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Il senso della storia in Pasquale Culotta architetto

 

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Pasquale Culotta con gli studenti a Cefalù (dall’Archivio familiare, per gentile concessione della figlia Tania)

di Antonietta Iolanda Lima

Nel tentativo di dare una riflessione convincente su quanto recita il titolo parlerò qui di seguito di un architetto che ho conosciuto e frequentato a lungo essendo entrambi professori della medesima Facoltà: Pasquale Culotta, e percorrerò una scorciatoia riferendomi ad alcune cose che lui possedeva in modo del tutto particolare e a ciascuna di esse riferirò un evento, o una meditata considerazione.

Innanzitutto sul senso: lo intendo come summa dei sensi ovvero di ciascuna delle funzioni per cui l’organismo raccoglie gli stimoli provenienti dal mondo esterno – e del resto l’architettura nella sua concretizzazione è, prima di ogni altra cosa, atto polisensoriale. Ma è in seconda battuta che il senso della storia in Pasquale diventa coscienza della storia e, al pari misura, della sua stessa personalità tramutandosi in consapevolezza attraverso un dialogo già più maturo, intrecciato di sollecitazioni e saperi che privilegiano l’istanza di comprendere l’energia nascosta, i valori delle cose, il significato del loro esistere in un certo modo, il perché di quella forma.

E c’è sia senso che coscienza in questo percorso quando, nell’organizzare e dare forma allo spazio fisico, problema cui sempre per lui si correlano l’architettura e l’urbanistica anche quando il praticarne l’unità diventa questione difficile che ingloba nel territorio le energie storiche del contesto, le irripetibili stratificazioni depositate dalla storia, la storia dell’insediamento, del modo dell’abitare contadino della Sicilia. E nello studio del contesto e delle ragioni delle sue atmosfere, nella convinzione che è da lì che occorre partire per l’azione del progettare che è come un ricominciare a capire investigando sulle ragioni del suo essere ora, in quel momento e in quel modo; svelarne i segreti, la sua storia.

Ed è con essa, con la Storia, che occorre comunicare attraverso la memoria dei suoi spazi, intrecciando un rapporto inclusivo e duraturo. Si inizia quindi dall’ascolto; un ascolto teso, partecipe, che fa cogliere di essa anche i frammenti, i piccoli segni, quelli che nell’arredare lo spazio gli danno, proprio perché frammenti, siano essi materiali o di semplice memoria, una disordinata consistenza, sicché nell’intervenire occorre sapere che essi, pur nella loro capacità di svelare qualcosa, di dischiudere anche significati eloquenti e durevoli, vanno riannodati alla città tutta perché è essa nella sua interezza il bene culturale, per la capacità di mantenersi luogo di civiltà.

E questa operazione sui frammenti va fatta con piccoli segni; deve essere dosata, frugale, senza arroganza alcuna, ed è quindi per questo che il camminamento che Pasquale ricrea, lungo le antiche mura, in un luogo di straordinaria bellezza tra mare e insediamento, acquista il sapore di qualcosa di domestico, intimo anche, rivelandosi e rivelando un modo nuovo di guardare al/nel paesaggio. Si serve di elementi semplici che tuttavia stabiliscono una immediata compartecipazione con la pacata complessità dell’esistente palesando la volontà di fissare un momento all’interno di quel processo temporale che mai s’arresta che è appunto la storia in cui anch’essi e con lui entreranno.

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Culotta e Leone, anni 90 (dall’Archivio familiare per gentile concessione della figlia Tania)

In quel laboratorio che sarà la sua Cefalù il colloquio con la storia diverrà via via una sorta di necessario e voluto addestramento all’interno di una disciplina altra e pur tuttavia così connessa alla sua, quella del progetto che diverrà la sua disciplina. Con tale fondamento, nel confronto con tutto ciò che nel tempo sarà ulteriore linfa della sua crescita e maturazione culturale – lo studio, gli incontri, i sodalizi, alcuni per la vita come quello con Bibi (Giuseppe) Leone, i maestri, i colleghi poi in quella facoltà dove sarà protagonista con la convinzione dell’inesistenza di problemi tipologici e seriali nell’intervento a fronte della specificità di quelli che di volta in volta, derivando da specifici e particolari caratteri, si palesano e chiedono di essere affrontati. Ecco quindi che, quando con Bibi lavora sul fronte a mare, in unicum con la maestosa e articolata scogliera sulla quale si erge, percepisce subito che il valore della Postierla così come la storia la consegna all’oggi è nel suo essere una sorta di valvola di raccordo di plurime penetrazioni urbane tutte diverse tra loro, che pertanto è da esso che occorre partire nell’esplorazione progettuale.

