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Il Tieste come paradigma del totalitarismo di ieri e di oggi

Manuel Domìnguez Santos,La morte di Seneca,Prado,Madrid

Manuel Domìnguez Santos, La morte di Seneca, Prado, Madrid

di Virginia Lima

È con un rovesciamento esistenziale ovvero con l’ingresso dell’Ade nel mondo dei vivi, che si apre il prologo del Tieste di Seneca, una tragedia che affronta il tema della vendetta, dell’inganno, ma che è anche paradigma del perfetto connubio tra il potere e il male, la fascinazione del potere e la banalità del male, connubio che ha accompagnato e che accompagna tuttora l’uomo e la sua storia.

Ad apparire sulla prima scena sono, infatti, due figure appartenenti al mondo degli inferi: Tantalo, capostipite della famiglia sulla quale ricadono le proprie colpe, e la Furia, la quale sollecita il personaggio infernale ad espandere l’odio sulla casa micenea dei nipoti, Atreo e Tieste, al fine di scatenare la malvagità e la vendetta:

«Su, scatènali, i tuoi sacrileghi penati, ombra detestabile! Che facciano a gara nei delitti, spada contro spada a chi tocca. Non ci sia freno all’ira né alla vergogna, il furore più cieco aizzi gli animi, la rabbia dei padri si prolunghi e giunga sino ai nipoti la lunga catena dell’infamia» (Tieste: 24-29).

La vicenda che si sta per delineare è talmente grave che perfino Tantalo, colpevole di aver offerto agli dèi il corpo e la carne del figlio Pelope e per questo costretto a vivere la perenne sofferenza della sete e della fame, desidera ritornare al proprio supplizio eterno piuttosto che assistere ad un’ignobile gara familiare di chi commette il delitto più grave:

«dal mio sangue è nata una razza che supererà la mia ascendenza, farà ch’io sembri un innocente, oserà ciò che non fu mai osato» (Tieste:  19-21).

Il messaggio, ancora attuale nonostante i secoli che ci separano dal periodo neroniano in cui scrive il filosofo romano, non si ravvisa dunque tanto nella categoria della semplice vendetta, categoria peraltro differente dalla nostra, ma nelle implicazioni del regnum. Seneca, infatti, inquadra il governo politico, qui rappresentato dal tiranno Atreo, nell’ottica di un rovesciamento delle leggi naturali in cui mondo degli inferi, mondo degli déi e mondo dei vivi si sovrappongono, in cui il male si sostituisce al bene e regge il governo dei tiranni  guidati non dal senso di giustizia e di sacralità, ma dall’ira, dalla malvagità, dagli impulsi passionali e dal culto della propria personalità, dalla consapevole decisione di accogliere il furor. Seneca, in altre parole, presenta la logica del male mediante la quale il tiranno, di ogni epoca, si libera dell’avversario di turno eliminandolo politicamente o fisicamente. Un modo poetico e aulico, sicuramente quello di Seneca, che tuttavia descrive ancora oggi la perversità del potere nei regimi totalitari, dittatoriali, dalla Germania nazista degli anni Trenta e Quaranta alla Corea del Nord di oggi guidata da Kim Jong Un. È proprio nel totalitarismo, o meglio nell’antitesi tra totalitarismo e democrazia, aspetto ineludibile del Novecento, che secondo Todorov si inserisce quella fascinazione del male di cui parla anche Seneca, in quanto a differenza del pensiero democratico, che si limita a concedere la possibilità all’individuo di ricercare la propria felicità, «il totalitarismo contiene una promessa di pienezza, di vita armoniosa di felicità» ed è per tali ragioni che Todorov parla di utopismo (Flores 2001: 2).

I personaggi detentori di un potere totalitario come Atreo sembrano dunque volere inseguire un proprio  disegno politico, sociale ed esistenziale, spesso in linea con un ribaltamento dei valori come è insito nell’augurio della Furia: «muoiano, fede, lealtà, diritto» (Tieste: 48). Seneca esamina quella primordiale lotta tra le forze del bene e del male che da millenni guida e influenza la letteratura, la cinematografia, come ogni espressione artistica, ma anche la vita sociale ed economica degli uomini. Ma, a differenza delle fiabe in cui il bene trionfa sempre, nella tragedia non c’è spazio per il lieto fine, non c’è possibilità che trionfi il bene e il buono sull’antagonista. Infatti,  prima Tantalo, poi Tieste, infine Atreo ignorano il senso di giustizia, anzi lo sfidano a colpi di inganni e atti sacrileghi. Così, Atreo per vendicarsi del fratello, reo di avere tentato di insidiare il proprio legittimo regno e il proprio talamo matrimoniale, non si limita ad uccidere selvaggiamente i nipoti, ma ne offre le carni al loro padre in un banchetto ordito come inganno e camuffato come segno di una pace poiché considera il fratello ancora una minaccia:

