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Il trionfo di S. Paolo a Palazzolo Acreide: immagini, immaginario e simboli di una festa
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 00:49 In Cultura,Religioni | 2 Comments
di Luigi Lombardo
Ma San Paolo è mai stato a Palazzolo, che, come si sa, era l’antica polis greca di Akrai? La storia non lo dice, ma i tre giorni che il santo trascorse a Siracusa nel 61 d. C. sembrano non essere sufficienti per potere sostenere tale ipotesi. Ma al solito dove non può la storia soccorre la leggenda, la narrazione orale, l’immaginario fantastico.
Una leggenda locale, poco curante della realtà dei fatti, dice invece di sì. Secondo quanto riferitomi da un mio informatore (naturalmente “Sampaolese”) [1] lungo la strada che dalla contrada Falabia (a qualche chilometro a ovest di Palazzolo) porta al centro montano, si incontra una località chiamata Cuozzu i Sam-Paulu (Colle di San Paolo). Qui, secondo tale racconto, si fermò per riposare San Paolo con il suo manipolo di amici apostoli in giro per il mondo. Non avendo dove sedere, poiché non c’erano pietre in quel posto, il santo con un gesto le fece apparire miracolosamente, così che tutti potettero sedere comodi [2].
Un’altra leggenda lega questo luogo a San Paolo: si racconta che, di ritorno da un viaggio a Ragusa, i bordonari che portavano sui muli la nuova statua del santo, commissionata in quella città [3], stanchi del percorso, riposarono proprio dove secoli addietro aveva sostato il santo, su quelle stesse pietre, perché quel cozzo è l’unico posto dove si trovano dei massi per sedere. Le due leggende come si vede si incastrano, si giustappongono, si relazionano col reale del viaggio della statua e con l’immaginato (o reale) viaggio di Paolo.
Un altro racconto si fonda sul rapporto “conflittuale” fra Paolo e le vipere. Il Guastella [4] ci riporta questa parabula contadina da lui stesso raccolta:
Il Guastella prosegue nel racconto, ma a noi interessa osservare il rapporto che nella narrazione si instaura tra il santo e la bestia velenosa: egli addirittura le porta dentro, fino ad estenuarne il malefico influsso sul mondo. Ogni omicidio muore una vipera, finché di esse si perde ogni traccia, perché il santo ne assume il potere come novello Apollo. Così il serpente rimane nell’iconografia del santo come suo attributo primario, al punto da generare nuove suggestioni e da rigenerare l’immaginario umano.
Le nzareddi
Quando osserviamo una festa, e i rituali tramite i quali essa si attua, pensiamo che quella sia la sua forma canonica, primigenia, conservatasi per miracolo e mai più modificabile. Grosso errore, ma perdonabile se lo attribuiamo a un classico della mente, che, sulla spinta del cuore, tende ad “eternizzare” il momento, per renderlo unico e soprattutto presente ab antiquo. Così succede nel vedere la classica sciuta di S. Paolo a Palazzolo Acreide il 29 Giugno, dove una pioggia di fettucce di carta colorata (chiamate localmente nzareddi) viene sparata dall’alto da centinaia di cannoncini sul fercolo del santo, fino a ricoprirlo interamente: viene istintivo pensare che questo, che ormai è un rito insostituibile della festa, si perpetui ab immemorabile.
Ma se guardiamo le poche vecchie immagini o i resoconti dei demologi del passato (primo tra tutti il grande Pitrè, che peraltro descrive la festa sulla scorta di informazioni di studiosi palazzolesi), o dei cronisti locali, di nzareddi non c’è nemmeno l’ombra (almeno fino ai primi del ‘900) [5]. Dico questo a seguito della domanda che una signora, di una televisione locale, presa da furore simbolico (e da altro), mi fece, anni addietro, circa il significato di questo rito, abbozzando l’ipotesi che le nzareddi non fossero altro che delle forme ifitiche (serpenti “fallici” per capirci). Non risposi, scrollando le spalle, come fa un buon siciliano dinnanzi alle sciocchezze altrui, senza tuttavia ignorare il quesito.