Così la connessione dei percorsi che è anche giusta relazione tra essi, ancor più quelli pedonali, collante, nel suo inveramento, della città medievale e lascito fecondo di certe riflessioni maturate in seno al movimento moderno, assumerà sempre più ruolo fondativo della sua riflessione progettuale che si confronta e si intreccia, e a volte anche in modo inestricabile, con quella di Bibi. E del resto entrambi condividono il sentire l’edificio come parte integrante della città, come tale privato e pubblico nello stesso tempo, sicché al pari dei suoi fronti, forse a volte di più, hanno valore gli spazi di percorso, di camminamento, gli interni al lotto di cui esso fa parte che per essere progettualmente significanti devono essere luoghi per la vita sociale, luoghi di connessione urbana all’interno di una concezione che per dare di nuovo significato allo spazio urbano pone al centro l’uomo nel suo rapporto con lo spazio fisico.

Ci sono poi gli spazi aperti e racchiusi dei nostri centri storici, questi complessi contesti ricchi di sedimentazioni, spesso invisibili, e di energia; un’energia nell’oggi profondamente dissipata come accade ad esempio nel sistema di piazze di Castelvetrano in cui Pasquale interviene togliendo per ricomporre il tessuto lacerato, per riconferirgli il segno dell’appartenenza, della vita associata, affidando poi al piano pavimentale il compito di aggregare in unità. Il progetto si lega dunque e si misura sempre con la specificità del luogo, dei contesti, dei programmi. Ed è soprattutto dalla specificità del luogo, dal suo essere lì, che scatta la sua esplorazione progettuale ed è dalle sue caratterizzanti che di volta in volta varia la strategia dell’ideare nella consapevolezza che da un certo punto in poi occorrono altri e diversi strumenti disciplinari che comunque devono interrelarsi sempre con il progetto d’architettura. Lo studio e la comprensione della città storica, dei suoi spazi profondamente interrelati tra loro, dei suoi interni – che travasano negli esterni e di questi esterni racchiusi che sono anch’essi, oltre che di vita, spazi d’architettura, delle sue soglie e della sacralità propria di ciascuna di esse, dei suoi gangli emergenti ma mai disconnessi dal resto del tessuto.

Di questo fecondo processo laboratorio privilegiato e ininterrotto è Cefalù, che sempre più condurrà Pasquale, unitamente a Bibi con il quale condivide studio professionale e sodalizio amicale sin da giovane studente prossimo alla laurea, a rivendicare, forse come fatto prioritario, la necessità di attuare legami spaziali e di uso, da parte della comunità, tra l’organismo architettonico e il contesto urbano e la sfida ancor più diverrà imprescindibile e stimolante nel caso di edifici prettamente privati, come nel caso degli EGV e nel successivo Complesso Miccichè dove lo spazio non edificato si trasforma in luogo di connessione urbana.

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Culotta a Gratteri, anni 70 (dall’Archivio familiare per gentile concessione della figlia Tania)

