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Il pianto confinato. A margine del cordoglio pandemico
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:37 In Cultura,Società | No Comments
dialoghi oltre il virus
di Giovanni Gugg – Simone Valitutto
Durante le settimane di quarantena, tra le tante iniziative di condivisione e, implicitamente, di elaborazione collettiva della crisi sanitaria, la rete “Lo Stato dei Luoghi” [1] ha lanciato online un “Alfabeto Pandemico” [2], che in un paio di mesi ha raccolto 850 vocaboli nuovi e riscoperti, antichi e risignificati alla luce dell’esperienza dell’epidemia e del confinamento.
Costituiscono una sorta di Bilderatlas, come lo definisce Federico Faloppa, in cui sono confluite, arrivando spontaneamente da tutta Italia, parole e racconti, riflessioni e intuizioni, anche dolorose e diversamente percepite, che, tutte insieme, mostrano un lessico in divenire, magari in (ri)costruzione, «come se di fronte al lessico ufficiale ci fosse l’esigenza di rimodellare un altro lessico, spesso articolato intorno agli stessi termini, per farlo aderire meglio al proprio vissuto» (Faloppa 2020). Si tratta di frammenti di storie che, sebbene diverse tra loro, creano un noi, «un dizionario dal respiro collettivo». Tra queste, la parola “Lutto”, redatta da Giulia Pastorella, ha la seguente spiegazione:
Il 13 marzo 2020, il giornale “L’Eco di Bergamo” pubblica 10 pagine di necrologi e, così, anche per i giorni successivi, a causa dell’alto numero di morti nella provincia. La notizia ottiene risonanza a livello internazionale, attraverso video, commenti sui socialmedia e articoli di altri giornali, come ad esempio la copertina del settimanale di “Le Monde” del 29 maggio. Il 24 maggio 2020, quando l’epidemia flagella gli Stati Uniti d’America, il “New York Times” pubblica in prima pagina mille nomi di morti statunitensi, avendo cura di accompagnare ciascuno da un breve ricordo. L’8 giugno 2020 il “Corriere della Sera” esce con uno speciale intitolato “In memoria”, un omaggio che il quotidiano ha deciso di dedicare ai defunti con coronavirus che il nostro Paese contava, oramai da mesi, durante i bollettini giornalieri della Protezione Civile. Composto di decine di fotografie, con piccoli necrologi, che raccolgono alcune vite spezzate – senza che ce ne accorgessimo – dall’emergenza sanitaria, questo memoriale di carta partecipa anch’esso all’elaborazione collettiva di un lutto che proprio in quei giorni l’Italia ha deciso, ha sentito il bisogno di incominciare.
Nonostante le cronache giornalistiche dei giorni più convulsi dell’emergenza epidemiologica, i continui ricordi istituzionali, le preghiere di papa Francesco, le pagine web e i necrologi sui quotidiani dedicate a non dimenticare le storie dei defunti, sembra giusto individuare come atto fondativo del cordoglio nazionale la visita al cimitero di Codogno del Presidente Sergio Mattarella il 2 giugno 2020, festa della Repubblica: sembra essere il momento in cui l’opinione pubblica si accorge che dietro ai numeri ci sono storie e singole esistenze.
Se di Adriano Trevisan, il pensionato di Vo’ individuato come il primo morto con Covid-19 italiano, abbiamo un ricordo preciso, riuscendo a tracciarne il volto e la storia, degli altri 34.560 difficilmente possiamo avere la stessa memoria, inghiottiti dai numeri e dalle fasi emergenziali succedutesi fulmineamente [3]. Da quel 21 febbraio, data d’inizio del lungo corso dei decessi, scendendo nel particolare territoriale è possibile individuare ulteriori primati: “il primo decesso della regione”, “il primo morto della provincia”, “il primo defunto della città”, “il primo morto del paese”. Stringendo la lente, il numero di decessi si avvicina all’esperienza di ciascuno, per cui buona parte degli italiani arriva a conoscere qualcuno che conosce almeno una delle vittime del contagio. Questo discorso, seppur generico, fa i conti con le geografie relazionali dell’osservatore: la proporzione è differente se abita, ad esempio, in una città lombarda o in un paese sardo. Accanto alle fotografie e alle poche e fredde righe che descrivono i tratti salienti della vita e il sopraggiungere della morte, chi osserva può tracciare diverse traiettorie del ricordo, riscrivendo il suo personale necrologio dei morti la cui identità è nota arricchendolo con gli elementi personali.
