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Il pianto confinato. A margine del cordoglio pandemico

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:37 In Cultura,Società | No Comments

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Gli ultimi feretri trasportati dall’Esercito italiano dalla chiesa di Seriate (BG) al forno crematorio di Novara, 18 aprile 2020 (ph. Marta Clinco)

dialoghi oltre il virus

di Giovanni Gugg –  Simone Valitutto

Durante le settimane di quarantena, tra le tante iniziative di condivisione e, implicitamente, di elaborazione collettiva della crisi sanitaria, la rete “Lo Stato dei Luoghi” [1] ha lanciato online un “Alfabeto Pandemico” [2], che in un paio di mesi ha raccolto 850 vocaboli nuovi e riscoperti, antichi e risignificati alla luce dell’esperienza dell’epidemia e del confinamento.

Costituiscono una sorta di Bilderatlas, come lo definisce Federico Faloppa, in cui sono confluite, arrivando spontaneamente da tutta Italia, parole e racconti, riflessioni e intuizioni, anche dolorose e diversamente percepite, che, tutte insieme, mostrano un lessico in divenire, magari in (ri)costruzione, «come se di fronte al lessico ufficiale ci fosse l’esigenza di rimodellare un altro lessico, spesso articolato intorno agli stessi termini, per farlo aderire meglio al proprio vissuto» (Faloppa 2020). Si tratta di frammenti di storie che, sebbene diverse tra loro, creano un noi, «un dizionario dal respiro collettivo». Tra queste, la parola “Lutto”, redatta da Giulia Pastorella, ha la seguente spiegazione:

«Chi porta abiti bianchi, chi neri. Chi costruisce tombe, piramidi o pire. Chi urla lamentazioni, si strappa i capelli, si batte il petto, e chi cerca semplicemente una spalla su cui piangere. Paese che vai, lutto che trovi. Ma tutti accomunati da una qualche forma di socialità del lutto.
Adesso, nel tempo del Coronavirus, si impara a fare a meno dell’ultimo saluto. Ci si domanda a cosa serva vestirsi di un certo colore quando non si esce di casa. Si capisce l’inutilità della frase “una spalla su cui piangere” se la spalla è a 1mt50 di distanza. Si muore fisicamente da soli e si porta il lutto fisicamente da soli.
Ricreare spazi di lutto virtuali diventa un bisogno pressante. Ma gli abbracci per Whatsapp valgono qualcosa? La voce che si rompe di pianto al telefono, o il silenzio delle lacrime incessanti, sono consolabili?
Alla fine di tutto riconquisteremo gli spazi fisici del lutto, tra i tanti altri spazi. Forse, indipendentemente dalla religione, riscopriremo i cimiteri, e l’importanza dei funerali. Ricercheremo la condivisione di un’esperienza di morte perché ci ricorda invariabilmente quanto preziosi siamo gli uni per gli altri» (Pastorella 2020).

Il 13 marzo 2020, il giornale “L’Eco di Bergamo” pubblica 10 pagine di necrologi e, così, anche per i giorni successivi, a causa dell’alto numero di morti nella provincia. La notizia ottiene risonanza a livello internazionale, attraverso video, commenti sui socialmedia e articoli di altri giornali, come ad esempio la copertina del settimanale di “Le Monde” del 29 maggio. Il 24 maggio 2020, quando l’epidemia flagella gli Stati Uniti d’America, il “New York Times” pubblica in prima pagina mille nomi di morti statunitensi, avendo cura di accompagnare ciascuno da un breve ricordo. L’8 giugno 2020 il “Corriere della Sera” esce con uno speciale intitolato “In memoria”, un omaggio che il quotidiano ha deciso di dedicare ai defunti con coronavirus che il nostro Paese contava, oramai da mesi, durante i bollettini giornalieri della Protezione Civile. Composto di decine di fotografie, con piccoli necrologi, che raccolgono alcune vite spezzate – senza che ce ne accorgessimo – dall’emergenza sanitaria, questo memoriale di carta partecipa anch’esso all’elaborazione collettiva di un lutto che proprio in quei giorni l’Italia ha deciso, ha sentito il bisogno di incominciare.