Ebbene, c’è da dire per amore di verità che la parola nzaredda non significa fettuccia di carta (ma chi gliela dava tutta questa carta ai poveri procuratori della festa?), ma più semplicemente deriva da zaaredda evoluta in nzaredda, cioè nastro di seta o di taffetà, “baetta”, che si distribuiva in chiesa ai devoti in cambio di un’offerta, e che poi, benedetta, si portava a casa: i contadini ne ornavano le corna dei buoi offerti al santo. I nastri erano di colore rosso, rinviando chiaramente al rosso del sangue, elemento vitale per eccellenza e insieme segno apotropaico. È quanto avviene ancora oggi in alcune feste siciliane: a Melilli, a Calatabiano, ad Aidone, a Pietraperzia ed altri centri, come può constatare ogni viator alla ricerca di feste che ami ancora la verifica sul campo. A Comiso per santa Lucia i devoti in cambio di una offerta ricevono con la “santa”, cioè l’immagine devota, la zaiaredda, nastro benedetto di cotone o di seta, in genere di tinta rossa ma anche verde, poiché questo è il colore della santa. Il nastro si lega al polso contro il malocchio. Il termine zaiaredda ci porta dritti verso nzaredda. Questi nastri erano lanciati in aria, srotolati e fatti sventolare dai bambini, divenendo in questo senso originale segnale della festa. Da qui la successiva evoluzione di lanciare nzareddi di carta sul santo fino a ricoprirlo, in un turbinìo di colori sempre più vivaci. Come i nastri di stoffa, si portano in casa, si adornano le porte o le stampe del santo patrono.
Il lancio di fettucce di carta o di altro materiale come coriandoli, confetti, grano, “contro” o “su” qualcuno rinvia a riti particolari in cui si augura fertilità e abbondanza agli sposi o ai propri amici. Così quanto avviene nelle feste di carnevale o all’uscita degli sposi dalla chiesa. O per salutare l’arrivo di eminenti personalità. A Messina, ad esempio, il 5 luglio 1753, giunse la principessa donna Maria Felice (o Felicia) Colonna e Salviati, sposa di don Giuseppe Letterio Alliata e Di Giovanni, principe di Villafranca, proveniente da Marino nel Lazio, feudo dei Colonna. Il resoconto del viaggio venne trascritto in un “Diario” da un gentiluomo al seguito dei Colonna. Giunta a Messina la illustre comitiva si offrì al saluto della città in festa:
Certo la “signora dei serpenti”, ciarliera quanto avventata, ne rimarrà delusa, ma noi, solo così operando, capiremo meglio lo spirito delle feste: ristabilendo la verità dei fatti o comunque avvicinandoci il più possibile ad essa, per quanto poi i fatti stessi sono in tutta evidenza oggetto di lettura e di ipotesi interpretative diverse.
I bambini spogliati
Veniamo all’altro elemento forte che rende la festa di S. Paolo in un certo senso unica e irripetibile: il rito dei bambini spogliati ed “offerti” nudi al santo, per voto fatto dai genitori all’atto della nascita. Anche questo rito ha subìto la sua evoluzione col tempo, pur preservando il suo significato intrinseco di protezione e di garanzia di vita futura. Il rito di “offrire” i bambini al santo non era certo esclusiva di Palazzolo.
In origine, come un po’ ovunque, i bambini venivano poggiati sulla vara del santo taumaturgo, senza avvicinarli eccessivamente al simulacro, che come si sa in quei tempi incuteva un sacro terrore (anche oggi per la verità). Si riteneva che così il santo li proteggesse dalle malattie, e da una in particolare, fortemente temuta poiché interessava le parti sessuali, cioè l’ernia inquinale. Per la festa di S. Corrado a Noto si pensò di costruire una apposita vara in cui venivano deposti i bambini “crepati”, cioè erniosi: si chiamò a vara rê picciriddi. La cosa generò il noto epiteto con cui i paesi vicini qualificano i Netini: bbaddusi (cioè erniosi). E a questo proposito torna utile leggere parte di una bella relazione che il Regio protomedico di Avola fa all’intendente della Valle nel 1828 a proposito di diverbi fra medici circa presunti miracoli del santo eremita su bambini erniosi:
Il medico del comune di Noto fa valere le sue prerogative, chiedendo di essere lui a svolgere il delicato compito di attestare il miracolo. Le proteste del protomedico sono veementi, per cui chiede la conferma contro le pretese del medico e chirurgo comunale [6].
