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Il segno in Pietro Consagra

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 00:01 In Cultura,Società | No Comments

copertina

Copertina del catalogo di una mostra a Roma, 1985

per Consagra

di Paola Nicita

Pietro Consagra ha rivoluzionato la scultura reinventandone il centro, azzerandone i volumi, riscrivendo il rapporto tra oggetto e soggetto. Ha modificato il senso della visione, la geometria dei valori e delle scale gerarchiche, limando concettualmente, ancor prima che concretamente, quelle superfici e quelle teorie d’architettura sottese alla costruzione dell’immagine – sia essa tridimensionale, ma anche bidimensionale – che hanno avuto la loro ragion d’essere nelle opere e nell’ingegno degli artisti della storia dell’arte, o meglio delle storie dell’arte.

Parola e segno hanno sempre proceduto di pari passo nella ricerca artistica di Pietro Consagra, come ricordano i suoi scritti, in primis la sua straordinaria autobiografia del 1980, Vita mia, ma, osservando la sua opera nel dettaglio, il legame è rafforzato dal fatto che molto spesso le opere abbiano nei titoli riferimenti alle parole, si veda ad esempio la serie dei Colloqui.

Parola come segno, forse cara ancora di più all’artista, perché emblema di una possibilità – quella del segno sul foglio di carta – che può rappresentare una realtà nella quale l’azzeramento del volume corrisponde ad una certezza del senso, ad una manifestazione incontrovertibile del messaggio, nero su bianco.

La parola come segno, astratto emblema della forma primigenia di cui era sintesi grafica, nella Grecia dell’aleph del bovino, della beth del recinto, narrazione arcaica tra immagine e suono da cui proveniamo. Che nell’astrazione assoluta della parola, eterea e invisibile, materializza l’oggetto cui si riferisce, e dicendolo, lo crea.

La ricerca artistica di Pietro Consagra (Mazara del Vallo, 6 ottobre 1920-Milano, 16 luglio 2005) è una genesi costante che si nutre di se stessa, per segnare un lungo percorso rivoluzionario: Consagra è astratto e concreto, è lo scultore che riduce l’oggetto scultoreo a due decimi di millimetro delle Sottilissime e che crea opere monumentali come i Massimi Spessori, materializzando la teoria espressa ne La città frontale.

Di Pietro Consagra si è molto detto delle sue iniziali difficoltà esistenziali, legate a contingenze di povertà e salute, e lui stesso ne narra nella sua autobiografia, ma in realtà Consagra è semplicemente figlio della storia dell’arte, è discendente diretto dei massimi scultori italiani, di coloro che più fortemente si sono interrogati sul senso della costruzione geometrica e sul valore della tridimensionalità.

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Donatello, Deposizione dalla Croce, formella nel pulpito della chiesa di San Lorenzo a Firenze

Per affermare la scultura, la sfida concettuale parte storicamente dalla sua manifestazione più sottile, indietro nel tempo: lo stiacciato, termine con il quale si indica un scultura appena incisa, affiorante da una superficie piana, il cui maestro è stato Donatello, tra la fine del Trecento e la metà del Quattrocento. Rivoluzione concettuale anche qui, basti osservare la formella del pulpito della Deposizione della Croce nella chiesa di San Lorenzo a Firenze, dove l’oggetto che domina la formella è una scala, posta al centro della narrazione scolpita, che diviene fulcro visivo, ridistribuisce e risemantizza i pesi e i ruoli.

Subito dopo, Leon Battista Alberti teorizza la prospettiva centrale e la costruzione dell’immagine, indicando una regola che varrà per tutti gli artisti a venire. Da queste ricerche e da queste rivoluzioni è generata la scultura di Consagra, che attualizza le problematiche legate alla centralità della visione in chiave politica, con l’esigenza di realizzare un’opera che non sia strutturata rispetto ad una relazione a senso unico.

Se vogliamo è in qualche modo una ricerca affine a quella di un teorico come Roland Barthes, che nel suo saggio sulla fotografia Camera chiara del 1980 afferma come il punctum dell’immagine sia quell’elemento di attrazione, anche inconscio, considerato però come riferimento per il dialogo spettatore-immagine: si parla di fotografia, ma è applicabile a ogni tipologia iconografica. Solo che Barthes prende in esame oggetto e soggetto in una relazione ancora tradizionale, se vogliamo, di antitesi gerarchica tra oggetto artistico e osservatore.