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Benedizione dei feretri della Val Seriana prima che l’esercito li trasporti al forno crematorio di Novara, 22 aprile 2020 (ph. Marta Clinco)

Nonostante le cronache giornalistiche dei giorni più convulsi dell’emergenza epidemiologica, i continui ricordi istituzionali, le preghiere di papa Francesco, le pagine web e i necrologi sui quotidiani dedicate a non dimenticare le storie dei defunti, sembra giusto individuare come atto fondativo del cordoglio nazionale la visita al cimitero di Codogno del Presidente Sergio Mattarella il 2 giugno 2020, festa della Repubblica: sembra essere il momento in cui l’opinione pubblica si accorge che dietro ai numeri ci sono storie e singole esistenze.

Se di Adriano Trevisan, il pensionato di Vo’ individuato come il primo morto con Covid-19 italiano, abbiamo un ricordo preciso, riuscendo a tracciarne il volto e la storia, degli altri 34.560 difficilmente possiamo avere la stessa memoria, inghiottiti dai numeri e dalle fasi emergenziali succedutesi fulmineamente [3]. Da quel 21 febbraio, data d’inizio del lungo corso dei decessi, scendendo nel particolare territoriale è possibile individuare ulteriori primati: “il primo decesso della regione”, “il primo morto della provincia”, “il primo defunto della città”, “il primo morto del paese”. Stringendo la lente, il numero di decessi si avvicina all’esperienza di ciascuno, per cui buona parte degli italiani arriva a conoscere qualcuno che conosce almeno una delle vittime del contagio. Questo discorso, seppur generico, fa i conti con le geografie relazionali dell’osservatore: la proporzione è differente se abita, ad esempio, in una città lombarda o in un paese sardo. Accanto alle fotografie e alle poche e fredde righe che descrivono i tratti salienti della vita e il sopraggiungere della morte, chi osserva può tracciare diverse traiettorie del ricordo, riscrivendo il suo personale necrologio dei morti la cui identità è nota arricchendolo con gli elementi personali.

Uno degli autori ha conosciuto Mirko Bertuccioli (46 anni, Pesaro) come musicista del duo “I Camillas”, prima da lontano ascoltando dei dischi, poi da vicino attraverso i concerti o i social. Alessandro Brignone (46 anni, Salerno) era il sacerdote della comunità di Caggiano, zona rossa e località frequentata abitualmente da Simone Valitutto, che spesso lo ha incrociato sul campo (qui, in un cortocircuito metodologico, ciò che è familiare diventa oggetto di studio). Enrico Comba (63 anni, Pinerolo), antropologo, conosciuto solamente attraverso i suoi scritti ma prossimo in quanto membro della stessa comunità scientifica. Questo è solo un esempio dal margine, che non tiene conto di rapporti più profondi (familiari, amicali, di prossimità, collaborativi), ma permette di abbozzare una direttiva spaziale ed epistemologica che tiene conto dell’osservare, partecipare, appartenere (Fava 2017). Per tanti – alcuni dei morti di Covid-19 emergono dai numeri – sono vicini e lontani allo stesso tempo, distanziati non solo dal contagio ma anche dalle strategie relazionali, conosciuti di vista o fondamentali per tratti specifici della propria esistenza o esperienza dell’epidemia.

Nella memoria collettiva degli italiani confinati in casa, in apprensione di fronte alle televisioni e in cerca di continui aggiornamenti sul web, il momento più drammatico che ha posto tutti di fronte al dolore per le morti finora solamente enumerate è legato ad immagini precise. È la notte tra il 18 e il 19 marzo e a Bergamo sfilano decine di mezzi militari carichi di bare. Per i cadaveri, negati alla vista e all’ultimo saluto dei familiari, non c’è spazio, devono essere cremati fuori regione per poi, non si sa quando, trovare il sollievo della sepoltura. Le fotografie e i video amatoriali espongono i cadaveri, pur anonimi, in un’ostensione luttuosa celebrata – involontariamente – dallo Stato, e diventano quella «soglia, cui accedere per conoscere ciò che alle sue spalle si estende» (Faeta 1998: 128)[4] di cui avevamo bisogno per comprendere che in quei terribili giorni non c’era solo il rischio del contagio, che dietro ai numeri c’erano i corpi.