Come S. Corrado a Noto, S. Paolo a Palazzolo aveva l’esclusiva del rito dei “bambini crepati” (la “crepa” era la causa della bbadda o ernia inquinale). Lo certificavano le autorità civili e soprattutto religiose con speciali bandi e autorizzazioni. Ma nel 1762 i procuratori della chiesa di S. Antonino vollero “rubare” la prerogativa al santo patrono S. Paolo, memori dell’alta protezione che il santo di Padova (messinese di nascita) esercitava sui bambini (come attesta anche la sua immagine devota che lo ritrae spesso con un bimbo in braccio). Così annunciarono di volere introdurre la pratica dei bambini “esposti” al santo nella festa del 13 Giugno. Apriti cielo! I “Sampaolesi” scrissero al vescovo tramite il Vicario Foraneo. Vale la pena leggere la risposta del vescovo che riassume la questione:
I “Sampaolesi” la ebbero vinta e i bambini “crepati” rimasero una cura esclusiva del loro santo: da tale rito deriva quello dell’alzata dei bambini al simulacro, nelle forme attuali. I bambini “offerti” non sono più malati, ma egualmente forte rimane la richiesta di preservarli in salute per tutta la vita.
Un altro elemento che caratterizza la festa di S. Paolo è la quantità di “bombe” sparate all’uscita del santo. Non era così fino a circa un trentennio fa. Le bombe c’erano ed erano il modo con cui si annunciava la festa e al contempo si rendeva teatralmente e sonoramente lo “spettacolo” dell’uscita del santo: esse, oltre a scandirne i momenti salienti, scacciavano gli spiriti maligni, che il frastuono rendeva inoffensivi e spauriti. Ma non erano solo i demoni e gli spiriti a esserne frastornati: le città vicine sentivano il frastuono delle bombe di Palazzolo e ne restavano alluccuti e muti, se è vero che ancora oggi si ripete: «Quannu nesci Sam-Paulu cu-dda spata: trema Cassuru, Buscema e Palazzuolu». Le bombe erano presenti, ma in una misura contenuta e accettabile. Nulla a che vedere con quanto accade oggi, in cui non solo i demoni locali si devono scacciare ma anche quelli più lontani, per la verità pacifici e inoffensivi. I due versi citati sopra fanno parte di un più lungo canto della mietitura raccolto da Antonino Uccello nelle campagne palazzolesi:
Il canto, che fa riferimento ad un episodio reale, cioè la consacrazione [8] della chiesa avvenuta nel 1787, a conclusione dei lavori di stuccatura del soffitto, rende il clima della festa già in pieno Settecento. I documenti d’archivio confermano tale clima, primi tra tutti i contratti firmati dai più abili fuochisti del Val di Noto, dove si prevedeva lo sparo di un numero enorme di «maschi, mascuni, maschetti e mascoloni», ma nessun lancio di nzareddi. È noto che caratteristica delle feste è la presenza di elementi sonori che configurano il caos della situazione e sottolineano il momento che relaziona il fedele al santo e al noumenico. È lo straniamento cultuale che si presentifica nei riti in vario modo, e la componente frastornante di spari, botti e fuochi d’artificio ne è parte.
I botti e i fuochi d’artificio hanno conosciuto in questi ultimi anni un grandioso sviluppo, aiutato dalle tecnologie informatiche applicate alla pirotecnia. Certo se si chiede perché si sparano le bombe a un fedele, egli risponderà “per esternare la gioia”, che può essere una causa, ma non l’unica né la più importante. Al fondo vi è il permanere di un disagio, che la festa contribuisce a colmare, e i botti rispondono col loro fragore ad allontanare paure e insicurezze, e al contempo a riconfigurare lo spazio e il tempo vissuti. Più il disagio aumenta più i botti s’incrementano: per essere più chiari, dal momento che agli spiriti non si crede più, sono altri i fantasmi da espellere, come quelli legati alla paura individuale di perdita sia materiale che spirituale, il famoso concetto demartiniano del “non esserci nel mondo”.
L’immaginario gioca così a risarcire ogni ansia spalmandola nel rito, in quanto spazio e tempo collettivo e comportamento condiviso che si dipana sub specie aeternitatis. Un tempo i miracoli dei santi erano all’ordine del giorno. Medici più o meno compiacenti li attestavano e li sottoscrivevano. Quando non c’era il medico, c’erano i presenti, i familiari, pronti a giurare sulla loro vita di aver assistito a un miracolo. San Paolo, come San Corrado, guariva i bambini erniosi detti cripati. Il miracolo faceva la potenza del santo, il suo potere sulla gente.
