagonisti attivi delle politiche sociali, in una logica che esalta la responsabilità e la compartecipazione.

La dimensione europea orientata agli Stati Uniti d’Europa. La promozione dei diritti sociali e delle politiche attive contro le disuguaglianze, il cambiamento climatico, le povertà, le mafie richiedono un salto di qualità nella governance istituzionale che l’attuale Unione Europea non è in grado di garantire, perché mantiene un assetto confederale, dove i singoli Governi sono ancora i principali protagonisti. La struttura federale, invece, esalta l’unità e mette in condizione la partecipazione e la decisione democratica di essere potenti motori di cambiamento adeguati al livello globale delle sfide.

La dimensione della rigenerazione sociale e ambientale dei contesti urbani e delle aree interne. Nelle città e nei territori periferici, lontani dal tradizionale sviluppo, sono in atto forme di violenza o di apatia che bruciano la vita di intere generazioni e costituiscono un propellente per conflitti e discriminazioni di ogni tipo. È necessario pertanto sostenere quelle esperienze innovative di sviluppo integrato, che rigenerano i quartieri sul piano urbanistico, sociale e ambientale e ricreano le condizioni di vivere nuove relazioni di comunità aperte e solidali, accoglienti ed emancipative. Stesso approccio deve valere, con le dovute specificità nel rilancio delle aree interne, dove dinamiche di sviluppo sostenibile sono in atto e danno risultati sorprendenti.

Di queste sfide il Volontariato è parte attiva e su di esse può forgiare e arricchire sia la sua dimensione del “saper fare” sia quella del “saper essere”.

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
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Giuseppe Lumia, già deputato e senatore della Repubblica fino al 2018, è stato presidente del MpVi  (Movimento del Volontariato Italiano), promotore della “Costituente della strada”, dell’associazione “Agire Solidale” e del movimento “Oltre il frammento”, insieme ad altri esponenti di organismi del Terzo Settore. La sua professione si articola tra il Cenasca (Centro nazionale per lo sviluppo della cooperazione e dell’autogestione), di cui è responsabile della formazione e delle cooperative sociali, e il Formez, come consulente per il welfare. Attualmente è nel Consiglio direttivo dell’Associazione Luciano Tavazza e responsabile del Dipartimento volontariato della Fondazione Mediterraneo.
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