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Il teatro parigino nel tumulto creativo del Primo Novecento

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 01:23 In Cultura,Letture | 2 Comments

isgro-copertinadi Piero Di Giorgi

I diversi approcci disciplinari alla realtà che ci circonda dovrebbero tendere a una cooperazione-integrazione tra loro in quanto aspetti di un’unica evoluzione culturale. L’unità del reale tende necessariamente a un’unità del sapere. A dimostrazione dell’intima connessione tra i diversi saperi, basti considerare quel che è accaduto all’inizio del Novecento. Max Planck ipotizzò che la radiazione elettromagnetica non fosse una grandezza continua ma fosse composta da piccole quantità d’energia, chiamate quanti. Nasceva la fisica quantistica, che cambiava i concetti tradizionali sulla materia e il paradigma deterministico basato sulle certezze della fisica classica, introducendo casualità e probabilità.

Nello stesso anno 1900 Sigmund Freud pubblicava L’interpretazione dei sogni, una sorta di manifesto della Psicoanalisi, che spodestava l’Io dalla centralità in cui l’aveva posto Cartesio e capovolgeva l’equazione psiche=coscienza, riducendo la coscienza alla punta di un iceberg  che emerge dal grande oceano dell’inconscio. Diverse correnti artistiche hanno messo in scena l’inconscio. Basti pensare ai simbolisti, al surrealismo e in particolare a André Breton, Odilon Redon, Magritte, Dalì, Mirò, Chagall, Kandinsky, Klee, Klimt, Munch.  Nell’arte si passava dall’espressionismo all’art nouveau o allo stile liberty, al simbolismo, all’astrattismo, per ricercare non già la rappresentazione oggettiva della realtà ma l’invisibile e per sottolineare la soggettività dell’osservazione. Sempre agli inizi del Novecento, Luigi Pirandello metteva in luce la relatività di ogni verità e l’arbitrarietà di ogni punto di vista. La stessa cosa accadeva con Schönberg e Webern, che hanno aperto la via alla musica moderna. Anche il teatro e successivamente il cinema (Federico Fellini, Luis Buñuel, Alfred Hitchcock e Darren Aronofsky) hanno messo in scena l’enigma dell’inconscio e hanno risentito dei cambiamenti culturali avvenuti negli altri ambiti del sapere.

Ed è proprio sulle novità che avvengono nell’ambito del teatro ai primi del Novecento che si sofferma il colto libro di Giovanni Isgrò (Innovazioni sceniche nella Parigi del primo Novecento, Edizioni di Pagina, Bari, 2012), in stile semplice e godibile anche per i non addetti ai lavori. E lo fa, per l’appunto, contestualizzando la rivoluzione che avviene nel teatro all’interno dei processi di cambiamento che avvengono, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, negli altri campi del sapere. «Parigi è il luogo deputato della ricerca e dell’esperimento», che rivoluzioneranno la messinscena del teatro e che vede coinvolti artisti provenienti da tutta l’Europa e di cui l’autore offre al lettore una carrellata.

Nel clima di sperimentazioni artistiche collegate all’uso della luce elettrica si colloca il contributo di Mariano Fortuny, artista poliedrico, pittore, fotografo e designer, catalano e naturalizzato veneziano, noto per le sue innovazioni nell’arte della scena nella Parigi del primo Novecento. A fronte della inadeguatezza degli scenari dipinti e della necessità di garantire alla messinscena un originale uso della luce, tale da esaltare i diversi momenti della tensione drammatica, egli inventò delle lampade ad arco, la cui luce si avvicinava di più a quella solare, per un’illuminazione scenica che combinasse luce diretta e luce riflessa, partendo dall’idea che la luce naturale è determinata da un lato dalla luce diretta del sole e dall’altra dalla luce diffusa che è riflessa dalla volta celeste. Inventò anche un sistema di proiettori e nastri colorati, che ricevevano la luce sulla loro superficie e la rimandavano come luce diffusa, fino all’invenzione di una cupola, “Cupola Fortuny”, da installare sul fondo del palcoscenico per dare l’illusione della volta celeste, con il risultato di una diffusione completa della luce sulla scena e di creare un continuum tra palcoscenico e platea.