23Per Consagra la centralità del soggetto è manifestazione di un pensiero di potere, per cui l’artista contrappone la mancanza della centralità come gesto di dichiarazione politica. Ma il segno non ha centro, ecco perché lo sceglie come enunciato di quella astrazione – politica, perché marxista, formalista – come egli stesso aveva affermato nel 1947, fondando con altri artisti il Gruppo Forma 1. E senza centro è l’opera stessa che cambia configurazione, è un tutto che nella sua interezza cerca un dialogo con chi la osserva, per una esperienza di visione che ne è completamento. Quasi un’esigenza di ordine morale, spinge Consagra a liberare la scultura dalla tridimensionalità che instaura sempre un centro autoritario. La visione frontale nasce dentro di lui come un’alternativa ricca di aperture, come un ridimensionamento che può alleggerire la scultura dal peso di tutto un bagaglio storico, ormai superato, e portarla all’essenziale dei concetti, nella certezza che ponendo l’oggetto vis-a-vis con l’osservatore, il dialogo sarà immediato.

Egli stesso scrive:

«L’ubicazione frontale, come altra mentalità, mi è stata risolutiva per continuare a fare lo scultore. Scoprivo che più della scultura per me era primaria l’uscita dal centro: l’ubicazione come significato. Introducendo l’Ubicazione come elemento plastico, potevo osservare la scultura in modo che altrimenti non si sarebbe rivelata».

La gerarchia è emblema del potere, la cancellazione del centro è la volontà di portare la politica dentro l’arte, in senso concreto, farne la scaturigine della sua stessa ragion d’essere. Così l’oggetto artistico – osservato – è spogliato del suo ruolo principe e riconfigura la sua relazione con l’osservatore.

Nel saggio Pietro Consagra e la cultura dell’oggetto, pubblicato nella raccolta “Psicanalisi e cultura”, Fondation Européenne pour la Psychanalyse – Bollettino di Psicanalisi diretto da Luigi Burzotta, 2002, Paola Caròla scrive:

«Consagra attribuisce all’oggetto via via qualità diverse che ne rendono distinta la natura e la funzione. L’oggetto tridimensionale è quello sottomesso al potere e ubicato al centro. Ad esso oppone l’oggetto frontale che per sua struttura evita invece la centralità (…) Una visione per la quale l’oggetto si dà nella sua interezza e invece di sottrarsi al nostro sguardo ci libera dalle interpretazioni che si affacciano alla nostra mente per renderci partecipi di qualcosa di corporeo che riguarda il rapporto enigmatico che lega il vedente a ciò che si dà a vedere, un rapporto che sfugge alla ragione».

Dei molti momenti e delle innumerevoli opere dell’excursus artistico di Pietro Consagra, che abbraccia decenni e momenti creativi differenti, analizziamo brevemente tre opere pubbliche che l’artista ha realizzato in Sicilia. La prima è La materia poteva non esserci, un monumento funebre commissionato da Antonio Presti, inventore della Fiumara d’Arte, per ricordare il padre, collocato nel letto del fiume a Castel di Tusa, progettato nel 1982 e ultimato nel 1986; le altre due sono a Gibellina, la Stella che è Porta d’ingresso della città, del 1981, e l’Edificio Frontale Meeting noto anche come Meeting Bar, progettato nel 1972, ultimato nel 1983, entrambi realizzati su sollecitazione di Ludovico Corrao, a cui si deve la ricostruzione post terremoto del Belice in chiave contemporanea, e che lungamente e per vari progetti ha collaborato con Pietro Consagra, tanto che l’artista è qui sepolto per sua espressa volontà.