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L’esercito trasporta gli ultimi feretri dalla Val Seriana al forno crematorio di Novara, 22 aprile 2020 (ph. Marta Clinco)

Nel caso di decine di migliaia di morti in Italia, 450.686 nel mondo [5], il virus ha aggravato patologie pregresse [6] o ha rivelato quanto siano stati impreparati i sistemi sanitari nazionali o le politiche della cura di fronte a un’emergenza epidemiologica. Adesso, con il calare delle curve del contagio (almeno in Italia), si può far pace, si può provare ad affrontare il dolore, si può piangere. La difficoltà di capire e dare un senso a quel che stava accadendo, cioè l’assenza di un’interpretazione chiara di cosa significhi vivere una pandemia, nelle sue declinazioni sanitaria, sociale ed economica, ha aperto un confronto tra esperti, intellettuali e opinionisti. La lettura dei dati e delle proiezioni statistiche, la gestione dell’emergenza, le problematiche sulla mancanza di dispositivi di protezione, le conseguenze dei provvedimenti di limitazione delle libertà, le prospettive politiche e le contraddizioni democratiche hanno stimolato un «dibattito culturale» – o «lotta» (Douglas 1996) – che si è mosso tra paura e speranza, tra preoccupazione e fiducia.

In Italia hanno sviluppato una discussione ampia e interessante le parole che Giorgio Agamben ha espresso in vari interventi sulla stampa e sul web tra fine febbraio e maggio, avendo poi anche un’eco a livello internazionale, e che hanno posto l’accento sul rischio che lo stato d’eccezione imposto dal microscopico patogeno possa erodere il diritto e condurre verso una deriva politica. In particolare, nel suo intervento del 14 aprile, Agamben si domanda polemicamente: «Come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma che – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale?» (Agamben 2020). In effetti, la situazione è eccezionale, perché in determinate zone le camere mortuarie degli ospedali per settimane non bastavano più a contenere i feretri, i riti religiosi erano ridotti a pochi gesti e a preghiere bisbigliate, magari recitate dal chiuso dell’abitacolo di un’auto o in diretta streaming, senza la possibilità di lasciare un fiore perché i fiorai erano chiusi, come chiusi erano gli stessi cimiteri. Come scrive Donatella Di Cesare, «i corpi non possono ricevere le cure pietose che appartengono a un culto immemoriale. Devono essere cremati con quel che indossavano al momento del decesso, avvolti con un tessuto disinfettante. La burocrazia accelera e arriva rapidamente il certificato di morte. Le bare vengono caricate cinque, sei alla volta. Nessuno le accompagna» (Di Cesare 2020: 36).

È un’assenza rituale che, tuttavia, le epidemie si portano dietro sempre, come testimoniano, ad esempio, le cronache del 1918, quando a causa della “febbre spagnola” vengono vietati i cortei funebri e «soltanto in via eccezionale potrà essere acconsentito l’accompagnamento da parte di ministri di culto e di stretti famigliari dei defunti, previa speciale autorizzazione dell’ufficio sanitario» (“Corriere della Sera”, 15 ottobre 1918, cit. in Chiaberge 2016). O, ancora, è quanto riferisce Albert Camus ne La peste, «les malades mouraient loin de leur famille et on avait interdit les veillées rituelles», e fu istituito il divieto della corrispondenza postale «pour éviter que les lettres puissent devenir les véhicules de l’infection» (Camus 1994: 160, 68). In questi casi estremi in cui la morte diventa esperienza collettiva e quotidiana, l’antropologia deve confrontarsi con quella che Adriano Favole e Gianluca Ligi hanno chiamato “etnografia della morte di terzo tipo” (Favole, Ligi 2004), ossia quella in cui l’impossibilità di seppellire i defunti, di praticare i riti funebri e di elaborare il lutto può rendere la morte un habitus che alimenta se stesso, un “lutto culturale” in cui il non poter dare un senso alla morte riproduce la distanza tra sapere e comprendere, tra spiegare e sentire (Dupuy 2006).

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Il forno crematorio di Piacenza, 27 aprile 2020 (ph. Marta Clinco)

In questo contesto, occorre chiedersi, dunque, perché non abbiamo pianto, o continuiamo a non piangere, i morti causati dall’epidemia di coronavirus, intendendo per “piangere” l’assunto demartiniano che di fronte alla “crisi del cordoglio” di morti subìte passivamente, ci presenta come necessaria l’opposizione di una «seconda morte culturalmente sancita» non solamente religiosa ma laica (Massenzio 2019: 40-41).