Non sono certo frastuono le vuci, cioè le grida di invocazione, rivolte a San Paolo, sempre a Palazzolo, al momento della svelata, chiamata ancora oggi a sciuta â càmmira, la sera della vigilia della festa. Ieri come oggi è un tumulto di grida e invocazioni che ha il suo apice al momento della comparsa in pubblico del santo nella sua nicchia, come una divinità che si offre alla venerazione dei fedeli. Quello che si grida non è casuale: «E-cchi-ssiemu tutti muti? chistu è lu veru patronu». L’invocazione si riferisce certo alla emozione che prende il fedele all’atto dell’uscita del santo, ma rinvia a uno dei pericoli più temuti da un contadino, la perdita della voce, che era avvertita come una sorta di perdita di identità. A tal fine il santo era ritenuto capace di guarire le affezioni dell’apparato laringeo, all’origine del mutismo (vero o psicosomatico). Padre Giacinto Farina nella sua “Selva di notizie storiche”, scritta a metà Ottocento, riporta addirittura un miracolo compiuto dal santo apostolo in prossimità della festa di Gennaio:
La loro azione medico-esorcistica si esercitava sulle masse contadine terrorizzate dal morso del mitico serpente, nel quale simbolo (ora è il caso di parlarne) si appalesa una atavica paura della perdita della presenza e della datità fisica del contadino. In questo e in altri casi la mitologia del serpente nasconde tutto lo sforzo umano di combattere il male e la miseria, che in questo periodo – soglia cruciale dell’anno (il solstizio d’estate) – si presentificano in tutta la loro drammaticità. La stagione agricola in questo passaggio è giunta al suo apice e si aspetta, con spasmodica attesa, il frutto del lavoro di un anno, e con la stagione la vita stessa della comunità sembra essere giunta davanti ad una soglia.
Il patronato
Il 15 luglio 1690 la Sacra Congregazione dei Riti riconobbe il patronato di S. Paolo sulla “terra” di Palazzolo, ponendo fine, almeno sul piano ecclesiastico e giuri-sdizionale, alla polemica messa in campo dagli “avversari” del quartiere alto di S. Sebastiano, che nel 1643 avevano visto la loro Madonna Odigitria eletta Patrona Palatioli. Nonostante il decreto, la polemica, se non aperto scontro, divenne vera “guerra di santi”, una delle tante che caratterizzeranno la pietà popolare nella regione iblea. Laddove nei più grossi centri, come Siracusa, Catania, Messina, l’unicità del patronato era una espressione della coesione civile, nell’area iblea non era così. Il patronato si sdoppiava, i paesi si dividevano topograficamente, se non socialmente, in un alto e un basso, un “quartiere di sopra” e un “quartiere di sotto”, generando partigianerie, fazioni, esclusioni, sciarri, che quasi sempre adivano le vie legali, con conseguenti contenziosi gestiti ad arte da abili procuratori e famelici avvocati.
Ma cos’era questa divisione nel nome dei santi? Cosa si nascondeva dietro questa “guerra” spesso fisica tra fazioni e gruppi sociali? Certamente fattori storici, legati alla topografia sociale dei vari centri, alla sovrapposizione di nuovi gruppi etnici ai vecchi autoctoni, al tentativo di recenti èlites sociali di prendere il sopravvento politico sui tradizionali ceti dirigenti. Ma la dinamica sociale da sola non basta a spiegare fenomeni tanto complessi. Una corretta analisi pone in campo le dinamiche antropologiche e culturali, che spiegano il “conflitto” come espressione di forze e pulsioni che si canalizzano sul piano simbolico e immaginario, dando luogo a partizioni e polarizzazioni anche dello spazio fisico: proiezione di una bipolarità, che ha le sue radici nell’essenza stessa della mente umana. Lo scontro, la lite, il rancore verso l’altro, si “placa” nella grammatica del rito e nella dinamica della festa, nel piccolo, parziale patronato, che soddisfa e stimola le forze altrimenti debordanti verso la vera violenza. Così che la “parzialità” di quartiere si fa occasione per accendere una competizione fatta di pretese “superiorità” dell’un quartiere sull’altro, misurate a suon di bombe, nzareddi, pani votivi, straripanti doni al santo, bimbi offerti e spogliati. Magari i veri problemi della città restano irrisolti: ma tant’è, la festa è anche questo.