Uno degli autori ha conosciuto Mirko Bertuccioli (46 anni, Pesaro) come musicista del duo “I Camillas”, prima da lontano ascoltando dei dischi, poi da vicino attraverso i concerti o i social. Alessandro Brignone (46 anni, Salerno) era il sacerdote della comunità di Caggiano, zona rossa e località frequentata abitualmente da Simone Valitutto, che spesso lo ha incrociato sul campo (qui, in un cortocircuito metodologico, ciò che è familiare diventa oggetto di studio). Enrico Comba (63 anni, Pinerolo), antropologo, conosciuto solamente attraverso i suoi scritti ma prossimo in quanto membro della stessa comunità scientifica. Questo è solo un esempio dal margine, che non tiene conto di rapporti più profondi (familiari, amicali, di prossimità, collaborativi), ma permette di abbozzare una direttiva spaziale ed epistemologica che tiene conto dell’osservare, partecipare, appartenere (Fava 2017). Per tanti – alcuni dei morti di Covid-19 emergono dai numeri – sono vicini e lontani allo stesso tempo, distanziati non solo dal contagio ma anche dalle strategie relazionali, conosciuti di vista o fondamentali per tratti specifici della propria esistenza o esperienza dell’epidemia.
Nella memoria collettiva degli italiani confinati in casa, in apprensione di fronte alle televisioni e in cerca di continui aggiornamenti sul web, il momento più drammatico che ha posto tutti di fronte al dolore per le morti finora solamente enumerate è legato ad immagini precise. È la notte tra il 18 e il 19 marzo e a Bergamo sfilano decine di mezzi militari carichi di bare. Per i cadaveri, negati alla vista e all’ultimo saluto dei familiari, non c’è spazio, devono essere cremati fuori regione per poi, non si sa quando, trovare il sollievo della sepoltura. Le fotografie e i video amatoriali espongono i cadaveri, pur anonimi, in un’ostensione luttuosa celebrata – involontariamente – dallo Stato, e diventano quella «soglia, cui accedere per conoscere ciò che alle sue spalle si estende» (Faeta 1998: 128)[4] di cui avevamo bisogno per comprendere che in quei terribili giorni non c’era solo il rischio del contagio, che dietro ai numeri c’erano i corpi.
Nel caso di decine di migliaia di morti in Italia, 450.686 nel mondo [5], il virus ha aggravato patologie pregresse [6] o ha rivelato quanto siano stati impreparati i sistemi sanitari nazionali o le politiche della cura di fronte a un’emergenza epidemiologica. Adesso, con il calare delle curve del contagio (almeno in Italia), si può far pace, si può provare ad affrontare il dolore, si può piangere. La difficoltà di capire e dare un senso a quel che stava accadendo, cioè l’assenza di un’interpretazione chiara di cosa significhi vivere una pandemia, nelle sue declinazioni sanitaria, sociale ed economica, ha aperto un confronto tra esperti, intellettuali e opinionisti. La lettura dei dati e delle proiezioni statistiche, la gestione dell’emergenza, le problematiche sulla mancanza di dispositivi di protezione, le conseguenze dei provvedimenti di limitazione delle libertà, le prospettive politiche e le contraddizioni democratiche hanno stimolato un «dibattito culturale» – o «lotta» (Douglas 1996) – che si è mosso tra paura e speranza, tra preoccupazione e fiducia.