Come ripetuto più volte, i morti sono tanti, trasfigurati da corpi malati a dati statistici, non pensabili perché invisibili (Dal Lago 2012: 157-159) e al tempo stesso oggetto di un eccesso di visione e comunicazione, con bollettini ufficiali, lanci di agenzia, servizi televisivi che parlano di numeri, disorientando e, spesso, abituando al mero conteggio. Le vittime sono soprattutto gli anziani, affetti da patologie pregresse, che a volte vivevano lontani dai propri parenti, in solitudine oppure in RSA, corpi già esclusi dalle dinamiche familiari o comunque precari, “non persone”, vittime del continuum di violenza delle «piccole guerre e genocidi invisibili» degli spazi sociali normativi (Sheper-Hughes 2005: 282) [7]. Che siano lontani dal tessuto familiare, isolati in reparti di terapia intensiva o distanti geograficamente, i numerosi deceduti sono disposti sulla scacchiera spaziale in maniera disequilibrata; viste in lontananza dagli ospedali, dai focolai, dalle zone rosse, le salme sono dislocate (Salome 2012), distanziate non solamente perché contagiose ma anche perché negate: «i morti non devono disturbare la città dei vivi» (Di Cesare 2020: 36). Di conseguenza, si innescano precise azioni di coping che ricordano le strategie di evitamento dell’angoscia narrate da Luciano Bianciardi ne La vita agra: «lo giuro, non ho paura della morte, ma l’agonia sì, mi fa paura, specialmente quando dura anni, e ti mozza il lavoro, e tu stai male» (Bianciardi 2013: 118).

Invisibili e dislocati, come già detto, i cadaveri nelle fasi più acute del contagio non ricevono adeguata sepoltura: occorre «evitare le occasioni di “assembramento” per la ritualità dell’addio» [8] e i cimiteri sono chiusi al pubblico, così come le chiese e altri luoghi di culto per lo svolgimento delle esequie dopo la cremazione, la quale è «l’apice della liquidazione discreta, della sconsacrazione compiuta» (Di Cesare 2020: 38). Morire in piena emergenza sanitaria rende i defunti tutti uguali, privati delle forme del cordoglio, contagiati o meno; non ci si può stringere intorno a chi resta, non si può consolare con un abbraccio o un bacio, le condoglianze vengono bandite dalle norme del distanziamento. Allo stesso tempo, i riti collettivi della perdita sono indispensabili perché permettono un’elaborazione del distacco; tali rituali non sono solo un archivio mentale o un apparato di compensazione (Abrahams 2001), ma una via di accesso a esperienze reali con cui «porre le domande essenziali» (Candau 2002: 186). Pertanto, possono rivelarsi come occasioni creative, infatti anche nelle situazioni più difficili vengono a realizzarsi rituali densi, collaudati, a volte disperati e attraverso un associazionismo improvvisato (Remotti 2014).

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L’ultimo saluto ai feretri ospitati dalla Chiesa di San Giuseppe a Seriate (BG) durante l’emergenza Covid-19, 17 maggio 2020 (ph. Marta Clinco)

Così, spontaneamente sono sorte nuove modalità per affrontare il lutto “distanti ma uniti”: dai balconi che fino a poco prima esplodevano di musica e arcobaleni compaiono i lumini, si avviano catene social di preghiera e ricordo, alcune benedizioni e deposizioni di fiori davanti ai cancelli chiusi dei cimiteri si diffondono via streaming, il suono a lutto delle campane ritrova il suo ruolo di avviso rituale per le comunità, i santini dei defunti inondano spazi virtuali, necrologi, trasmissioni televisive in collegamento con i parenti che spesso denunciano scarsa trasparenza nella gestione degli ultimi momenti di vita dei propri cari. Con le prime aperture, la CEI ha chiesto più volte al Governo la possibilità di riprendere le celebrazioni funebri: «Non possiamo lasciare che una intera generazione, e i loro familiari, siano privati del conforto sacramentale e degli affetti, scomparendo dalla vita, e improvvisamente diventando invisibili. Ci deve essere la possibilità di celebrare i funerali, magari solo con i familiari stretti, non possiamo non essere vicino a chi soffre. Troppe persone stanno soffrendo perché la morte di un caro oggi è come un sequestro di persona, certo motivato, ma dobbiamo farci carico di questo dolore dal punto di vista umano oltre che cristiano»[9]. Tali richieste sono poi state accolte dal DPCM del 26 aprile, il provvedimento con cui, seppur con limitazioni alla partecipazione alle funzioni e al contatto fisico [10], ha permesso di tornare a piangere.

