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Il politeismo come antidoto e risorsa culturale

copertina bettini di   Virginia Lima

Non c’è probabilmente nulla di più attuale di quanto già accaduto in passato, ovvero di quel che resta permanenza e ricorrenza nel tumultuoso divenire del tempo. La cronaca più recente ce ne dà esemplari conferme. Basterebbe sfogliare un libro di storia e leggere di crociate, inquisizione, caccia alle streghe e di tutte quelle azioni perpetrate dall’Occidente in nome di Dio. Non è poi cambiato molto se ancora oggi leggendo le pagine di un quotidiano ritroviamo le medesime notizie di attentati suicidi e di stragi, come quella recente ai danni alla redazione di Charlie Hebdo, rivendicate in nome di una fedeltà a un Dio che si presume unico e vero. Cambiano le rivendicazioni, cambiano i metodi, ma il presupposto che ne ha costituito il  motore è stato, è e forse sarà il medesimo: l’esistenza di un’unica verità, l’asserzione di un rapporto esclusivo con il dio, ovvero ciò che Assmann definisce «esclusione mosaica». Questa è la differenza rispetto alle religioni delle civiltà antiche, quelle civiltà lontane nel tempo che abbiamo imparato più o meno a conoscere nei libri di storia, di letteratura e che hanno professato ciò che da una prospettiva tutta occidentale e, dunque, distorta, è definito politeismo.

Dal confronto fra religioni monoteistiche e politeistiche, Maurizio Bettini, antropologo del mondo antico e profondo conoscitore della cultura latina, propone un saggio originale e critico, Elogio del politeismo (Il Mulino, 2014), partendo da una certezza: se è innegabile che Romani, Spartani, Germani vivevano in società violente, è altresì vero che mai, a differenza di cristiani o di musulmani, hanno portato avanti conflitti, battaglie,  guerre per motivi religiosi. Comprendere lo scarto tra politeismo e monoteismo, alla luce dei continui attacchi del fondamentalismo tanto islamico quanto cattolico, significa ammettere che è possibile trarre un insegnamento dalle religioni classiche da applicare «non sul terreno dell’estetica e della filosofia, della letteratura e della psicologia, ma su quello dell’esperienza concreta, nello stesso tempo politica e sociale». Ecco lo scopo del saggio di Bettini, il cui maggiore pregio consiste in una fluidità espressiva che ben si adatta alla concretezza e al pragmatismo di un messaggio facilmente accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Imparare dalle culture classiche non è un argomento così banale soprattutto nell’ottica della metodologia utilizzata: la comparazione. I quindici capitoli del breve saggio offrono il terreno per una comparazione antropologica e linguistica tra le religioni del mondo classico e quelle del mondo contemporaneo. Un tema, questo, innovativo quanto significativo, attraverso cui l’autore, rispondendo indirettamente alla critica secondo la quale le discipline umanistiche sono viziate di aleatorietà, spinge a riflettere su parole come idolatria e paganesimo, che adoperiamo senza considerarne le implicazioni culturali. La comparazione antropologica consente, infatti, la possibilità di studiare aspetti appartenenti a realtà lontane e diverse tra loro e, dunque, apparentemente non confrontabili. Così, ad un cattolico intransigente apparirebbe quasi dissacrante il paragone tra il presepe, rappresentazione della nascita di Cristo, e il larario romano. Tale analisi, tuttavia, invita a riflettere su come contrariamente alla rigidità e all’esclusività dei simboli cristiani, nel mondo romano le statuette di gesso, che incarnavano lo spirito e la formazione dell’individuo e dell’intera famiglia, esprimessero la flessibilità, la duttilità e il pluralismo di un pantheon inclusivo.