Un’estrema litigiosità e una forte conflittualità sociale confluiscono nel rito festivo, nei suoi meccanismi standardizzati, dove il pericoloso eccesso eversivo, implicito e presente nelle condizioni socioeconomiche delle masse popolari, all’origine di laceranti scontri sociali, si stempera in gesti e comportamenti cerimoniali e liberatori. Il reale così (con i suoi conflitti, la disoccupazione, le ansie e le crisi individuali e collettive) si converte nello spazio e e nel tempo trasformato e riorganizzato della festa, con tutte le articolazioni e i suoi modi di essere, come le processioni, le prove agonistiche e i giochi collettivi, tutte prassi simboliche che esprimono in forma latente esigenze di liberazione e di solidarietà di gruppo, specie in periodi di forti e asfissianti controlli sociali e di frustranti proibizioni in campo morale.
La verità è che in ciascuna festa ogni gruppo, un tempo raccolto nelle confraternite, trova modo di autorappresentarsi e di rapportarsi, di apparire in qualche modo libero. L’ordine delle processioni, pur se esalta ruoli e gerarchie sociali, fa da contraltare al profondo “disordine” sociale realmente sperimentato nel quotidiano vivere, conseguenza della più grande delle ingiustizie, del più grave dei disordini: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Il pane
L’offerta dei pani votivi a forma di ciambella, chiamati cudduri, resiste, anzi si incrementa ogni anno, come se la civiltà contadina fosse nel pieno della sua esistenza. Così certo non è. Tuttavia il legame con la terra, con i cicli naturali, strutturati secondo il principio della ciclicità, permane forte e, se volete, inquietante, poiché ci pone oggi, nell’era del digitale, domande che attendono ancora risposte.
Il primo frumento è già stato mietuto e il grano avviato al mulino. Col fior di farina si confezionano degli speciali pani, detti cudduri, dalla forma rotonda. Queste ciambelle sono cibi “speciali”. Vere offerte “primiziali”, perché primizia è il grano appena macinato. Ma perché il popolo si priva di un bene così essenziale per la sua sopravvivenza, quale il pane, attuando uno spreco, se pur rituale? La spiegazione è complessa ed articolata. Partiamo dal consumo: come si consumano tali pani? Naturalmente in un pasto rituale, il giorno della festa, in modo comunitario, coinvolgendo la cerchia parentale e a volte amicale. Si tratta dunque di un cibo che dà luogo ad un banchetto rituale, che è l’immagine esemplare della vita in comunità. Ma la cuddura è anche un dono, che lega offerente e destinatario indissolubilmente. Il gesto segnala il tempo festivo, un momento del decisivo trapasso da un tempo a un altro, una scadenza significativa della vita del singolo e del gruppo. Questi passaggi sono gli snodi fondanti la vita naturale e umana, marcati da azioni centrate sull’accumulazione, l’ostentazione e il consumo cerimoniale degli alimenti. In questa sequenza il pane si offre come scioglimento di un voto, che è sempre un fatto collettivo, a suo modo un’ostentazione del miracolo e insieme del miracolante.
Le cudduri, una volta acquistate all’asta, che si svolge davanti alla chiesa il giorno della festa (29 giugno), si portano in casa e si mangiano nel pranzo solenne. Il capo famiglia spezza il pane e lo distribuisce a tutti. In superficie a rilievo sono incisi un serpente o una tranta (tarantola) o un suffìziu (scorpione), animali questi particolarmente temuti dal contadino durante la mietitura. Anche il “terribile” serpente rilevato sul pane va smembrato e si mangia un po’ per ciascuno. Il “mostro” tanto temuto diviene sostanza alimentare, nutre e insieme rafforza le difese del devoto. La forza del serpente simbolicamente passa al commensale, lo immunizza dai pericoli [11].
Finito (o attenuato) il rito, resta il gioco fanciullesco, che in modo inconscio riproduce la festa, in certo senso la perpetua, pur se in forma ludica. Ancora oggi i bambini portano in casa le nzareddi, per ripetere nel pomeriggio la sciuta, lanciandole dai balconi su un piccolo fercolo ligneo. Non è raro vedere ancora oggi vecchi contadini portare in casa le nzareddi, come si faceva un tempo coi nastri di stoffa per attaccarli nelle stalle o appenderli alle corna dei bovini, poco importava se erano benedetti dal prete: bastava il pensiero che avessero sfiorato il simulacro dell’amato patrono per farne degli amuleti efficaci. E, comunque, erano pur sempre nastri colorati, destinati a dare vivacità alle povere case. Lo stesso gesto, dunque, ripetono oggi tanti anziani contadini, raccogliendo da terra qualche fettuccia colorata di carta, che ancora odora di polvere da sparo, mentre noi studiosi non smettiamo di sorprenderci e di emozionarci, in quanto, parafrasando il Poeta: «fabula de nobis narratur».
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