Una delle qualità di Pasquale Culotta è l’esigenza del comunicare, dell’aprirsi agli altri creando una pluralità di flussi, di incroci, di percorrenze, di tracciati, senza tuttavia mai perdere di vista quelli o quello che lui ritiene tra tutti più significante e questo riverbera nel modo di fare architettura nella città. Il percorso urbano diverrà per lui principio insediativo e organizzatore. Così nell’84, all’interno di un lungo e fertile confronto con i componenti del gruppo di partecipazione al concorso di idee per “nuovi dipartimenti e facoltà di architettura a Palermo”, individuerà come punto di forza del loro progetto la capacità di restituire una spazialità fatta di più direzioni, una spazialità che al pari della città complessa pretende percorrenze plurime e simultanee, costituendosi le stesse come ordine interno ed esterno del manufatto. I percorsi sono per lui fondamento e principio dell’organismo e del suo intorno. E se nell’EGV che subito si incontra uscendo dalla stazione ferroviaria di Cefalù accentuato, appena lo si incontra, appare il riferimento a Terragni, esso subito si stempera mutando in altra cosa nel momento stesso in cui ci si inizia a muovere, a camminare, attraversandolo l’edificio. È lì che senti la bravura, senti che quell’edificio è ormai fondamentale per la città; essa non ne può fare più a meno. Ecco, questo provocare una sorta di necessità di appartenenza, che va ben oltre la natura o il valore del linguaggio architettonico con cui poi si esprime, che mi richiama alla mente architetture, in una convergenza comune e generalizzata, in cui la gente identifica la città, come avviene ad esempio per Firenze con la cupola di S. Maria del Fiore o per Urbino con lo straordinario complesso creato per il duca di Montefeltro e a distanza di oltre cinquecento anni con l’altrettanto straordinario intervento di Giancarlo De Carlo, in questa capacità sta a mio parere il valore del processo di sperimentazione progettuale portato avanti da Pasquale e Bibi, che è poi una grande eredità da non sperperare, lavorando nel solco da essi tracciato.

Certo, mi si potrebbe obbiettare non è un’invenzione questa cosa, gli architetti veramente tali, dovrebbero sempre cercare di ottenerla e tuttavia, a ben guardare la città contemporanea, ci si accorge della sua rarità, della rarità di questa capacità che ha il progetto di provocare appunto questa necessità di appartenenza. E ciò a mio parere è avvenuto proprio perché è mancato il senso della storia, il suo ruolo didattico al pari del progetto, di quel progetto di cui la storia è tanto ricca. Ecco perché si è tanto battuto nel rivendicare la necessità del binomio progetto-storia nel magistero della gestione, quando da direttore di un Dipartimento che non aveva mai saputo concretizzare la complessa sfida con cui sin dalla sua genesi era stato intitolato appunto – Storia e Progetto – avvertiva la necessità di rifondarne, perché si inverasse tale sfida svelandone così all’esterno la forza di possibili ricchezze culturali, l’apparato concettuale, metodologico, strumentale attraverso un modo collettivo di confrontarsi e produrre ricerca.

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Culotta a Geraci Siculo con i partecipanti al Simposio di progettazione per l’architettura del Terzo millennio (dall’Archivio familiare per gentile concessione della figlia Tania)

Così, nell’insegnamento della Storia specie in una facoltà di architettura, al di là dei necessari ma anche rischiosi steccati creati dai vari Icar, non va mai trascurato ciò che lega l’organismo architettonico alla complessità del tessuto urbano e i modi, le strategie attraverso cui questo legame si è attuato o si attua. Il suo senso della storia è in Pasquale pertanto immune da quel complesso di colpa nei confronti della stessa che ha dominato ben oltre gli anni sessanta, come ben esplicitava Tafuri, il dibattito architettonico. La storia non sarà mai per lui insieme di repertori o modelli figurativi, né pertanto un ingrediente da manipolare; non gli serve per giustificare scelte già compiute, è piuttosto campo a lui aperto per uno studio obbiettivo e analitico che però parte da quanto di volta in volta nelle plurime occasioni di progetto gli si presenta.

Lo si è già detto, dal contesto, che indaga e legge con grande attenzione per carpirne con gli occhi della mente le forme che gli hanno dato significato e identità attraverso quella capacità che esse hanno avuto, sin dalla loro genesi e nel tempo, misuratore della storia, di comporre relazioni primarie nello spazio, in quello stesso spazio al quale il progettista intervenendo e quindi reinterpretando darà nuovo senso. Ed è questa esplorazione sempre diretta sul campo, che nella sua provocante attualizzazione restituisce il livello di spessore della sua storia e quindi il suo stesso grado di qualità; lettura, preferisce, e a ragione, chiamarla Pasquale poiché essa non attraversa il corpo della storia nei suoi tempi lunghi e con gli strumenti dello storico, ma lettura da intendere solo per chi ha gli occhi della mente addestrati con sensibilità a vedere le forme che conferiscono paesaggio al contesto, diviene accumulo sapiente e metodico dei materiali della conoscenza che per lui, in adesione alla nozione gregottiana, sono il sito, l’organismo e il linguaggio; materiali certamente preziosi che chiariscono e orientano e che attraverso sentieri certamente non lineari, invisibili e non dicibili, perché misteriosi, daranno linfa all’atto creativo del progetto la cui natura non può mai disgiungersi dalla ricerca della qualità dell’abitare, ricerca che per Pasquale deve sempre trovare, nella sintesi, una soluzione significativa al rapporto tra l’aspetto privato e l’aspetto pubblico, ovvero collettivo dell’abitare.