In Italia hanno sviluppato una discussione ampia e interessante le parole che Giorgio Agamben ha espresso in vari interventi sulla stampa e sul web tra fine febbraio e maggio, avendo poi anche un’eco a livello internazionale, e che hanno posto l’accento sul rischio che lo stato d’eccezione imposto dal microscopico patogeno possa erodere il diritto e condurre verso una deriva politica. In particolare, nel suo intervento del 14 aprile, Agamben si domanda polemicamente: «Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?» (Agamben 2020). In effetti, la situazione è eccezionale, perché in determinate zone le camere mortuarie degli ospedali per settimane non bastavano più a contenere i feretri, i riti religiosi erano ridotti a pochi gesti e a preghiere bisbigliate, magari recitate dal chiuso dell’abitacolo di un’auto o in diretta streaming, senza la possibilità di lasciare un fiore perché i fiorai erano chiusi, come chiusi erano gli stessi cimiteri. Come scrive Donatella Di Cesare, «i corpi non possono ricevere le cure pietose che appartengono a un culto immemoriale. Devono essere cremati con quel che indossavano al momento del decesso, avvolti con un tessuto disinfettante. La burocrazia accelera e arriva rapidamente il certificato di morte. Le bare vengono caricate cinque, sei alla volta. Nessuno le accompagna» (Di Cesare 2020: 36).
È un’assenza rituale che, tuttavia, le epidemie si portano dietro sempre, come testimoniano, ad esempio, le cronache del 1918, quando a causa della “febbre spagnola” vengono vietati i cortei funebri e «soltanto in via eccezionale potrà essere acconsentito l’accompagnamento da parte di ministri di culto e di stretti famigliari dei defunti, previa speciale autorizzazione dell’ufficio sanitario» (“Corriere della Sera”, 15 ottobre 1918, cit. in Chiaberge 2016). O, ancora, è quanto riferisce Albert Camus ne La peste, «les malades mouraient loin de leur famille et on avait interdit les veillées rituelles», e fu istituito il divieto della corrispondenza postale «pour éviter que les lettres puissent devenir les véhicules de l’infection» (Camus 1994: 160, 68). In questi casi estremi in cui la morte diventa esperienza collettiva e quotidiana, l’antropologia deve confrontarsi con quella che Adriano Favole e Gianluca Ligi hanno chiamato “etnografia della morte di terzo tipo” (Favole, Ligi 2004), ossia quella in cui l’impossibilità di seppellire i defunti, di praticare i riti funebri e di elaborare il lutto può rendere la morte un habitus che alimenta se stesso, un “lutto culturale” in cui il non poter dare un senso alla morte riproduce la distanza tra sapere e comprendere, tra spiegare e sentire (Dupuy 2006).
In questo contesto, occorre chiedersi, dunque, perché non abbiamo pianto, o continuiamo a non piangere, i morti causati dall’epidemia di coronavirus, intendendo per “piangere” l’assunto demartiniano che di fronte alla “crisi del cordoglio” di morti subìte passivamente, ci presenta come necessaria l’opposizione di una «seconda morte culturalmente sancita» non solamente religiosa ma laica (Massenzio 2019: 40-41).
Come ripetuto più volte, i morti sono tanti, trasfigurati da corpi malati a dati statistici, non pensabili perché invisibili (Dal Lago 2012: 157-159) e al tempo stesso oggetto di un eccesso di visione e comunicazione, con bollettini ufficiali, lanci di agenzia, servizi televisivi che parlano di numeri, disorientando e, spesso, abituando al mero conteggio. Le vittime sono soprattutto gli anziani, affetti da patologie pregresse, che a volte vivevano lontani dai propri parenti, in solitudine oppure in RSA, corpi già esclusi dalle dinamiche familiari o comunque precari, “non persone”, vittime del continuum di violenza delle «piccole guerre e genocidi invisibili» degli spazi sociali normativi (Sheper-Hughes 2005: 282) [7]. Che siano lontani dal tessuto familiare, isolati in reparti di terapia intensiva o distanti geograficamente, i numerosi deceduti sono disposti sulla scacchiera spaziale in maniera disequilibrata; viste in lontananza dagli ospedali, dai focolai, dalle zone rosse, le salme sono dislocate (Salome 2012), distanziate non solamente perché contagiose ma anche perché negate: «i morti non devono disturbare la città dei vivi» (Di Cesare 2020: 36). Di conseguenza, si innescano precise azioni di coping che ricordano le strategie di evitamento dell’angoscia narrate da Luciano Bianciardi ne La vita agra: «lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura, specialmente quando dura anni, e ti mozza il lavoro, e tu stai male» (Bianciardi 2013: 118).