«Nessun bene della mia stirpe è al sicuro dalle insidie di Tieste: la mia sposa è stata sedotta, la fedeltà dei sudditi incrinata, appestata la reggia. La mia stessa discendenza è dubbia!» (Tieste: 237-239).

Una rappresentazione impietosa del potere in cui il Bene non potrà mai vincere contro il furor pianificato, in cui non esiste un eroe vincitore, portatore di pace e prosperità per l’intera collettività. Al contrario, l’unico modo per sopravvivere alla logica del potere, è per Seneca starne lontano. La nefas, intesa come negazione del fas, il fraus, ovvero l’inganno, sono dunque elementi imprescindibili del potere poiché è lo stesso potere a definirsi, sostiene Picone, come negazione dell’ordine.

FOTOn1Forse tale pessimismo, tale concetto del regnum, a distanza di millenni può spiegare il successo del movimento Cinquestelle, che nasce come opposizione alla politica, alla casta, ai politici di professione, ma i cui membri alla lunga sono stati tacciati di tradire la propria causa, di essersi adeguati e equiparati a tutti gli altri politici “attaccati alla poltrona”. Intrighi, cospirazioni e inganni sono, infatti, elementi fondanti del potere politico e sociale, elementi che – la storia ci insegna – hanno mutato gli eventi degli Stati.

Nel sostenere la propria teoria Seneca sceglie proprio il mezzo della tragedia per rappresentare la perversione umana che non ha tempo. Così come nel muovere il proprio inganno Atreo prende l’ispirazione dagli avi per emulare il delitto disumano, «ricordati di Tantalo e Pelope! A questi esempi sono sfidate le mie mani» (Tieste: 242-243) – si legge nel monologo del re furente – probabilmente anche il nord coreano Kim nel suo governo tenta di emulare le “gesta” dei propri avi magari proprio all’insegna del crimine più eclatante.  Infatti, le pagine dei quotidiani internazionali hanno effettivamente trasmesso le atrocità che il leader ha attuato nei suoi anni di potere contro parenti, ufficiali, collaboratori e semplici cittadini suscitando l’indignazione e la preoccupazione della collettività. Tuttavia, Kim è solo l’ultimo discendente al potere di una dinastia che governa il Paese dagli anni Cinquanta fino ad oggi, figlio e nipote di leader, Kim Jong-il e Kim Il-sung, che a loro volta si sbarazzarono di personaggi scomodi e di familiari giudicati traditori. Una sorta di imitazione valoriale inversa che trova spazio anche nel piano del re miceneo, il quale coglie l’occasione per assicurarsi della propria paternità, messa in dubbio dallo stuprum della moglie, e altro nucleo tematico giustificatore della vendetta. Atreo decide pertanto di mettere alla prova la fedeltà dei figli Agamennone e Menelao:

«se non vogliono battersi, se rifiutano di servire il mio odio, se invocano lo zio, allora [Tieste] è il padre» (Tieste: 440-443).

Una vendetta, dunque, all’insegna del proprio onore non solo di re, ma anche di marito legittimo e di padre. Cambia la modalità operativa, ma il principio è il medesimo che regolava il cosiddetto delitto d’onore che fino agli anni Ottanta trovava ancora legittimazione nel nostro codice penale. In entrambi i casi, infatti, si ricerca un ripristino dell’ordine naturale delle cose, una difesa dello status e del prestigio sociale attraverso cui passava il reintegro sociale. Tuttavia, nel ricercare tale legittimazione Atreo, come Kim oggi, inverte il sistema. La sua azione è una doppia impresa di riequilibrio dell’ordine: la sua vendetta si trasforma in un rovesciamento delle leggi naturali e del senso di giustizia. Atreo non pianifica l’inganno solo perché vuole vendicare il torto subìto a livello personale, ma soprattutto perché – in quanto detentore del potere – deve necessariamente onorare e ripristinare il valore del proprio ruolo;  «furor e regnum appaiono così uniti in un rapporto talmente indissolubile da farne le due facce di una stessa medaglia» (Picone 2001: 42). È la lucida follia, dunque, che funziona come strumento del potere e con cui il dittatore riesce a sconfiggere l’avversario nel segno di un rovesciamento anche dei valori: «la virtus si esplica nel compiere la vendetta, la gloria è assicurata dalla grandezza del crimine» (Ibidem).