Ora, per dare fondamento a questo che io chiamo senso della storia in Pasquale Culotta occorre chiedersi da dove in lui venga esso stesso, come in lui si generi e ciò equivarrebbe a narrarne l’intera sua vicenda umana e creativa, occorrendo in tal caso ben altro tempo e ben altro studio. Mi soffermerò quindi sugli anni della prima formazione attraverso un sintetico e plausibile elenco che tenta di dar conto sin dove è possibile di una successione temporale di cose ed eventi sì da poterne dedurre le sedimentazioni e i fertili intrecci che in lui avvengono per una sua naturale propensione ad accoglierli, a provocarli anche. Inizio dalla famiglia, un habitat patriarcale fondato sull’amore, il rispetto, la generosità, sul fare bene, con dignità, il proprio lavoro, sulla sobrietà. Lo timbra positivamente stimolandogli quella sorta di gioiosa, gioviale curiosità che naturalmente possiede in unicum con una già palese determinazione e che tanta parte avrà nel suo modo futuro di uomo e di architetto. I nonni materni in particolare gli trasmettono il valore di una cultura contadina aperta alle positive contaminazioni di quella americana assorbita attraverso gli anni pregressi di lavoro a Chicago. Con la loro mentalità vivace, libera e democratica precorrevano i tempi, dirà poi Pasquale ricordandoli.

C’è poi la loro casa nella campagna che guarda al mare, un prisma cubico, pieno solo dell’essenziale al suo interno, di gente accogliente e ricca di vita, fatto di spessi muri di tufo con frugali aperture messe al posto giusto sì da accogliere l’odorosa brezza di mare al mattino e quella leggera nel pomeriggio tardo che scende dalle verdi colline, di color terra d’ocra luminosa, aperto alla luce. Pasquale che quotidianamente la usa, la percorre, vi sosta, la vive ne assimila il come e i perché del suo modo di essere, l’essenzialità, la sapienza costruttiva esito di conoscenze stratificatesi nel tempo. Diverranno lievito per la sua successiva ricerca dentro l’architettura. Lo manifesterà palesemente in anni recenti, quando ad esempio nell’orientare la sua attenzione all’interno del dottorato da lui coordinato su quella che definisce la trascrizione mediterranea dell’architettura moderna indagandone il centro e la memoria dirà che proprio alla casa dei nonni, a quel suo garbo di un mondo antico e pur tuttavia così attuale, risale il suo ragionare intorno a questo tema.

91be-dw4bhlCefalù. L’essere nato in essa avrebbe potuto restare solo un caso, un incidente; in Pasquale, per il modo come egli stesso se ne servirà, nel modo più bello perché consapevole e perciò intimo e profondo, diventa invece scelta e destino di vita. Ne inalerà via via nel tempo, la sua cultura insediativa, complessa, fortemente stratificata all’interno di un contesto urbano, territoriale e paesaggistico di grande rilevanza, le sue risposte agli eventi, primo tra tutti l’ingresso violento dell’automobile nel suo tessuto inadatto ad accoglierla, ed anche la sua fragilità a fronte di sfide, complessità e contraddizioni imposte dalla cultura capitalistica. Il volerla comprendere, carpirne gli intimi segreti, l’interrogarla, l’avviare su essa riflessioni partecipi e attente capaci di coglierla come struttura densa di significati, ancor più nel dissonante e spesso inquieto confronto con Palermo, luogo anch’esso di formazione e poi di esercizio del mestiere, gli disvelerà via via di come sia forte e al pari assolutamente necessario il valore della storia dei luoghi per la nostra cultura.