 Rubens, Le conseguenze della guerra,1638

Rubens, Le conseguenze della guerra,1638

Sostenere che le religioni monoteistiche chiuse nel proprio atteggiamento di superiorità potrebbero trarre insegnamento da una cultura altra e antica che è stata ispirazione per letteratura, filosofia, teatro, ma che, almeno a prima vista, non sembrerebbe aver arricchito il patrimonio culturale della religione di cui volenti o nolenti siamo eredi, significa aprirsi per mentalità e concreta prassi ad un diverso modo di configurare la costruzione religiosa. Tuttavia, per un approccio più critico al monoteismo e, in particolare, al Cristianesimo basterebbe ricordare che l’affermazione di quest’ultimo è stata in parte dovuta proprio alla normalizzazione di elementi talmente radicati nelle società agrarie dei primi secoli dopo Cristo da rendere necessaria un’opera di adeguamento da parte della Chiesa stessa: riti, feste, pratiche arcaiche e credenze vengono reinterpretate e, dunque, normalizzate alla luce del messaggio cristiano, come dimostra la coincidenza calendariale della nascita di Gesù e della festa di San Giovanni rispettivamente con il culto di Mitra e con il solstizio d’estate. Così, nella memoria culturale esercitata dal presepe, l’eccezionalità del Bambin Gesù resa mediante l’azione della natura incarnata dalle figure del bue e dell’asino ricorda quella stessa natura che sotto le sembianze della lupa protegge Romolo e Remo.

Il medesimo principio comparativo viene inoltre esteso a due fatti di cronaca recente apparentemente antitetici: il divieto di allestire il presepe in una scuola elementare italiana in obbedienza ai principi del multiculturalismo, e l’ottusa opposizione alla costruzione di una moschea a Colle Val d’Elsa. Atteggiamenti che producono effetti opposti, da un lato l’omologazione e, dall’altro la frammentazione, ma che sono strutturati sul medesimo principio dell’impossibilità e incapacità da parte delle religioni monoteistiche non solo di pensare la coesistenza di divinità diverse, ma di connetterle nel medesimo sistema di valori religiosi. In altre parole, è la differenza dei quadri mentali, ovvero di categorie concettuali che delineano, spiegano e discretizzano il continuum spazio temporale, che opera nella diversificazione e nell’incompatibilità tra i due mondi.

 Raffaello Sanzio,Concilio degli dei

Raffaello Sanzio,Concilio degli dèi

Dunque, vietare la rappresentazione natalizia del presepe in nome di un presunto multiculturalismo, cioè di un solo apparente rispetto per gli altri credi, nasconde la stessa arroganza e la medesima pretesa di chi si oppone alla costruzione di un luogo di culto islamico: entrambi gli atteggiamenti celano un’intolleranza di fondo dettata dal pensiero di essere dalla parte dell’unica verità possibile. Il sacrificio del presepe nello stesso tempo invita a riflettere sul vero significato del multiculturalismo e, di conseguenza, sul concetto di identità. L’obiettivo che le maestre protagoniste del fatto di cronaca citato dovevano perseguire non era tanto il multiculturalismo, ma l’interculturalismo in quanto se il primo garantisce la coesistenza anche se asettica, è solo il secondo che rende possibile l’integrazione. I Romani già secoli fa avevano ben compreso questa differenza applicandola alla sfera religiosa al punto da estendere il concetto di cittadinanza al pantheon degli dèi. Paradossalmente nella nostra società l’essere cittadino, che Amarthya Sen annovera tra gli elementi costitutivi dell’identità di ciascun individuo, al pari dell’appartenenza sociale, etnica, religiosa e della professione, è ritenuta elemento da preservare in un’ottica di assoluta esclusività sociale e culturale come dimostrano le recenti discussioni politiche sullo ius solii. Pertanto, nel profilo identitario si tende a considerare la religione, il Paese di provenienza perfino le preferenze alimentari come discriminante, ma non la cittadinanza.

Dopo aver argomentato la differenza di quadri mentali e, dunque, aver spiegato lo scarto tra le religioni, nell’appendice, non a caso, lo studioso guida il lettore ad indagare se stesso in relazione al concetto di tolleranza e in relazione a termini linguistici che il pensiero cristiano-centrico ha distorto. Così, è nel significato etimologico della parola tolleranza che è racchiuso il pericolo del corto circuito che potrebbe colpire il più tollerante degli individui: «idee e persone vengono infatti tollerate non perché meritano una legittimazione in sé, ma in ragione della carità o in vista del bene della Chiesa». Si tratta di un concetto che richiama in ambito latino la sopportazione nei confronti di qualcosa di negativo e in ambito cristiano il concetto di carità e che, di conseguenza, non ha niente a che vedere con il riconoscimento della validità delle idee altrui. La tolleranza si afferma in Europa, sostiene l’antropologo, in quanto è assente la componente latina dell’interpretatio la quale consente la traducibilità linguistica fra divinità appartenenti a religioni diverse. È in tale mediazione linguistica e culturale che consiste in definitiva lo scarto tra politeismo e monoteismo in quanto la pluralità degli dèi garantisce non solo l’esistenza di altre divinità ma anche la loro percezione come una nuova risorsa. A dimostrazione di ciò, Bettini ricorda la pratica dell’evocatio utilizzata durante l’assedio di una città nemica per proteggere la divinità straniera e per ringraziarsela promettendole maggiori onori nell’Urbe.