Per concludere, riportiamo una testimonianza dalla raccolta “Il mio spazio vissuto”, promosso dall’associazione culturale “Il Sileno”. La signora Danila di Varese conclude il suo contributo con queste parole: [11]

«[…] E mi trovo a inventare futuri distopici, generazione degli anni Sessanta con un piede nel passato ed uno nel futuro. Generazione che vive in eterno equilibrio tra il ricordo di un mondo che non c’è più e l’aggiornarsi al continuo cambiamento per sopravvivere al futuro che verrà e già si consuma dentro di noi. E intanto vivo il presente di un futuro immaginato solo nelle mie storie inventate».

Il rito della separazione agisce su questo disorientamento, sul riassorbimento di una frattura tra passato presente e futuro; aiuta a rimettere in collegamento le generazioni, compresi i tanti sé racchiusi in ciascuna biografia. In questo senso, tali riti permettono la rivendicazione di un “noi” che al momento fa fatica a formarsi, ma che tuttavia può emergere da quel piangere insieme che è cordoglio individuale e collettivo, segno di melanconia che, tuttavia, è un sentimento attivo, non luttuoso (Teti 2017: 274). Come osserva Achille Mbembe, «mettere delle toppe non sarà sufficiente; nel profondo di questo cratere tutto dovrà essere letteralmente reinventato, a partire dal sociale» (Mbembe 2020). Dunque, anche come ricercatori sarà necessario ricominciare dalla sofferenza, dal dolore di decine di migliaia di morti e dei loro parenti e amici, dalla solitudine di tanti, soprattutto anziani, dagli effetti della pandemia e delle restrizioni della libertà sui marginali.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Note
[1] La rete “Lo Stato dei Luoghi” è composta da «attivatori di luoghi e spazi rigenerati a base culturale», con l’obiettivo di «innovare le pratiche culturali, artistiche, educative e di welfare» e «contrastare le disuguaglianze e favorire l’inclusione sociale».
[2] L’Alfabeto Pandemico è consultabile online sul sito-web de “Lo Stato dei Luoghi”: https://www.lostatodeiluoghi.com/alfabeto-pandemico/ (ultima consultazione: 19 giugno 2020).
[3] I dati si riferiscono al giorno 19 giugno 2020, fonte Ministero della Salute italiano: www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus.
[4] Analogo effetto, su scala globale, hanno suscitato le immagini del 10 aprile delle fosse comuni di Hart Island, dove hanno trovato sepoltura le vittime senza nome di New York.
[5] I dati si riferiscono al giorno 19 giugno 2020, fonte OMS: https://covid19.who.int.
[6] Per approfondire i profili e le statistiche italiane: “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione daSARS-CoV-2 in Italia. Dati al 11 giugno 2020” (Fonte: ISS, www.epicentro.iss.it/coronavirus/bollettino/Report-COVID-2019_11_giugno.pdf, ultima consultazione 19 giugno 2020).
[7] La vulnerabilità di questi corpi malati potrebbe anche essere il risultato di un progressivo sfilacciamento di rapporti di protezione e cura familiare sui quali intervenire per arginare le cosiddette “morti con” che per un osservatore sociale potrebbero convergere a “morti senza”.
[8] Circolare n. 12302 dell’8 aprile 2020 del Ministero della Salute: 2 (tale circolare uniforma le disposizioni regionali e comunali in materia ed elenca una serie di nuove modalità di gestione sanitaria delle salme che prevedono l’acceleramento delle inumazioni). L’iniziale sospensione delle cerimonie funebri sull’intero territorio nazionale è disposta dal DPCM dell’8 marzo 2020.
[9] Sono parole di don Ivan Maffeis, sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, intervistato da Marco Iasevoli, nell’articolo “Messe e funerali: la Chiesa prepara proposte per la fase 2”, in “Avvenire”, 16 aprile 2020: www.avvenire.it/chiesa/pagine/cei-le-richieste-per-la-riapertura (ultima consultazione 19 giugno 2020).
[10] È di questa fase (30 aprile) la celebrazione di un funerale in Molise che, manchevole delle norme del distanziamento, fa schizzare l’asticella dei contagi in una regione che fino ad allora era riuscita a contenere i dati. Da segnalare i casi di altri riti funebri controversi in piena fase 1: la folla al passaggio della salma del sindaco di Saviano (morto per Covid-19) che ha causato ulteriori restrizioni per la cittadina del napoletano trasformata in zona rossa (19 aprile) e il corteo funebre del fratello di un ex boss mafioso a Messina (11 aprile) con una poderosa affluenza generatrice anche di polemiche politiche nei confronti del sindaco De Luca.