C’è inoltre la sua spazialità polidirezionata, peraltro propria di tutte le città complesse e fortemente stratificate. Pasquale la introietta, la assorbe, la trasla dalla dimensione urbanistica a quella architettonica, la intreccia con la tradizione del movimento moderno (e di essa ancor più il cubismo e il Carpenter Center di L. C. a Cambridge, Mass.) nel cui alveo e dichiaratamente lui sperimenta, la reinterpreta nell’attualità del progetto. Lo aprirà inoltre, attraverso uno studio ancor più penetrato con quel gioiello architettonico che è il suo duomo, al complesso tema di una effettiva comprensione dell’organismo architettonico così come esso appare nell’oggi, conducendolo successivamente, quando già architetto si nutrirà della sapienza teologica e storica di padre Crispino Valenziano, a interrogarsi sulla struttura simbolica che sostanzia il progetto architettonico a suo parere sempre connessa al committente e nell’avvertirne il valore ai fini di una sua fondata interpretazione inviterà storici e critici ad occuparsene – questo nel 1984; valore di portata enorme quello simbolico, più forte ancora di quello fisico.

Questo dialogo con la storia si intreccia poi in Pasquale con quello che direttamente ha con la natura, con la sua bellezza e la sua irripetibilità e anche questo dialogo, che si nutre di domande sul perché e sul come delle sue forme, si tramuta in esperienza spaziale, un’esperienza pertanto sempre nutrita dalla cultura dei luoghi. E penso che dal mare di Cefalù e dal cielo che lo racchiude in alto con le sue nuvole cangianti, dalle loro vastità a cui si apre, perché vi si affaccia, la sua casa e il suo sguardo per lunghi tempi, dallo spazio aperto della spiaggia e del mare gli venga anche il valore della storia, storia come durata, di un universo che si palesa come ineguagliabile opera d’arte e anche attraverso lo straordinario vuoto che li manifesta, dell’indicibilità dello stesso, come il pieno elemento del linguaggio e non mera dimensione dello spazio. E poi c’è la luce, sul mare e dal mare; penetra nello spazio, lo cambia, elemento immateriale sarà poi catturata dall’architettura.

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Cefalù, Salem House, 1972 (dall’Archivio familiare per gentile concessione della figlia Tania)

La cultura visiva e immaginativa di Pasquale si arricchisce; respira l’immensità, la dimensione poetica e inquietante della trascendenza dove in modo altro transita il mondo; rifluiranno queste lente accumulazioni nell’operatività progettuale quando il cielo aperto e questo paesaggio diverranno paesaggi di cultura. Tutto questo, visto con gli occhi e con la mente e con la mano – li tramuterà poi, in età più matura, a metà degli anni settanta, in spazi disegnati e colorati; spazi in movimento come gli splendidi e luminosi acquarelli che ritraggono l’informe cristallino di nuvole e luce e colori cangianti (con la luce che le illumina di dietro e lo muta in stupefacenti aerei eventi tridimensionali) o le tempere di piglio espressionista tutte incentrate sull’inquietante e tattile addensamento plastico di un uliveto, quello della campagna del Campo. Insomma, Cefalù è per Pasquale il primo grande apprendistato di esperienza e di vita e tale rimarrà sempre. La sua storia gli diventa familiare e come la famiglia tesse la sua interiorità, orienta le sue prime scelte intellettuali. Così, nell’acquisire la consapevolezza di vivere la sua contemporaneità in spazi sedimentati di cultura, di una appartenenza alla sua storia e il valore di questa appartenenza, sarà lì che deciderà di aprire il suo studio condividendolo con Bibi, palesando in tal modo, lui ancora studente, la capacità di saper subito recepire quanto emerge dal dibattito in atto in Italia sui destini della città.