Ernesto Biondi, Saturnali, 1890

Ernesto Biondi, Saturnali, 1890

L’ interpretatio, dunque, in quanto azione di mediazione evita la nascita di conflitti a carattere religioso poiché la possibilità di sperimentare nel campo del divino e la curiosità manifestata dalle religioni antiche implicano un autentico riconoscimento e una totale legittimazione degli dèi altrui che va ben oltre un apparente rispetto. Infatti, solo chi pensa di essere nell’unica, autentica verità non è curioso di conoscere e sperimentare, ma, viceversa, nutre un sentimento di indifferenza o di superiorità nei confronti dell’altro.

Una probabile causa della rigidità monoteistica è individuata nella scrittura, o meglio nell’idea che il libro sacro del Cristianesimo, dell’Ebraismo e dell’Islam sia stato ispirato e, dunque, scritto direttamente da Dio. Una sacralità, questa, sconosciuta ai Greci e ai Romani che non possedevano un libro sacro e per i quali anzi il sistema religioso era una creazione tutta umana e poetica. Se, dunque, si accetta il principio dell’autorialità come elemento fondante del monoteismo, allora il tramonto, prospettato da Bettini, della scrittura e dell’autore condurrebbe al declino stesso della sacralità monoteistica e, quindi, ad un indebolimento della tradizione religiosa fondata su tale principio. Il mutamento sociale contemporaneo delineato dallo studioso, ma che Bauman aveva già identificato nel passaggio dalla modernità liquida alla scrittura liquida è, in altre parole, l’unica possibilità affinché l’inflessibilità e l’arroganza delle religioni monoteistiche possano declinare. Ecco, dunque, il motivo per il quale l’Occidente, in particolare, ha imparato, usato e sfruttato elementi filosofici, letterari, artistici, teatrali e perfino politici, ma non è stato in grado di trarre preziosi insegnamenti da una religione altra che oggi è ormai relegata al puro mito.

 Triptolemos e Kore Louvre, V sec. a.C. (part.)

Triptolemos e Kore, Louvre, V sec. a.C. (part.)

L’antropologo ci accompagna in un suggestivo viaggio tra religioni e culture diverse, fra passato e presente, ma durante l’itinerario viene ogni tanto da domandarsi se l’originalità   dedell’argomento affrontato non abbia come conseguenza il pericolo derivante dall’applicazione e dalla proiezione di modelli e coordinate culturali che mal si addicono ad un concetto di religione, quella romana, che è prima di ogni cosa, come ammette lo stesso autore, politica. Innovativo e originale, il pensiero dello studioso, tuttavia, sembra sottovalutare due aspetti caratterizzanti le tre grandi religioni monoteistiche: la fede e il peccato, concetti sconosciuti nel mondo classico. D’altra parte l’assoluta certezza di essere nella verità, che l’antropologo individua come causa del gap culturale e sociale tra le tradizioni prese in esame, è in realtà valida per molti altri aspetti culturali in quanto tutto ciò che non rientra, ad esempio, nei nostri canoni artistici o musicali non viene riconosciuto né legittimato. In ogni caso se anche si ammettesse l’impossibilità per le tradizioni monoteistiche di arricchirsi dal mondo classico, senza il pericolo di sconfinare in una sorta di qualunquismo religioso o di trasformare la categoria stessa della religione, almeno è possibile ricavare un unico ma significativo insegnamento: evitare di nascondersi dietro lo scudo di Dio e di sfruttare il credo religioso come pretesto legittimante per conquiste e guerre.

Dialoghi Mediterranei, n.12, marzo 2015
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Virginia Lima, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e specializzata in Antropologia culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha orientato parte dei suoi interessi scientifici verso l’antropologia del mondo antico, approfondendo la funzione culturale del prodigium inteso non solo come momentanea rottura dell’ordine cosmico ma anche come strumento della memoria culturale del popolo romano.

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