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Castel di Tusa, La materia poteva non esserci, 1986

La riflessione sul segno è forte in queste tre sculture, che sono anche opere pubbliche: La materia poteva non esserci, monumento nel letto del fiume, alto diciotto metri, vede due superfici addossate, una bianca e una nera, nel cui spazio interstiziale è possibile camminare. Camminare sulla soglia. Una possibilità data agli osservatori di divenire attori di un attraversamento simbolico, che vivifica il monumento, a sua volta progettato come parte del paesaggio: del verde, delle montagne, degli alti piloni in cemento che lo sovrastano e lo inquadrano come una cornice visibile solo a distanza.

In una intervista televisiva rilasciata in occasione della presentazione del progetto, l’artista si diceva molto emozionato e felice di aver potuto progettare pensando al paesaggio in cui sarebbe stata collocata la sua opera, come parte integrante della scultura. E questo concetto, ancora a sostegno di una democratizzazione dello sguardo, è anche valido per le altre opere immaginate e realizzate per una fruizione pubblica: la Stella, che segna l’ingresso a Gibellina, è ancora una volta una soglia, un limen, che indica un al di qua e un al di là, segnando le due facies di una stessa opera, che si innalza per ventotto metri verso il cielo, e con i suoi raggi in acciaio inox accoglie al suo interno il paesaggio mutevole nei colori delle stagioni, e con esso cambia insieme. Un fronte e retro identici, due soglie speculari, un attorno che diviene insieme, con la rassicurazione dello sguardo dell’osservatore-fruitore, che con il gesto dell’attraversamento valica il confine della visione stereotipata e contesta il rigore di ogni gerarchia data come assoluta.  

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Gibellina, Meeting, 1983 (ph. Le Moli Ayala)

Lo stesso avviene per l’Edificio Frontale Meeting, o Meeting Bar, alto quattordici metri e lungo quarantaquattro, concepito come una sequenza di strutture al cui interno è possibile immaginare varie destinazione per la vita quotidiana: un bar nonché luoghi di incontro e aggregazione. Anche questa è una scultura percorribile, abitabile, fruibile, che accoglie corpi e, con la sua forma tondeggiante simile ad un susseguirsi di forme concentriche, manifesta un dinamismo che è interno a se stessa, tra trasparenze e segni che, ancora una volta, ne rilevano una volontà di forma che non vuole significare, aperta e da concludere con gesto e pensiero.

La visione di Consagra è dunque frutto di un pensiero che scardina la geometria della visione, intesa come relazione precostituita tra opera e osservatore. Rivede il senso del dialogo che nasce non dalla contrapposizione, ma dall’abbattimento delle strutture, delle regole geometriche. Credo che quello che Consagra voglia dire con le sue straordinarie opere e tutto il suo lavoro di scrittura, che appaiono in imprescindibile relazione, l’uno parte dell’altro, sia un pensiero essenzialmente politico. L’opera che ha il suo centro è osteggiata e destrutturata in nome di un valore superiore, dove è l’essere umano con il suo sguardo a vivificarla, in un dialogo serrato e incessante. Per questo il tema della soglia, tra bifrontali, addossati, sottilissime, è un tema centrale, è il passaggio in cui la fisicità che permette l’attraversamento compie la rivelazione. La performance umana, nello spazio, e ancora nel progetto che è ancora puro pensiero, è il quid ineffabile ricercato da questo straordinario artista, che nel segno di una autonomia dello sguardo ha rifondato la semantica del segno.

Aspetti di questi temi e di queste questioni critiche ho ritrovato in una intervista all’artista che realizzai nel 2001 per il sito on line d’arte Exibart e mai pubblicata su carta. L’artista, generalmente restìo a concedere interviste, accordandomi grande fiducia ha generosamente acconsentito a rispondere ad alcune domande che ho inviato via fax e che mi sono state restituite con le risposte e la sua firma autografa, anche grazie alla preziosa collaborazione della moglie Gabriella di Milia, critica d’arte. Per il suo valore documentario la ripropongo a distanza di circa vent’anni.

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Pietro Consagra nel suo studio a Roma, 1992

Incontro con Pietro Consagra, scultore tra i più innovativi del linguaggio artistico del Novecento

 «Mi sono sentito fortunato a entrare nella scultura in marmo con tutta la variabilità del colore che gli altri scartano come disturbo all’unità plastica». Quasi un manifesto della propria idea dell’arte, quest’affermazione dello scultore siciliano Pietro Consagra si trova tra le righe della sua autobiografia, Vita mia.