Da qui l’avvio di quel coraggio di credere nelle potenzialità inespresse dei piccoli insediamenti, all’interno di una visione per la quale ogni realtà insediativa, e quindi anche piccola, se opportunamente orientata, può assumere ruolo propulsivo nella crescita, non soltanto culturale, del territorio tutto. Scrigni carichi di storia. Vanno ascoltati, uno per uno nelle loro diversità come si fa con gli esseri umani; ascoltarli per trasformare la loro storia in lingua viva. Ed è in questi scrigni che deve essere innestato il germe del cambiamento. Ecco allora che anche Cefalù, la città dove nasce e opera, può diventare uno dei centri del mondo, ed è così che si spiega perché ad un certo momento, nel 1964 prossimo alla laurea, ritiene necessario impegnarsi in prima persona nella gestione politica della città – diventa assessore all’urbanistica – per dare alla stessa ciò che ritiene il massimo delle opportunità, ovvero dare incarico a Giuseppe Samonà, allora già grande solista dell’urbanistica italiana con forti radici in Sicilia, per la progettazione del piano regolatore, affiancandogli, insieme con il figlio Alberto, personalità di forte pregnanza, Carlo Doglio, e gli isolani Roberto Calandra, con cui è impegnato nell’elaborazione della tesi, e Antonio Bonafede.

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Pasquale Culotta

Palermo inizia a conoscerla tredicenne, nel 1952, quando si scrive al liceo artistico, stimolato da tutto ciò che precedentemente ha assorbito nel contatto continuo con un luogo in cui si concentra tanta storia e bellezza di cui più volte disegnando ha cercato di carpirne i segreti. Da questa data Palermo diverrà con Cefalù, per l’intera sua vita, l’altra sua città. Seduta nell’ampio pianoro che, tra i monti, origina dal mare, ancora odorante di colori e profumi, ancora definibile nel suo disegno rispetto all’estendersi della campagna, gli si disvelerà piano piano, giorno dopo giorno nel percorso che da casa lo conduce alla scuola, camminando dentro la sua storia, dentro cuore e viscere, nel suo grembo straordinario e già malato e pur così ricco di civiltà, ancora aperta e generosa verso ciò che non è suo. Della sua attualità sconvolgente assorbe le cadenze, i ritmi del linguaggio, gli addensamenti nei suoi punti nodali da dove si ergono gli stupefacenti palazzi, i grandi conventi, le mirabolanti chiese; nel tempo imparerà a leggerne le dissonanze, gli scarti, le dimensioni, la geometria, il tessuto connettivo, il suo vivere stretto nelle case che l’un l’altra quasi si toccano nei pubblici anditi ombrosi che conducono all’interno di inesauribili labirinti che brulicavano di segni, di gente, di sorprese; e poi il suo allarga invasi stupefacenti dove si aggrumano i grandi segni del potere; nel tempo Palermo gli restituirà la fisicità del tempo e dello spazio.

Sarà un penetrare pian piano il registro del suo vissuto attraverso cui parla lo spazio, ne percepirà impianto e tridimensionalità della sua prima estensione da mare a monte chiusa dall’abbraccio curvilineo dei suoi fiumi, con il suo fascio di strade parallele che si diramano dall’asse centrale che dal porto giunge alla grande chiesa; riconoscerà la forza e al pari l’arroganza prodigiosa di una strada seicentesca che inverte il percorso di una lunga storia per aprirne un altro sontuoso e ricco nel suo caricarsi di grandi architetture, un percorso ad esso perpendicolare che però negativamente spacca la città in quattro parti; distogliendo dal mare, nel fissare un centro, da monte a monte proseguirà poi il suo rettilineo tracciato di volta in volta assecondando le sollecitazioni di chi ha potere nella città.

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Con i suoi allievi, 2018

Pasquale diventa un pendolare, attua una sorta di transumanza faticosa e tuttavia nobile perché recettiva, in virtù del suo voler essere permeabile. Con sguardo curioso e immaginazione fertile per oltre cinquant’anni incrocerà Palermo connettendola con Cefalù da dove ogni settimana e poi sempre più con cadenza quotidiana parte e ritorna. Un viaggio che pur nella riproposizione dello stesso itinerario diverrà spazio di accumulo e riflessione, alimento e termometro della sua crescita all’interno di un mutare che coinvolge paesaggio, città e percezione degli stessi. I quattro anni del liceo, allora positivamente selettivo, con maestri che trasmettevano il carico della loro giovanile esperienza futurista, ancor più alimentano in lui il senso della storia. Forse più che dalla storia dell’arte insegnata da un erudito di stampo ottocentesco quale il barone Agnello, è attraverso il confronto continuo con l’esercizio del disegno che ciò avviene, per la sua capacità di stimolare il continuo dialogo tra mente e mano e per la sintesi cognitiva che da esso deriva svelandogli altresì, in maniera ancor più palese, le corde segrete del suo essere. Consequenziale, pertanto, l’iscrizione nel 1956 alla facoltà di architettura; una facoltà ancora esangue, coesa comunque nello sforzo di costruire una propria identità all’interno del difficile processo orientato a raggiungere, allora nell’unità di architettura e urbanistica, una rapida modernizzazione.

