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Il pensare come narrazione di percorsi

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2015 @ 00:37 In Cultura,Letture | No Comments

COPERTINA  di Concetta Garofalo

Spesso, in movimento in luoghi a noi noti, eseguiamo alcune azioni automaticamente (come ad es. camminare per le strade cittadine, guidare l’auto, etc.) mentre i nostri pensieri seguono un flusso ideativo diverso dalle azioni in corso. Di conseguenza, i pensieri ci appaiono slegati dall’azione che si sta svolgendo in quel momento. Nonostante tutto, questa è solo un’impressione apparente perché di fatto la percezione del contesto circostante, per quanto inconsapevole di primo acchito, fa parte della più generale dimensione conoscitiva, orientata dai processi di selezione e seriazione degli input sensoriali provenienti dall’esterno attraverso i recettori del nostro corpo. Gli automatismi sono infatti il risultato di schemi comportamentali culturalmente interiorizzati dall’individuo (ad es. guidare a destra o a sinistra). I pensieri, per quanto sovente in forma di flussi incontrollati, originano da input che attivano reti di rimandi alla memoria storica soggettiva. I flussi di pensiero e gli automatismi quotidiani sono stati presi in conto, tra gli altri, da alcuni scrittori che, con la definizione di stream of consciousness, ne hanno fatto il centro della loro riflessione e pratica di scrittura. Un esponente di rilievo in questo campo è sicuramente Virginia Woolf. In questo mio breve contributo, vorrei esaminare alcune questioni relative al pensare prendendo come punto di riferimento proprio V. Woolf e il suo romanzo Mrs Dalloway.

Nelle pagine che seguono non si affronteranno questioni di natura ontologica relative all’esistenza, immanente o trascendente, di cose e pensieri. L’intento è di ricorrere semmai alla prospettiva antropologica per focalizzare il legame che intercorre fra azione, pensiero e spazio e sulle relative modalità di testualizzazione dell’esperienza del sé e dell’altro, nel tempo e nello spazio, facendo riferimento alle nozioni di cultura e di conoscenza.

In questa prospettiva, si trarrà spunto da alcuni brani di Mrs Dalloway di Virginia Woolf per illustrare le questioni da me proposte in chiave antropologica. Non si tratterà quindi di fare un’analisi approfondita del testo di Woolf e, nemmeno, di ricorrere alla critica letteraria. Più concretamente, utilizzerò Mrs Dalloway come etnotesto rappresentativo, per molti aspetti, di meccanismi culturali e, in particolare, delle relate modalità del pensiero.

L’esperienza descritta da Woolf nel suo testo può essere considerata un ottimo esempio di osservazione-partecipante, per quanto forse inconsapevolmente adottato dall’autrice, messo in atto da un soggetto che si muove nello spazio, incontra altri individui e riflette sulle proprie azioni e i propri pensieri. Nella mia proposta di lettura del testo di Woolf, una questione è fondamentale. Nel momento della scrittura, le azioni diventano una narrazione complessa nella quale, necessariamente, si devono coniugare i possibili sistemi di riferimento esperiti in vivo da un “io” o un “noi” autoreferenziale (Montes, 2000-2001: 35). Si crea così un va e vieni inevitabile tra la scrittura e l’esperienza diretta di cui si deve tenere conto sia che si tratti di testi ‘direttamente’ letterari sia di testi etnografici. Insomma, attraverso i testi, sotto forma di testi, l’ambiente circostante fa presa sulla nostra esperienza e cognizione, modellizza il tempo e lo spazio, persino nei suoi aspetti più quotidiani. L’atto del pensare utilizza linguaggi non verbali, prevalentemente quello visivo e prossemico. Ciò dimostra che è possibile rintracciare in letteratura la matrice generativa culturale e sociale che, come dice Montes, rientra perfettamente nel discorso antropologico. In Mrs Dalloway prendono forma narrativa contesti culturali che agiscono sugli individui sotto forma di sistemi simbolici acquisiti socialmente in struttura di credenze soggettive che intervengono nelle interazioni a livello intersoggettivo e intrasoggettivo.