Il Maestro, che ha festeggiato i suoi ottanta anni, traccia adesso il bilancio di una vita intensa, caratterizzata da grandi avventure e battaglie condotte in nome dell’arte, e soprattutto dall’incessante desiderio di dar vita alle sue sculture, con la viva consapevolezza di opporsi con determinazione a quella tradizione accademica ormai svuotata di senso e di relazioni con la contemporaneità.

La relazione con la storia, con il vero spirito del tempo, è d’altronde una necessità per Pietro Consagra, recentemente insignito della Medaglia d’Oro come Benemerito della Cultura e dell’Arte dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. L’artista, nato a Mazara del Vallo nel 1920, è fondatore nel 1947 – insieme con Ugo Attardi, Pietro Dorazio, Achille Perilli, Giulio Turcato e i siciliani Carla Accardi e Antonio Sanfilippo – del movimento “Forma 1”, in cui veniva teorizzata la lezione dell’astrattismo, appresa grazie ad un viaggio parigino organizzato dalla gioventù comunista. «Trovammo lì – ricorda Consagra – la chiave che cercavamo». E la chiave significava aver conosciuto artisti come Brancusi, Pevsner (che lo ricevette in casa dato che nessuno poteva entrare nel suo studio), Arp, aver osservato i lavori in ferro di Julio Gonzales, sbirciato nello studio di Picasso, compiuto un giro nelle maggiori gallerie d’arte che riaprivano dopo la guerra, concludendo il soggiorno con una significativa visita all’atelier di Giacometti. Al ritorno del viaggio, in quello “stanzino” che lo scultore condivideva con Renato Guttuso in via Margutta, nascono le sculture astratte di Consagra, caratterizzate da questo momento in poi dalla ricerca della frontalità, innovativa e rivoluzionaria riduzione ad unico punto di vista per la scultura.

Strutture metalliche di spessore che varia da parecchi metri a un millimetro, blocchi di legno, marmi, sculture monumentali o leggere come l’aria, preziosissimi gioielli, e ancora la serie dei Colloqui, i Piani sospesi, i Piani appesi, i Ferri trasparenti, gli Addossati, le Sottilissime, fino a giungere all’idea della Città frontale, che qui in Sicilia divenne la straordinaria scenografia dell’Oedipus Rex, nel 1988, a Gibellina, con quarantotto sagome disposte su tre livelli. Artista che si divide tra azione e pensiero, pubblicando saggi e riflessioni, Consagra è adesso protagonista come ospite d’onore della Biennale di scultura del Cairo, (fino al 15 maggio, a cura di Gabriella di Milia) e della personale che a Milano gli dedica fino al 2 giugno la galleria Fonte d’Abisso, mentre la grande antologica che si sarebbe dovuta tenere a Marsala, all’ex Convento del Carmine, è naufragata a causa di un improvviso taglio del bilancio, pur essendo già stata deliberata. Un vero peccato, a distanza di quasi trent’anni dall’ultima antologica, a Palermo, dedicata al maestro siciliano.

Abbiamo raggiunto Pietro Consagra, che risiede a Milano, per una riflessione sul suo impegno d’artista.

Maestro, tra le sue opere realizzate in Sicilia ci sono la grande scultura che ha dato l’avvio alla Fiumara d’Arte, “La materia poteva non esserci”, la Stella di Gibellina e sempre qui l’edificio Meeting. Quali sono i suoi ricordi legati a queste esperienze?

«In quel terribile stato di necessità provocato dal terremoto gli artisti a Gibellina hanno voluto affermare il diritto di fantasticare. L’esperienza di Gibellina ha attratto prima me, poi Burri e molti altri. Ho visto che ora la mia Stella del Belice è riprodotta nei dépliant turistici di Trapani. Forse è considerata come l’unico simbolo di modernità della regione. Purtroppo è in atto un degrado inquietante che va combattuto. Il Meeting e gli Oracoli di Tebe di fronte al palazzo del comune sono presi dalla ruggine. I due grandi elementi addossati la “Materia poteva non esserci” hanno una dimensione meravigliosa. Ripetono il miracolo del colloquio tra una scultura e l’ambiente circostante, sconfinato in questo caso, e a cielo aperto. Il risultato è stato più affascinante di quanto potessi immaginare. L’opera, che è alta 18 metri, meno quindi della Stella, ha retto magnificamente il confronto con le montagne».