Invisibili e dislocati, come già detto, i cadaveri nelle fasi più acute del contagio non ricevono adeguata sepoltura: occorre «evitare le occasioni di “assembramento” per la ritualità dell’addio» [8] e i cimiteri sono chiusi al pubblico, così come le chiese e altri luoghi di culto per lo svolgimento delle esequie dopo la cremazione, la quale è «l’apice della liquidazione discreta, della sconsacrazione compiuta» (Di Cesare 2020: 38). Morire in piena emergenza sanitaria rende i defunti tutti uguali, privati delle forme del cordoglio, contagiati o meno; non ci si può stringere intorno a chi resta, non si può consolare con un abbraccio o un bacio, le condoglianze vengono bandite dalle norme del distanziamento. Allo stesso tempo, i riti collettivi della perdita sono indispensabili perché permettono un’elaborazione del distacco; tali rituali non sono solo un archivio mentale o un apparato di compensazione (Abrahams 2001), ma una via di accesso a esperienze reali con cui «porre le domande essenziali» (Candau 2002: 186). Pertanto, possono rivelarsi come occasioni creative, infatti anche nelle situazioni più difficili vengono a realizzarsi rituali densi, collaudati, a volte disperati e attraverso un associazionismo improvvisato (Remotti 2014).
Così, spontaneamente sono sorte nuove modalità per affrontare il lutto “distanti ma uniti”: dai balconi che fino a poco prima esplodevano di musica e arcobaleni compaiono i lumini, si avviano catene social di preghiera e ricordo, alcune benedizioni e deposizioni di fiori davanti ai cancelli chiusi dei cimiteri si diffondono via streaming, il suono a lutto delle campane ritrova il suo ruolo di avviso rituale per le comunità, i santini dei defunti inondano spazi virtuali, necrologi, trasmissioni televisive in collegamento con i parenti che spesso denunciano scarsa trasparenza nella gestione degli ultimi momenti di vita dei propri cari. Con le prime aperture, la CEI ha chiesto più volte al Governo la possibilità di riprendere le celebrazioni funebri: «Non possiamo lasciare che una intera generazione, e i loro familiari, siano privati del conforto sacramentale e degli affetti, scomparendo dalla vita, e improvvisamente diventando invisibili. Ci deve essere la possibilità di celebrare i funerali, magari solo con i familiari stretti, non possiamo non essere vicino a chi soffre. Troppe persone stanno soffrendo perché la morte di un caro oggi è come un sequestro di persona, certo motivato, ma dobbiamo farci carico di questo dolore dal punto di vista umano oltre che cristiano»[9]. Tali richieste sono poi state accolte dal DPCM del 26 aprile, il provvedimento con cui, seppur con limitazioni alla partecipazione alle funzioni e al contatto fisico [10], ha permesso di tornare a piangere.
Per concludere, riportiamo una testimonianza dalla raccolta “Il mio spazio vissuto”, promosso dall’associazione culturale “Il Sileno”. La signora Danila di Varese conclude il suo contributo con queste parole: [11]
Il rito della separazione agisce su questo disorientamento, sul riassorbimento di una frattura tra passato presente e futuro; aiuta a rimettere in collegamento le generazioni, compresi i tanti sé racchiusi in ciascuna biografia. In questo senso, tali riti permettono la rivendicazione di un “noi” che al momento fa fatica a formarsi, ma che tuttavia può emergere da quel piangere insieme che è cordoglio individuale e collettivo, segno di melanconia che, tuttavia, è un sentimento attivo, non luttuoso (Teti 2017: 274). Come osserva Achille Mbembe, «mettere delle toppe non sarà sufficiente; nel profondo di questo cratere tutto dovrà essere letteralmente reinventato, a partire dal sociale» (Mbembe 2020). Dunque, anche come ricercatori sarà necessario ricominciare dalla sofferenza, dal dolore di decine di migliaia di morti e dei loro parenti e amici, dalla solitudine di tanti, soprattutto anziani, dagli effetti della pandemia e delle restrizioni della libertà sui marginali.
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