 Virginia Woolf,1927

Virginia Woolf,1927

Più particolarmente, in Mrs Dalloway si avverte il forte legame performativo costituito fra spazio pensato, spazio testualizzato e spazio rappresentato. Si inscrive infatti, in questo testo, una sorta di geografia dei movimenti e dei comportamenti dei percorsi svolti nell’arco di una giornata; ne deriva, così, una forma di spazializzazione di cose, persone, eventi e stili di vita che è motivo di riflessione antropologica. Il punto di partenza e di arrivo è casa di Mrs Dalloway; il movimento di andata e ritorno è scandito dall’azione del personaggio Lucy, la quale resta a casa e riapre la porta. Lucy rappresenta la personificazione del confine, dentro/fuori, tra il mondo della casa e il mondo esteriore. Il dentro/fuori casa viene riflesso nel sistema di azioni dei personaggi: Lucy resta e fa altro, Mrs Dalloway esce e fa altro.

«La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei. Quanto a Lucy aveva già il suo daffare. Si dovevano togliere le porte dai cardini; gli uomini di Rumpelmayer sarebbero arrivati tra poco. E poi, pensò Clarissa Dalloway, che mattina – fresca come se fosse stata appena creata per dei bambini su una spiaggia. Che gioia! Che terrore! Sempre aveva avuto questa impressione, quando con un leggero cigolio dei cardini, lo stesso che sentì proprio ora, a Bourton spalancava le persiane e si tuffava nell’aria aperta. Com’era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l’aria la mattina presto, pareva il tocco di un’onda, il bacio di un’onda; fredda e pungente, e (per una diciottenne com’era lei allora)  solenne, perché in piedi di fronte alla finestra aperta, lei aveva allora la sensazione che sarebbe successo qualcosa di tremendo, mentre continuava a fissare i fiori, e gli alberi che emergevano dalla nebbia che a cerchi si sollevava fra le cornacchie in volo. E stava lì e guardava, quando Peter Walsh disse: “In meditazione tra le verze?” Disse così? O disse: “Io preferisco gli uomini ai cavoli”? Doveva averlo detto a colazione una mattina che lei era uscita sul terrazzo – Peter Walsh. Stava per tornare dall’India [...]» (Woolf, 2003: 1).

Casa e Bond Street sono i due microcosmi separati che mettono in scena il percorso narrativo di allontanamento e ricongiungimento. L’allontanamento dalla casa è un tuffo tra la gente e i ricordi del passato; la sera, in occasione della festa, la casa diverrà essa stessa luogo di incontro in cui il mondo esteriore e interiore saranno ricongiunti. La festa è il movente della passeggiata: fa da spartiacque fra la sera precedente e la sera che seguirà, tra la rappresentazione oggettuale della borghesia e l’alter-ego cosificato della signora Dalloway la cui personalità è rappresentata anche grazie alla sua passeggiata per le strade di Londra. E ci sono vari leitmotiv che fanno da sfondo propulsore al suo percorso: i rintocchi del Big Ben, le automobili, l’aeroplano, la guerra. Anche le indicazioni temporali scandiscono il percorso e contribuiscono a costruire il contesto di riferimento che rende coerenti i rimandi del flusso di coscienza: giugno, la guerra, il silenzio e la festa. Tutti questi elementi narrativi sono nuclei, più che semplici elementi della narrazione spicciola: sono cioè veri e propri generatori di credenze e sono delineati in quanto autori sociali.