Il Teatro dei Balletti russi, (ph Marco Maderna)

Il Teatro dei Balletti russi,(ph Marco Maderna)

Il lavoro lumino-tecnico di Fortuny aveva come effetto psicologico quello di mettere in luce lo stato d’animo dei personaggi del dramma. Al tempo stesso esaltava il ruolo dell’attore, garantendogli la possibilità di spostarsi sul palcoscenico senza essere vincolato dalla luce diretta della ribalta. Anche per quanto riguarda l’acustica, la struttura della cupola impediva la dispersione del suono e ne favoriva il ritorno verso la platea. Questa visione di movimento complessivo e unitario della scena segnava in qualche modo l’inizio della regia.

All’inizio del 1902, quando Fortuny ultimò il primo esemplare di cupola mobile, approdò a Parigi Adolphe Appia, ginevrino, studioso di musica e affascinato da quella di Wagner e dalla sua idea di arte totale (Gesamtkunstwerk). Egli concepì l’allestimento scenico come un tutt’uno dove concorrevano  varie arti. Il luogo d’incontro tra l’artista ginevrino e Fortuny è il palazzo della contessa di Béarn ed è qui che Appia potrà mettere in pratica le sue idee ispirate alla rivoluzione wagneriana. Tuttavia, un incendio scoppiato nella sala del teatro interruppe il processo della messinscena wagneriana e fu anche l’inizio della fine del rapporto di Appia con il teatro di Parigi, a causa di un graduale distacco della contessa di Béarn dal ginevrino e di un sempre più ampio coinvolgimento di Fortuny.

A partire dal 1909, a Parigi, una delle esperienze più significative del processo evolutivo delle arti sceniche fu la presenza dei Balletti Russi, un crogiuolo di esperimenti che portò un grande contributo alla rinascita del teatro e all’evoluzione scenica basata sul concetto di sintesi delle arti, i cui caratteri fondamentali furono l’assembleità e la coralità, che univano in un insieme scena e pubblico. Pittura, coreografia, danza e musica si componevano in un’unica armonia. Ciò faceva sì che la dizione di Balletti Russi fosse espressione di un’unica identità collettiva e conquistasse lo spettatore della Belle époque per la ricchezza di fondali dipinti, di costumi indossati, di corpi pieni di energia e di virtuosismi atletici, fino ai voli di Nijinscky, ballerino aereo ucraino di origine polacca, di cui Jean Cocteau manifestava la sua meraviglia per l’intensità dei suoi giochi.

Al di là delle loro doti atletiche, i danzatori russi erano in grado di comunicare non soltanto emozioni e sentimenti ma anche le più diverse sensazioni. Leon Bakst, pittore e scenografo, ne era l’anima. Le gradazioni di luminosità del colore avevano il doppio scopo di creare l’illusione della profondità dello spazio scenico e  di supplire alla luce elettrica.  Come annota Isgrò, sarà proprio su questa luce pittorica che Gabriele D’Annunzio fonderà almeno in parte la sua arte scenica.

Di fronte allo shock dei Balletti Russi, Jaques Rouché avvertì la necessità di un contributo francese all’evoluzione della mise en scène, nella quale individuava il centro dell’arte teatrale, diventando sostenitore del trionfo dei pittori a teatro. La scelta innovativa di Rouché si rifaceva al movimento dei Nabis, un  gruppo di artisti parigini dell’avanguardia post-impressionista della fine dell’Ottocento, seguaci di Gauguin. Essi erano accomunati dal rifiuto del materialismo borghese e dall’idea che dipingere non era la semplice  rappresentazione della realtà come appare ai nostri sensi ma una realtà spirituale che si concretizzava attraverso gli stati emozionali e i simboli. Ma, come scrive Giovanni Isgrò, questi pittori non erano animati da una vera spinta sociale né da una identità collettiva tale da imporsi come era avvenuto con l’impressionismo e ciò non li rese competitivi rispetto agli artisti dei Balletti Russi.

La compagnia dei Balletti russi di Sergej Djagilev, 1900.