[11] La raccolta “Il mio spazio vissuto” è la prima fase di una ricerca sugli ambienti abitati durante la quarantena, promossa da Francesco De Pascale, Giovanni Gugg, Stefano Montes e Gaetano Sabato, per l’associazione culturale “Il Sileno”, che ha sede a Rende (Cosenza). Le testimonianze pervenute sono oltre 250, liberamente accessibili a questo indirizzo web: https://www.ilsileno.it/rivistailsileno/ilmiospaziovissuto/testimonianze/
Riferimenti bibliografici
Abrahams R. D., 2001: Postfazione, in Turner V., Il processo rituale. Struttura e antistruttura [1969], Morcelliana, Brescia.
Agamben G., 2020: Una domanda, in “Quodlibet”, 14 aprile: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda
Bianciardi L., 2013: La vita agra [1962], Feltrinelli, Milano.
Camus A., 1994: La peste [1947], Gallimard, Parigi.
Candau J., 2002: La memoria e l’identità [1998], Ipermedium libri, Napoli.
Chiaberge R., 2016: 1918 La grande epidemia: Quindici storie della febbre spagnola, Utet, Novara.
Dal Lago A., 2012: Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà, Raffaello Cortina, Milano.
Di Cesare D., 2020: Virus sovrano? L’asfissia capitalistica”, Bollati Boringhieri, Torino.
Douglas M., 1996: Rischio e colpa [1992], il Mulino, Bologna.
Dupuy J.P., 2006: Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, [2005], Donzelli, Roma.
Faeta F., 1998: Un mondo che continua in forma evanescente. La morte e l’immagine in un’area del Mezzogiorno, in Barillari S. M., Immagini dell’Aldilà, Meltemi, Roma.
Faloppa F., 2020: Lessici del possibile. La cura delle parole, in “Treccani”, 19 maggio: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/parole/cura_parole_7.html
Favole A., Ligi G., 2004: L’antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche, in “La Ricerca Folklorica”, n. 49: 23-14.
Fava F., 2017: In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo, Meltemi, Roma.
Massenzio M., 2019: La fine del mondo nell’opera di Ernesto De Martino, in De Martino E., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
Mbembe A., 2020: Il diritto universale di respirare, in “Lavoro culturale”, 22 aprile: https://www.lavoroculturale.org/il-diritto-universale-di-respirare/
Pastorella G., 2020: Lutto, in “Alfabeto Pandemico”, aprile-maggio: https://www.lostatodeiluoghi.com/alfabeto/lutto/
Remotti F., 2014: Per un’antropologia inattuale, Elèuthera, Roma.
Salome G., 2012: Gestione della catastrofe invisibile. Le Drame del 16 agosto 2005 in Martinica, in “Quaderno di comunicazione”, n. 12.
Scheper-Hughes N., 2005: Questioni di coscienza. Antropologia e genocidio, in Dei F. (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma.
Teti V., 2017: Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma.

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Giovanni Gugg, Dottore di ricerca in Antropologia Culturale, è docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Le sue ricerche si focalizzano sull’antropologia del rischio e sull’antropologia del paesaggio, riguardando soprattutto la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, in particolare quando si tratta di territori a rischio. È membro del LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et Psychologie Cognitives et Sociales, Universitè Côte d’Azur di Nizza, Francia) e insegna in alcuni master Erasmus Mundus+. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019).
Simone Valitutto, dottore di ricerca in “Antropologia culturale e studi storico-linguistici” presso l’Università degli Studi di Messina, il suo principale terreno di ricerca è il confine campano-lucano dove ha osservato diverse modalità di pellegrinaggio verso il santuario della Madonna Nera di Viggiano. Concentrandosi su particolari elementi identitari e politici delle comunità in cammino, ha accompagnato lo studio del fenomeno religioso alla riflessione sul posizionamento del ricercatore e sul ruolo che l’icona sacra riveste in un’area che è il più grande giacimento petrolifero onshore d’Europa.

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