In Mrs Dalloway, l’esperienza dello spazio viene data attraverso l’agire e la percezione dell’ambiente circostante non viene fornita in maniera sistematica, né progettuale; semmai, viene fondata sulla percezione minuta e situata. In una lunga sequenza descrittiva (Woolf, 2003: 2), si definisce infatti la vita attraverso sinestesie sensoriali. Per quanto riguarda il senso dell’udito e la musicalità: il Big Ben e l’aereo. Per il vedere: le persone di diverse classi sociali, le persone e gli oggetti in azione. L’elemento di rilievo è che tutto ciò viene pensato mentre il soggetto è in sosta sull’orlo del marciapiede oppure nell’atto di attraversare Victoria Street. Il sistema integrato di IO-NOI-LUOGO-TEMPI (il concetto di VITA che fa da collante fra l’individuo e la collettività) transita attraverso la dimensione affettiva ed emotiva dell’amare. E questo crea un ritmo caratteristico associato, nel testo, alla vita che Clarissa dichiara di amare. Il ritmo è dato sia dagli spazi nel continuo alternarsi di spazi chiusi e aperti, sia dai tempi che si alternano fra il passato, il presente e il futuro, il ritmo dei pensieri, il ritmo delle azioni (camminare, fermarsi, attendere – tacere e interloquire). Il ritmo è dato, inoltre, dai personaggi che possiamo situare, tutti, all’interno di un unico attante collettivo (i soggetti che agiscono e interagiscono lungo il percorso su Bond Street). Ma non è tutto. Il ritmo è dato anche nei contenuti, dall’interazione dialogata fra le antinomie passione-amicizia, vita-guerra-morte, paura-coraggio, gioia-tristezza. In fin dei conti, questo ritmo e amore per la vita è il bisogno di coerenza interiore dei personaggi, nella vita sociale e collettiva, che si traduce nell’azione dell’esserci secondo posizionamenti coerenti con il nostro complesso sistema di percezione e rappresentazione dell’esperienza del reale.

FOTO 2Nel racconto, possiamo individuare diversi livelli di esperienza dello spazio: il movimento di un corpo umano nello spazio fisico viene gestito a livello soggettivo in maniera automatizzata; a questo movimento nello spazio fisico si accompagna contestualmente la percezione mentale e cognitiva del percorso, la quale viene dilatata dal fluire del pensiero, dilatata nel tempo (storico) e nello spazio personale. A tali livelli corrispondono diversi attanti. In Mrs Dalloway distinguiamo: V. Woolf (scrittrice e autrice), la voce narrante, a tratti onnisciente ed esterna al racconto, Mrs Dalloway (personaggio protagonista che passeggia, quindi, nell’hic et nunc di Bond Street), Mrs Dalloway pensata (dalla Mrs Dalloway che passeggia in Bond Street) in epoche diverse del passato, i personaggi secondari con i loro vissuti di vita quotidiana, il “noi” al quale si fa riferimento qui e là nel testo del racconto. C’è anche il lettore, perché non si tratta di fatti e realtà estranei a chi legge: il passeggiare e il pensare sono esperienze comuni. Ciò che determina lo scarto, semmai, è la consapevolezza di tali processi di pensiero, cioè, il livello di meta-cognizione (che qui intendo come il sistema di conoscenza e consapevolezza dei processi cognitivi reso nel percorso di narrazione di sé).