È l’inizio di un percorso di arricchimento culturale che, nel dare spessore scientifico a quanto già appreso e nello svelare nuovi orizzonti del sapere, gli dona gli strumenti del fare architettura, per il quale ineludibile gli appare l’interrogazione sulla storia, allora ancora centrale nel dibattito e nella formazione. Insieme con Le Corbusier, Wright, Aalto che elegge suoi maestri, c’è Edoardo Caracciolo, e in questa scelta è un riconoscersi non per ciò che egli è ma per ciò che aspira ad essere. Pasquale a quel tempo, come io stessa lo ricordo, è un giovane vivace, timido anche e però capace di osare, determinato nel carattere, sensibile ad ogni suono di parola, di immaginazione lunga e rapida, prudente all’occorrenza, temerario anche, e di sorprendenti contraddizioni. Su di lui, già appassionato dell’architettura, che possiede forte l’ansia di risposte ai suoi interrogativi, alla sua urgenza di sapere, che sente ugualmente forte l’impellenza di un contatto con l’altro per trarne alimento, la presa è immediata.

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Pasquale Culotta

Caracciolo è una rara specie di gigante per dimensioni, intelligenza, calore umano, energia dell’azione, ampiezza e versatilità di una cultura democratica, aperta al dibattito e alle sollecitazioni del resto d’Italia e al pari positivamente radicata nella propria terra per la quale avverte la necessità di un impegno consapevole che invera insieme ai suoi studenti nel meditato scavo sui piccoli insediamenti, da lui ritenuti componenti vitali del territorio e pertanto anch’essi centri di irradiazione culturale, da conoscere e rivitalizzare. Come molti di noi, ne sarà catturato e lo seguirà nelle sue fertili peregrinazioni in una relazione elusiva e complessa attraverso cui passa la trasmissione del sapere. Da qui la riscoperta per Pasquale del paesaggio nei suoi molteplici aspetti che studia direttamente sul campo attraverso un’esplorazione che ancora una volta, restituendogli il senso della storia, parte da ciò che vede nel presente per comprenderne le ragioni del loro essere, il perché della cultura e dell’espressività di quei luoghi, verificando anche che l’architettura per essere veramente moderna deve declinare il suo linguaggio in rapporto alle sollecitazioni che da quei luoghi provengono.

Ci saranno poi altri incontri e tra i più fecondi, quelli che Caracciolo stesso gli provoca, con Carlo Doglio prima e poi con Giuseppe Samonà. Gli dischiuderanno nuovi orizzonti, saranno determinanti per il suo percorso non soltanto di architetto. Si tramuteranno in vere e proprie sonde lanciate nel suo avvenire Ad entrambi aprirà la sua amata Cefalù e poi la sua casa con accanto Rosalinda che sposerà nel dicembre del 1967. Libera mentalmente, solida nei valori che contano, con la sua intelligente curiosità sarà partecipe consapevole e attiva della vita di Pasquale divenendone sostegno e approdo costante. C’è infine Bibi Leone, infine perché in questa narrazione che volutamente e consapevolmente procede per salti nella storia, Bibi conclude questo mio primo ragionare su Pasquale Culotta aprendosi a mezzo secolo di vita e di mestiere insieme in una complicità così serrata e feconda da rendere, nella sua irripetibilità, unitaria e inseparabile la loro pratica progettuale.

Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021

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Antonietta Iolanda Lima, architetto e professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo, ha insegnato conoscenza e rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nei decenni 60-70 anche l’elaborazione progettuale, poi lasciata, seppur con dolore, dando priorità alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura, promotrice di numerose mostre ed eventi, autrice di saggi, volumi e curatele, tra i quali meritano di essere ricordati: L’Orto Botanico di Palermo: intreccio tra mondo vegetale e mondo architettonico, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio,1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. contemporanea Monacelli Press, New York, – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri. La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (ital./inglese); Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.

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