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Il racconto della Corsica dei piccoli paesi
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2017 @ 00:05 In Cultura,Società | No Comments
di Toni Casalonga [1]
Il sociologo portoghese José Gil parlava dell’isola come del “corpo materno” dei corsi. Questa mamma-spazio ha partorito numerosi spazi – figli. C’è chi si stanca e sparisce, chi cresce e si sviluppa. A noi interessano quelli che usano questi spazi nuovi, quelli che ci vivono, quelli che li creano.
Usare lo spazio
1982. Nasce, nel paese di Bocognano, la Fiera della Castagna. Si appoggia al Foyer Rural (associazione e club per il tempo libero), e si sviluppa nei 22 comuni delle tre valli del Cruzini, del Gravona e del Prunelli, attraverso il programma europeo Leader.
Valorizzazione economica delle produzioni locali, rafforzamento dell’identità territoriale, ecco le direzioni messe in gioco, tramite la valorizzazione delle competenze locali vecchie e nuove, e l’organizzazione degli attori del territorio.
Da quel momento, ogni anno, si cura il castagneto, si allevano i maiali, si macina la farina, si insaccano i fegatelli (salcicce di fegato di maiale) e si sala il prosciutto con la triplice coscienza di:
- La necessità sociale dell’azione;
- La ricchezza tecnica e scientifica dei saper fare;
- Il valore economico e ecologico della produzione.
E così, “le tre valli”, che da sempre avevano ognuna il suo destino geografico e umano particolare, specifico, sono diventate uno spazio solo, una Trinità unica.
E, come tale, tutti gli anni la prima domenica di dicembre, la Fiera della Castagna raduna l’intera Corsica in una grande liturgia della castagna.
Vivere lo spazio
1972. Nasce, nel paese di Talasani, nella pieve di Tavagna, il “Tavagna Club”, da un gruppo di giovani che non vogliono lasciar morire i loro cinque villaggi, ma che la realtà della vita ha spostato a Bastia e anche più lontano.
Sentono il bisogno di sviluppare il legame sociale tra i compaesani dispersi e creano in risposta il “club”, uno spazio fisico dove la gente si può incontrare.
Da quel momento, tutto l’anno, si parla, si balla, si canta, si mangia e si beve in compagnia con la triplice coscienza di:
- lo strappo creato dallo sradicamento del villaggio verso la città;
- la potenza di un legame della memoria e la forza della mutazione;
- la necessità di organizzare un modo positivo di vivere “l’ubiquità simbolica” tra villaggio e città, per usare l’espressione di Jean Toussaint Desanti.
E così, i cinque villaggi della Tavagna hanno scongiurato la brutta sorte dei paesi spenti in una armoniosa e originale Ubiquità vissuta.
E, proprio così, ogni anno, il festival Sittimbrinu, dal 1994 in poi, rende “omaggio alla diversità del canto del mondo” ai cartoons e alle vignette umoristiche dei giornali, che si ritrovano nella pieve in una grande festa musicale e visiva. E, d’estate, i “Luni di l’identità” (lunedì dell’identità) raccolgono artigiani, cuochi, artisti, musicisti e altri ancora per far conoscere la loro arte.
Creare lo spazio
1962. Nasce, nel villaggio di Pigna in Balagna, l’atelier de la Pleïade, grazie all’iniziativa di tre studenti dell’Accademia di Belle Arti. Uno dei tre c’è sempre e lo conoscete [è Toni stesso, che parla, ndr].
Pigna non è il mio villaggio. La Balagna, l’ho scoperta all’età di otto anni: eravamo nel 1946 all’uscita dalla guerra, e in una società corsa tagliata fuori da anni da ogni relazione economica o culturale con il resto del mondo. Ad Aiaccio, dove viveva la mia famiglia, c’era poca roba se non al mercato nero e il babbo non ne voleva sentire nemmeno la puzza.
Dunque arrivo, con il mio fratello minore, nel convento di Corbara dove mamma aveva deciso di partecipare a ciò che lei chiamava un “ritiro”, e che di fatto, sotto il pretesto della religione, altro non era che un luogo di vacanze per madri di famiglia, organizzate dai frati domenicani.
E qui, scopro un mondo di dovizia, sia di corpo che di spirito. Il convento viveva poi in una autarchia medievale: orti traboccanti di verdure, alberi carichi di frutti, alveari di miele, recinti di vitelli, mucche, pecore, capre e capretti. Cantine colme di vino, ma questo lo avrei scoperto più tardi! I domenicani, per la maggior parte intellettuali un po’ troppo all’avanguardia per la loro gerarchia, mi fecero pian piano conoscere anche il mondo del pensiero, perché siamo andati per anni, con mamma, a passare il mese di settembre nel convento.
Gli anni passavano, e mi allontanavo dal convento per incontrare ragazzi della mia età nei villaggi vicini, Pigna e Corbara.
Nel 1956, ero studente alle Belle Arti a Parigi e comprai una casa in rovina a Pigna, per il prezzo di una chitarra.
Nel 1961, in piena guerra d’Algeria, lasciai Parigi per Roma, e rientrai nel 1963, dopo l’accordo di Evian. Dove andare? Che fare? Dopo qualche tentativo senza frutto, restai a Pigna.