Confrontando la Mrs Dalloway dell’hic et nunc della passeggiata, Mrs Dalloway a tratti voce narrante, Mrs Dalloway nei vari momenti della sua vita che le scorrono in mente mentre cammina, emerge che il movimento spaziale orizzontale dell’hic et nunc si espande sull’asse diacronico della vita dei personaggi attraverso il racconto di eventi di vita quotidiana intrecciati nelle storie individuali le quali, a loro volta, narrano una storia collettiva. Ma, mi chiedo, collettiva rispetto a cosa o a chi? I fatti storici della microstoria dei personaggi e della macrostoria della Regina e dell’Inghilterra, sono raccontati e visti attraverso il flusso dei pensieri dei personaggi. Tale flusso è a sua volta orientato dal percorso che io considero non solo dal punto di vista fisico cioè come via cittadina percorsa a piedi ma anche come esperienza di percezione sensoriale soggettiva degli spazi e delle persone, degli “altri” che incrociano la loro presenza e quindi anche il loro posizionamento in Bond Street. Ne è esempio il posizionamento di Clarissa rispetto ad altri personaggi. Al posizionamento nello spazio corre parallelo e contestuale l’assunzione di ruoli sociali: il giudice vecchio, l’automobile presunta reale, il policeman; ad ogni incontro si accompagna quasi visivamente l’azione sociale del fare e dell’esserci. Faccio un altro esempio. Nella sequenza narrativa (Woolf, 2003: 3-6) del pensare dialogato a tre (Hugh, Richard, Peter) in realtà Hugh è solo il pre-testo che decade e il confronto resta serrato fra Richard e Peter. Questo confronto avviene su uno sfondo integratore che è il tempo e i luoghi dei tempi di Bourtun e di Saint James’s Park. Le coppie sono due (Clarissa e Richard, Clarissa e Peter) in virtù dell’accenno ad un’istituzione culturale e sociale, cioè il matrimonio, nella quale convergono l’istanza individuale, l’istanza duale della coppia e l’istanza sociale. Gli altri, incontrati per strada, sono l’estensione dell’enunciazione di noi stessi in quanto pensiamo a loro attraverso il nostro pensare. Ricorro a un esempio per illustrare il punto. Se due persone si incontrano per strada o in un luogo chiuso (il negozio di guanti o il fioraio in Mrs Dalloway, un bar, una libreria) si delinea un contesto comunicativo dialogico in setting soltanto apparentemente diadico. Se, in particolar modo, i due soggetti sono disposti uno di fronte all’altro si delinea un confine fisico visivo, e sensoriale in generale, fra lo spazio di dialogo che definiamo “campo” e lo spazio circostante che definiamo “fuori campo”. Il fuori campo è un concetto usato nel cinema e in fotografia e, come Montes ha mostrato, ben si presta anche ad un suo impiego in ambito antropologico. Il campo, che in fotografia si chiama propriamente campo visivo, a livello interazionale è uno spazio relazionale attentivo complesso. Il fuori campo è percepito-pensato (anche immaginato) e intuito dai due individui attraverso processi di inferenza, di relazioni causali, di proiezione del sé sociale in relazione al contesto. Percepiamo, quindi, il fuori campo come configurazioni attanziali mettendo in atto processi di co-relazione e connessione semantica all’interno e all’esterno della personale esperienza sensoriale degli spazi e delle interazioni collocate in tempi e in luoghi relazionali.

FOTO3La definizione di campo e fuori campo da un punto di vista prettamente antropologico non si pone in termini assolutamente descrittivi di modelli statici e sistemi stabili, non concorre a delimitare confini o barriere semiotiche fra dentro e fuori, fra sistematico ed extrasistematico (Lotman, 1980: 11-13). Vorrei poter intendere e, in qualche modo, spiegare la forza attrattiva di cui parla Lotman in termini di coerenza semantica supportata da reti di rimandi e connessioni di significati attribuiti. In tal senso anche in Lotman troviamo che «il concetto di extrasistematico è complementare a quello di sistematico. Ognuno di essi riceve pienezza di significato solo nel rapporto reciproco e non come dato isolato» (Lotman, 1980: 14). In tal senso voglio spiegare come ciò che viene definito come extrasemiotico, nel fuori campo, assume un duplice carattere di dinamicità. Quindi, il fuori campo è sistema coerente e stabile per se stesso ma costituisce, anche, un extrasistema interrelato da un rapporto di dinamicità e definizione reciproca con altri sistemi semiotici. Il campo e il fuori campo dialogano tra loro proprio perché uno definisce l’altro: non c’è l’uno senza l’altro. Ed entrambi configurano e coniugano il campo interazionale. Il passaggio da fuori campo a campo è dovuto in base a fenomeni attentivi di ricerca di informazioni a livello consapevole e inconsapevole, progettato o istantaneo (Montes, 2014), pensato o automatizzato. La differenza è possibile in virtù di un processo di traduzione, come individuato da Lotman, fra semiosfere diverse. Inoltre, il dialogo tra campo e fuori campo è possibile solo se entrano entrambi a far parte della stessa semiosfera esperienziale e, quindi, vengono codificati e decodificati secondo i sistemi simbolici di riferimento condivisi.