La compagnia dei Balletti russi di Sergej Djagilev, 1900

Sulla scia del poeta simbolista francese Paul Fort, Rouché cercava di organizzare un’impresa teatrale coi suoi amici pittori, cha avevano una gamma iconografica limitata. Egli attribuiva loro un doppio compito: rendere la scenografia dipinta parte integrante del dramma rappresentato e garantire l’unità espressiva della messinscena (costumi, illuminazione della scena, gestualità e movimento degli attori). In sostanza, per Isgrò, il contributo di Rouché è basato su  «una visione decorativa della scena» e, sul piano della forma espressiva, «la modernità dell’idea della scenografia pittorica proposta, rispetto alla configurazione tradizionale, era basata sul rifiuto della ricostruzione del vero storico-naturalistico come  anche della prospettiva». Ma, nel momento in cui Rouché  «afferma la dipendenza del dramma dalla pittura, non soltanto si allontana dal principio wagneriano del Gesamtkunstwerk ma trascura la potenzialità dello spazio scenico». E, in effetti, conclude Giovanni Isgrò, il problema centrale della rifondazione del teatro non fu quello di abbellirlo con un decoro artistico, bensì di ricrearlo, di riteatralizzarlo.

Brevi cenni dedica l’autore anche all’ondata di teatro sociale e popolare, che cercò di sovvertire i princìpi della scena borghese, riferendosi, in particolare al Theatre du peuple di Romain Rolland (premio Nobel per la letteratura nel 1915), pubblicato nel 1903, caratterizzato da spinte libertarie e di giustizia sociale. Di fronte alla decadenza morale della borghesia, appagata dal benessere economico, Rolland pensava a un repertorio nuovo che rispondesse alle esigenze del popolo. Tra i vari tentativi di dare vita al teatro del popolo, Rolland stesso riconosceva il merito maggiore a Eugène Morel, il quale riteneva l’abbonamento lo strumento fondamentale per garantire continuità di frequentazione al teatro da parte del popolo per suscitarne l’abitudine e accrescere l’intelligenza delle classi più povere, senza trascurarne il divertimento. Per Rolland il teatro popolare doveva essere ricondotto all’ottica del teatro greco, passioni elementari, ritmo semplice e possente, un’arte fatta per il popolo e per mezzo del popolo. Vicino all’idea di Rolland,  un altro artista ha contribuito al rinnovamento della scena a Parigi, Firmin Gémier, il cui gesto rivoluzionario più evidente nei confronti del teatro borghese e commerciale è stato la creazione del teatro ambulante.

Un altro autore che ha rivoluzionato la scena in contrapposizione all’industrializzazione, alla commercializzazione e allo spettacolismo, cui dedica alcune pagine Giovanni Isgrò, fu Jacques Copeau, attore, regista teatrale e drammaturgo e uno dei fondatori del teatro del vieux Colombier. Egli fu sostenitore di una scena nuda, cioè priva di qualsiasi apparato scenografico tale da lasciare campo libero al corpo e all’interpretazione dell’attore. Egli propose, cioè, la sostituzione della scenografia materiale con quella del corpo e della parola ma nello spirito del nascente concetto di regia. Ogni verità era affidata alle azioni dei personaggi e ai sentimenti,  ai quali lo spettatore era chiamato a partecipare. Successivamente, egli passò all’idea di un dispositivo architettonico permanente, in grado di sopperire a qualsiasi esigenza scenica e che diventerà il contributo maggiore di Copeau nel campo della messinscena.

Costume design per Nujinsky, Leon Baskst.

Costume design per Nujinsky, Leon Baskst

Gli ultimi capitoli del pregevole libro di Giovanni Isgrò sono dedicati alla rivoluzione teatrale di Gabriele D’Annunzio, poeta e drammaturgo, considerato vate d’Italia durante il fascismo. Egli fu tra i protagonisti della scena a Parigi. «A lui va riconosciuto infatti il merito di avere coinvolto nella sua sperimentazione teatrale i più diversi protagonisti del rinnovamento scenico». E ancora sottolinea Isgrò, egli va oltre l’idea del teatro d’arte per gli intellettuali parigini, spostandosi anche nell’area del teatro di massa, immaginando contributi artistici provenienti sia da teatri istituzionali che da formazioni sperimentali e d’avanguardia.