Pigna, poi, non contava ormai che 40 abitanti, era un mondo che finiva, gli ulivi erano bruciati: se ne andava in fumo l’oro del Mediterraneo. Il silenzio della natura dopo i grandi incendi produceva un’impressione profonda di morte, di vuoto.
Ripensando al percorso fatto fino a oggi, mi accorgo che si può prendere coscienza della saggezza di tre proverbi come condizione dell’azione:
Il morto fa spazio al vivo
Non serve fischiare se il somaro non vuol bere
È l’uso che fa la legge
Il morto fa spazio al vivo
Quando scompare un modo di vivere, si creano vuoti, si aprono spazi che sono la prima condizione necessaria per la muta- zione: così scompaiono anche gli ostacoli, e nasce la libertà di fare.
Alloggiare con la propria famiglia, avere un laboratorio, a Parigi, Roma o Aiaccio, è difficile, è caro. A Pigna, villaggio quasi vuoto, possiedo tutti gli spazi che voglio con poca spesa.
La prima delle condizioni, la possibilità di fare, non nasce dalla nostalgia del passato ma dalle opportunità aperte dalla sua dipartita.
Non serve fischiare se il somaro non vuole bere
Più che una condizione, questo proverbio propone un metodo: prendere il tempo come un amico. Perché dopo il tempo di una società che finisce senza risollevarsi mai più, ritorna il tempo del desiderio. Ieri, era necessario andarsene. E a quelli che restavano, gli altri ponevano sempre la stessa domanda con una punta di compassione: “Restate qui tutto l’anno?”
Come dire: per passare qualche vacanza, va bene ma… andatevene, scappate! Invece ora è con uno sguardo di invidia che gli stessi ci pongono la domanda.
Salvarsi nella mutazione, e non dalla mutazione, come ha scritto Baricco (I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango libri, Roma, 2006), e scegliere ciò che noi vogliamo trasportare dal vecchio mondo al nuovo, e che porta il bel nome di cultura.
È da quel momento che si riannodano i fili strappati dell’identità, che si intrecciano con quelli della creazione per una nuova tessitura, e che i saperi antichi, innaffiati dalle nuove conoscenze, fioriscono di nuovi colori.
Hanno visto, i quarant’anni che sono trascorsi, compiersi questa mutazione, accompagnata da sguardi forse più accesi di altri: artisti, filosofi, ed anche alcuni responsabili ufficiali hanno portato una valorizzazione, un contributo che abbiamo potuto utilizzare.
Pigna, oggi, è un piccolo villaggio con un centinaio di abitanti stanziali, con un’età media di 29 anni. Non ci sono più case in rovina, poiché il villaggio è stato restaurato a tempo dagli sforzi degli abitanti e con l’aiuto di fondi pubblici ottenuti presentando documentazioni difese a denti stretti. Ci sono otto artigiani, otto ristoratori, tre musicisti, due artisti incisori di pitture-sculture, due agricoltori, due pastori, due amministrativi, e una attrice; in più ci sono sei persone che vengono dai villaggi vicini a lavorarci tutto l’anno; e dodici durante l’estate. Da sommare a nove persone attive al di fuori del villaggio nel turismo (tre), nell’insegnamento (due), nel commercio (uno), nei lavori pubblici (uno) e nei servizi (due).
Ci sono anche due negozi di artigianato e di agro-alimentare, quattro ristoranti, diciassette camere in tre stabilimenti, un auditorium di 120 posti, e un teatro all’aperto.
Si può dire che si tratta di un’economia dinamica e di un ambiente protetto: perché e come è stato possibile?
È l’uso che fa la legge
E non il contrario. Tutto ciò si è realizzato attraverso la sperimentazione, sia sul piano tecnico che logistico che sociologico. Il gusto del rischio, la prova dei fatti, la possibilità di un fiasco, il piacere dell’azione sono sempre stati seguiti da uno sforzo del pensiero critico. Prendere lezione dalle cose, e “fare e disfare e sempre lavorare”!
Dopo la prima e timida mossa nel ’62, le cose iniziano nel 1964 con la creazione di una cooperativa di artigiani, la Corsicada.
- negli anni settanta, questa cooperativa si allarga ai prodotti agricoli trasformati;
- poi al restauro dell’architettura tradizionale;
- infine alla musica.
- Il tutto accompagnato da un’azione di formazione, di trasmissione delle competenze e dalla ricerca di nuove soluzioni.
E così gli ulivi bruciati – che Omero definiva immortali – sono stati innestati dopo gli incendi, e oggi sono carichi di nuovi frutti nutriti dalle radici profonde nella terra, e l’identità collettiva del villaggio, riconosciuta da tutti, altro non è che un’unità costruita.
E, come tale, tutti gli anni il festival Estivoce e, ogni anno, l’attività creativa, produttiva e formatrice permanente riproducono costantemente la calce che salda le pietre per fare ponti che legano e non muri che separano.
Sette anni dopo…
Sette anni dopo, i tre spazi sono sempre allo stesso posto, i vecchi sono un po’ invecchiati, sono arrivati i giovani, è nato qualche bambino ed è sbocciata qualche nuova idea. Come dire che dal «corpo materno» nasce sempre nuova vita.
E, soprattutto, lo spazio politico si è nutrito delle stesse esperienze che, ormai, da marginali quali erano, sono diventate colonne della programmazione globale, lievito del presente e dell’avvenire, strumenti per combattere le forze opposte della banalizzazione e della perdita d’identità.
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