Da parte mia, per spiegare un altro aspetto del fuori campo, vorrei ricorrere al concetto di enciclopedia (il concetto fa riferimento a Eco) e così parlare di “enciclopedia del campo”. Il fuori campo è infatti costituito, a mio parere, da tutte le potenziali attuazioni semantiche del campo. In tal modo, vorrei mettere l’accento sul principio di base che il dialogo (tra il campo e il fuori campo, così come tra le varie forme di percezioni) si pone non soltanto in termini di continuità, ma, anche, di discontinuità tra il Sé e gli spazi circostanti. In Mrs Dalloway ogni incontro – che dia avvio ad una conversazione o sia indice di presenza – produce una discontinuità della percezione visiva e degli altri sensi, nonostante il camminare (e gli automatismi ad esso correlati) dia un fondo di continuità all’azione nella sua interezza. In altre parole, si crea un dinamismo tra il fare in potenza e l’atto realizzato, tra ciò che verrebbe prima e ciò che verrebbe dopo, tra la preventiva pianificazione dell’azione e l’attuazione. L’esperienza, nella mia ipotesi, è dunque il risultato di questo complesso dinamismo. La consapevolezza che si ha nel presente nel quale si agisce e si prendono decisioni non è la stessa consapevolezza che sugli stessi fatti si acquisisce con il tempo dell’azione agita. Il presente è pur sempre il futuro agito del passato. La consapevolezza delle azioni e degli esiti delle azioni è dunque una conoscenza in divenire che ristruttura se stessa e l’esperienza stessa.

FOTO N.4Il continuo dialogo fra presente e passato, vicino e lontano, dentro e fuori (ed essi con l’intero mondo circostante) è fondamento essenziale per la costruzione del senso di appartenenza e la condivisione dei sistemi di rappresentazione. Ad esempio, alcune pratiche di strada (elemosina, venditori ambulanti, lavavetri, vigili del traffico, automobilisti, pedoni, ciclisti) offrono occasioni di interazione e configurano contesti di dialogo attraverso i quali si produce quel va e vieni dialogico tra le istanze individuali e collettive che si traduce in meccanismo di costruzione culturale. In conclusione, ho voluto prendere in conto alcuni passaggi del testo di Woolf per affrontare la questione del campo e del fuori campo, mostrando non solo quanto importante sia un certo tipo di letteratura per l’antropologia in sé, ma, anche, per mettere l’accento sull’intreccio stretto che esiste, nella vita quotidiana, tra dialogo, dimensione spaziale e dimensione cognitiva. Credo infine che il concetto di campo/fuori campo possa essere utile proprio per meglio mostrare questo stretto intreccio sia a partire da un esempio letterario sia nella vita quotidiana.

Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Riferimenti bibliografici
Lotman J. M., Testo e contesto: semiotica dell’arte e della cultura, Laterza, Roma, 1980
Montes S., “Tradurre le culture: strategie dei testi, strategie degli antropologi”, in Archivio Antropologico Mediterraneo, anno III-IV, n. 3-4, 2000-2001:35-52
Montes S., “Is intra-reception possible? The literatures of anthropologists, Marc Augé and otherness”, in Interlitteraria, 11, vol. I, University of Tartu, Tartu, 2006
Montes S., “Una incursione fotografica ‘sul campo’ e l’antropologia ‘fuori campo’”, in Dialoghi Mediterranei, n. 9, settembre 2014
Montes S., “Semioantropologia come traduzione del vissuto”, in  Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Woolf V., Le cose che accadono. Lettere 1912-1922, Einaudi, Torino, 1981
Woolf V., Cambiamento di prospettiva. Lettere 1923-1928, Einaudi, Torino, 1982
Woolf V., Un riflesso dell’altro. Lettere 1929-1931, Einaudi, Torino, 1985
Woolf V., La signora Dalloway. Traduzione e cura di Nadia Fusini, Feltrinelli, Milano, 2003 (ed. or. 1925)
Woolf V., Diario di una scrittrice, Beat, Milano, 2011

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Concetta Garofalo, laureata sia in Lettere sia in Studi storici, antropologici e geografici presso l’Università degli Studi di Palermo, studia i molteplici aspetti teorici e pragmatici della agency e i processi, a breve e lungo termine, di interazione fra soggetti, instaurati nel mondo contemporaneo in relazione ai sistemi culturali di appartenenza, in spazi e tempi configurati soprattutto dai contesti urbani e dai contesti di apprendimento. La sua prospettiva di ricerca interdisciplinare attinge agli ambiti di studio più specifici dell’etnopragmatica e della sociosemiotica.

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