Impossibile negare le analogie con i moderni regimi totalitari che proprio nella violenza individuano il mezzo per regnare:

«gran vantaggio del trono è che il popolo è costretto a sopportare, anzi a lodare gli atti del suo re» (Tieste: 205-208).
Bernardino Mei:Oreste uccide Tieste

Bernardino Mei, Oreste uccide Egidio e Clitennestra, 1654

Il re rappresentato è talmente  infuocato dall’ira e dal profondo sentimento di vendetta che non si rende conto del cambiamento del fratello Teseo, il quale sollecitato dai figli, ignari del piano diabolico dello zio, si reca alla reggia dove verrà allestito il banchetto nefasto con le carni dei ragazzi in un rituale invertito: «tutto nel rito è rispettato perché un delitto così grande non sia  irritualmente incompiuto» (Tieste: 688-689). Atreo si trasforma così in sacerdote durante il rito sacro,  «si erge dinanzi all’altare, lui che tasta le vittime, le sposta e le avvicina al coltello» (Tieste: 693-694) e a nulla vale l’indignazione della natura che si ribella, «il bosco ha un fremito, la terra trema, oscilla tutta la reggia incerta dove inclinarsi» (Tieste: 695-696). Atreo dunque si sostituisce alle divinità, instaura un proprio regime del male secondo quello che oggi definiamo “culto della personalità”. L’uccisione dei ragazzi, tuttavia, non placa l’ira del tiranno il quale, racconta il messaggero,

«seziona e divide quei corpi membro a membro, mette a nudo gli omeri, li stacca dal tronco, recide le giunture delle braccia, quel violento, squarcia gli arti e sega le ossa» (Tieste: 760-763).

Lo sguardo deformante dell’odio ancora oggi sconvolge gli uomini: la convinzione di avere subìto un torto, un tradimento, un’ingiustizia e che comporta la necessità di una vendetta, di attuare una punizione esemplare al nemico. Così, se nel mondo antico la vendetta è stata un vero e proprio istituto giuridico coincidente con la giustizia ovvero con la necessità di ristabilire un equilibrio, oggi – sostiene Fichera (2004: 5) – si tende a far coincidere semanticamente i termini vendetta e risentimento. Così si spiega anche quel fenomeno che è stato etichettato come femminicidio, termine che ormai viene utilizzato per indicare un’emergenza sociale. Con la trasformazione della società in uno stato di diritto la vendetta da un punto di vista semantico si confonde con ciò che definiamo “giustizialismo”, protagonista spesso di talk show di pseudo approfondimento giornalistico. Continua ad essere elemento attrattivo di plot letterari e cinematografici, come in Il conte di Montecristo e in Kill Bill, ma nell’uso quotidiano viene relegata ad atti criminali e delinquenziali da condannare a tutti gli effetti.

Goya:il sonno della ragione produce mostri

Goya, Il sonno della ragione genera mostri, acquaforte, 1797

Attraverso il paradigma delle tragedia Seneca esamina le passioni dell’uomo in rapporto al potere e all’esistenza dell’individuo, esplora la condizione umana, la responsabilità individuale nella trasgressione del fas e nella capacità di discernere il giusto dallo sbagliato e giunge ad una sconvolgente conclusione. Nel potere è implicito il furor, ovvero la malvagità e l’inganno e lo sa bene Tieste, il quale, a differenza di quanto pensa il fratello, ha avviato un percorso di purificazione che lo porta alla consapevolezza che «la grandezza […] ci seduce con la falsità delle parole, la povertà è temuta ingiustamente» e che, dunque, «il regno più grande è poter fare a meno del regno» (Tieste: 446-448).

Nel pessimismo che fa da sfondo saggezza e potere non sono conciliabili in quanto l’unica possibilità per una vita serena – ci ricorda il filosofo – è stare lontani dai luoghi di potere. La Storia è permeata da azioni violente, genocidi, massacri e, in effetti, spesso questi si muovono nel senso della politica e del potente di turno.