Tra i progetti non ancora realizzati in Sicilia ne ha da tempo ideato uno per la facciata del palazzo comunale di Mazara del Vallo…

«Quando ho visto l’insopportabile edificio del nuovo Palazzo Comunale, costruito in tempo record nella più bella piazza settecentesca di Mazara del Vallo, mi sembra fosse nel 1983, mi indignai per l’incoscienza dell’amministrazione cittadina. Poi, ripartito per Roma, non riuscivo a disinteressarmi a quel guaio, non me la sentivo di arrendermi, di cedere all’irreparabile. Infine mi venne l’idea di progettare una facciata, traforata da sculture-finestre, da sovrapporre a quella mostruosità. È vero, sono passati quasi vent’anni da quel primo progetto di facciata per Mazara…tempo fa l’ho ancora elaborato e l’ho esposto nella mia mostra personale Darmstadt, nel 1997. In quella occasione, il direttore del museo tedesco ha fatto realizzare al vero due piani alti 11 metri. Non so a Mazara se si stia per realizzare la facciata. L’alien è ancora ben in vista. Un anno fa, l’attuale sindaco mi ha chiesto un nuovo preventivo, ma poi non ho avuto notizie».

Questa sua opera, se verrà realizzata, rimarrà comunque una scultura. Perché lei dice che non potrebbe eseguirla nessun architetto?

«La mia visione frontale oltre ad aggiungersi nel panorama della scultura, ha rotto il vincolo della barriera professionale, per suggerire un linguaggio rinnovato anche in altri campi dell’arte. Dal momento che criticavo l’architettura contemporanea, ho pensato di dovermi mettere all’opera come architetto. Al ritorno dagli Stati Uniti, nel 1968, ho scritto il libro La città frontale, in cui esprimevo la mia ribellione contro l’architettura di allora che rispondeva soltanto a necessità funzionali. Capendo che l’architettura da sé non esprimeva più una coscienza plastica, progettai gli Edifici Frontali, perché da scultore avevo mantenuto la libertà di formulare immagini plastiche e di spostare la mia esperienza in tutti i lati della creatività. Nacquero così, nel 1968, quei miei edifici che si delineano con piani curvi continui, e che contrastando l’abuso razionalista dell’angolo retto, privilegiano la comunicazione estetica».

Cosa rappresenta la città per uno scultore?

«Noi abbiamo bisogno della città perché vogliamo stare con gli altri, non disperderci e isolarci. Dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione per proteggere la città e l’arte è un esempio, un aiuto, un obiettivo, un modo di vivere. Proprio qualche giorno fa un critico d’arte ha definito il Meeting di Gibellina “un edificio trasparente fatto di sole linee ondulate, quasi un’anticipazione a “stiacciato” del Guggenheim di Bilbao”».

Lei crede ancora nella necessità della fuga dall’Isola per riuscire a realizzare la propria opera?

«In Sicilia non sento un’atmosfera reattiva. Mi piacerebbe che Palermo diventasse una città vitale, in cui ogni proposta nuova ha risonanza».

Quale opera le piacerebbe poter realizzare in Sicilia?

«Ho già realizzato in Sicilia sculture molto importanti. Non troppo tempo fa, nel 1998, ho creato per il parco del Palazzo d’Orleans un grande “Controluce euforico” in bronzo. Credo che la Facciata di Mazara, il cui progetto è stato ammirato in tante esposizioni, costituirebbe un evento internazionale, oltre ad essere un intervento stimolante ed esemplare di una ecologia non distruttiva».

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020

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Paola Nicita, storica dell’arte, curatrice, è docente dell’Accademia di Belle Arti, dove insegna Comunicazione e valorizzazione delle collezioni museali; collabora per le pagine culturali del quotidiano La Repubblica di Palermo.

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