D’Annunzio, arrivato a Parigi nel 1910, ha avuto una stretta frequentazione sia con Mariano Fortuny sia con Jacques Rouché. L’operatività immediata di D’Annunzio «è dedicata  esclusivamente alla ricerca di una soluzione radicale dei problemi della messinscena per un teatro d’arte». Se, da un lato ebbe l’occasione d’incontrare molti dei pittori vicini a Rouché, il suo referente immediato fu Fortuny e il teatro della contessa di Bearn fu il luogo più idoneo per la progettazione. Il teatro di festa era concepito come rito e come energia rifondatrice dell’arte scenica da contrapporre alla routine del teatro borghese e commerciale. Esso fu pensato da D’Annunzio contemporaneamente con un doppio riferimento: l’arte e il popolo, ma anche come sintesi tra i fondamenti architettonici del teatro antico e le ultime innovazioni tecnologiche (effetti lumino-tecnici e acustica). Un impianto in plein air per un teatro di massa e che appariva come un’ulteriore estensione dell’idea della cupola di Fortuny, con il quale aveva costituito una società detta, per l’appunto Théatre de Fêtes, che non ebbe seguito perché D’Annunzio non si presentò alla stipula del contratto.

4Questa fu l’ultima occasione mancata della collaborazione artistica tra D’Annunzio e Fortuny ma fu anche all’origine delle scelte che porteranno il vate all’impresa del Martirio di S. Sebastiano, affidandosi a Gabriel Astruc, direttore-mecenate e in cui un ruolo fondamentale ebbe Ida Rubinstein, anche nell’indirizzare il poeta verso la “pista russa” e da ciò verso la collaborazione con il pittore Léon Bakst. Lo spettacolo si rivelò una meravigliosa sintonia di luci e ombre insieme al gioco cromatico dell’artista russo. Ciò nonostante – rileva l’autore  – esisteva una polarità tra l’idea di messinscena dei Balletti Russi e quella di D’Annunzio. Se la messinscena di Bakst  era la negazione del prolungamento indefinito dello spazio scenico, D’Annunzio, al contrario, cercava l’apertura verso l’esterno della scena e anche l’uso artistico delle nuove tecnologie per un teatro con effetti lumino-tecnici e giochi di proiezione. D’altro canto, D’Annunzio, oltre alla fantasia cromatica, al décor e ai costumi non può non ispirarsi ad altri aspetti specifici dei Balletti Russi come, ad esempio, la danza, la tecnica del gesto e anche la capacità di fondere la parte scenografica e quella coreografica con la composizione musicale in un’unica sintesi. Un altro aspetto del teatro dannunziano fu il ruolo della folla come espressione costante della tensione del dramma. Anche la musica divenne un altro elemento fondante per togliere il dominio assoluto della scena alla voce e all’interpretazione dell’attore, diversificando gli strumenti espressivi e prefigurando la vocazione registica di D’Annunzio in una Parigi, dove la funzione del regista era ancora agli albori.

Il problema della contrapposizione tra cinema e teatro diventò un argomento centrale di riflessione nel periodo che precede La Pisanelle, opera che divenne, per stessa definizione del poeta «il più plastico e il più vario» dei suoi drammi, in cui tutte le componenti della messinscena partecipavano direttamente alla tensione poetica e allo sviluppo dell’azione. Tuttavia, il conflitto intervenuto tra D’Annunzio e Vsevolod Meyerhold, affermato regista del teatro imperiale di San Pietroburgo, il quale prese le distanze dal testo poetico di D’Annunzio per impostare tutta l’azione come una pantomima giocata sul fondo della scena, comportò, da una parte, la consegna dell’opera di D’Annunzio a un vero regista ma, dall’altra, un vero annullamento del suo lavoro. Il conflitto tra i due sarà il leitmotiv che si riproporrà più volte nel Novecento: logica dell’autore da un lato e del regista dall’altro.

La splendida panoramica di Giovanni Isgrò sulle innovazioni sceniche del teatro parigino si conclude con l’ultima opera di D’Annunzio, La Chevrefeuille, in cui il poeta italiano assunse il ruolo duplice di drammaturgo-regista.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014); Siamo tutti politici (2018).

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