Male, vendetta e potere rappresentano, infatti, un trinomio della società, ieri come oggi. Se il pensiero di Seneca affonda le proprie ragioni nel clima neroniano costituito da intrighi e complotti che porteranno lo stesso filosofo alla morte, uno sguardo generale sugli ultimi eventi della storia contemporanea sembrerebbe dimostrare – seguendo la lezione di Todorov – che spesso la fascinazione del potere si identifica con l’attrazione del male, tanto da identificare il  XX secolo come il secolo delle tenebre. Hitler, Stalin, Mussolini, perfino Kim Jong Un e i suoi predecessori  sono stati personaggi osannati e amati. Alcuni di essi continuano ad avere proseliti anche dopo la loro morte e, elemento per niente trascurabile, i seguaci delle teorie xenofobe, naziste o estremiste non sono necessariamente guidati dalla pazzia. È stata questa la tesi, infatti, presentata e argomentata in La banalità del male, testo che alla sua uscita, negli anni Sessanta, ha fatto scalpore e, a volte, ha perfino provocato l’indignazione pubblica. In effetti, Hannah Arendt, nel seguire e riportare gli atti del processo di Eichmann, responsabile della deportazione di milioni di ebrei, dimostra, come tutte le efferatezze, gli esperimenti e le disumani uccisioni, sono sì crudeli azioni ma progettate ed eseguite non tanto da presenze malefiche e infere, quanto da semplici burocrati.

FOTOn4I crimini violenti di cui la storia ci racconta non sono sempre opera di uomini pazzi o stupidi, ma sono frutto del narcisismo e del culto della personalità di alcuni, o, al contrario, il tragico epilogo del sonno  della ragione, il risultato di una cieca obbedienza, la somma di piccole azioni di semplici burocrati, come nel caso di Eichmann. Probabilmente è ancora più difficile accettare questa tesi in quanto rifiutarsi di pensare ed agire ciecamente nel rovesciamento dei valori è un atto responsabilizzante tanto quanto la scelta di Atreo nel consentire al furor di invadere il proprio corpo.

Le immagini ormai tristemente note dei campi di sterminio, degli oggetti e dei resti umani forniscono una precisa idea della malvagità e della disumanità e, a maggior ragione, è difficile immaginare come tali azioni siano state progettate e attuate non da esseri demoniaci, ma da uomini mediocri, che semplicemente si rifiutano di pensare: «questi tanti [uomini come Eichmann] non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme» (Arendt 2013: 282). La cronaca storica e contemporanea, lo sconcertante resoconto della Arendt e la rappresentazione senecana del regnum invitano a riflettere sulla consapevolezza che la violenza non è un semplice elemento istintuale dell’uomo, esito della sua natura primitiva e della bestialità ancestrale, ma è un vero e proprio prodotto culturale. In quanto tale, dunque, essa è legata alle dinamiche non solo della storia, ma anche del potere. Non sempre la violenza è generata dalle passioni, ma, al contrario, sono spesso proprio la razionalità e l’intelligenza, individuabili perfino nell’assenza di opposizione, come nella rappresentazione senecana, che generano le più inaudite violenze perpetrate poi da mediocri e oscuri individui.

Anche oggi, e forse più di ieri, enorme e terrificante è il materiale narrativo offerto dalla cronaca cui potrebbe ispirarsi Seneca per rappresentare una nuova tragedia esistenziale dell’uomo.

Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
 Riferimenti bibliografici
Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2013.
Fabio Dei, L’antropologia della violenza, Meltemi, Roma 2005.
Antonio Fichera, Breve Storia della vendetta, Arte, letteratura cinema.la giustizia ordinaria, Castelvecchi editore, Roma 2004.
Marcello Flores (a cura di), Storia, Verità e Giustizia. I crimini del XX secolo, Mondadori, Milano 2001.
Giusto Picone, La fabula e il regno. Studi sul thyestes di Seneca, Palumbo, Palermo 1999.
Lucio Anno Seneca, Tieste, traduzione a cura di V. Faggi, Garzanti, Milano 1999.

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Virginia Lima, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e specializzata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha orientato parte dei suoi interessi scientifici verso l’antropologia del mondo antico, approfondendo la funzione culturale del prodigium inteso non solo come momentanea rottura dell’ordine cosmico ma anche come strumento della memoria culturale del popolo romano.

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