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Il patrimonio conteso e minacciato
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2022 @ 00:35 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Pietro Clemente
Idolatria del potere
In questi ultimi tempi riflettevo sul fatto che l’Ucraina può essere quasi un riferimento paradigmatico all’immagine del centro in periferia perché, suo malgrado, è diventata centro subendo una invasione e una guerra distruttiva.
Dall’inizio delle ostilità la città di Mariupol ha perso 60 mila abitanti. Nel 2014 ne aveva 490 mila. Ora che somiglia ad Aleppo [1], distrutta da bombardamenti e da missili russi, quanti ne avrà? Si dice che ne siano rimasti 100 mila. Quelli che non sono fuggiti. Se si vuole fare un confronto con le città italiane capoluogo di regione con lo stesso numero di abitanti, possiamo pensare alle città di Genova o di Firenze. A Genova fece riferimento anche il Presidente ucraino Zelensky nel suo discorso indirizzato al Parlamento italiano.
Nel 1962 la mia generazione scese nelle piazze per contestare l’invasione americana a Cuba, poi nel 1967 per protestare contro gli USA che avevano invaso il Vietnam. Una foto di mia moglie, Ida, in mezzo ai poliziotti. pubblicata su L’Unione Sarda, è rimasta a ricordo delle lotte per la pace e contro la guerra. Nel 1963 con un gruppo di giovani fondammo a Cagliari il MAP, Movimento di Azione per la pace e la prima iniziativa pubblica fu la presentazione dell’Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII. Il MAP durò poco: non tardarono a manifestarsi le aporie concettuali del pacifismo che anche oggi sono ben presenti. Ma come allora, da agnostico, mi sento di condividere di nuovo il pensiero di un papa, Francesco, e la durezza delle sue parole di condanna della guerra. Parole che, nei primi anni ’60, trovai nelle amichevoli lezioni di Aldo Capitini, gandhiano, vegetariano e pacifista.
Provo dolore nel trovare la guerra così vicina e nel vedere coniugato il tema del centro in periferia in questa forma. Provo dolore nel vedere ex post che il nostro sogno giovanile ed ingenuo di progresso pacifico era impossibile e che lasciamo ai nostri figli e nipoti l’orrore di un’altra guerra, dopo che – almeno per quanto riguarda l’Italia – abbiamo vissuto dal 1945 ad oggi senza conflitti. E trovo ora assurda la mia convinzione che la geopolitica fosse finita con la Prima Guerra mondiale.
Il presente dà una sensazione davvero sconfortante se penso a quel che ho pensato e creduto. È come rivedere l’Ungheria e la Cecoslovacchia invase dai carri armati russi, Piazza Tienanmen invasa anch’essa dai carri armati, e il crollo totale dello spirito di pace sia del mondo russo putiniano sia di quel che ancora si chiama comunismo cinese. La logica della guerra contro la quale lottavamo è di nuovo dominante, in forme non troppo diverse, ma con nuovi Stati e nuovi dittatori.
Ci illudemmo che con il crollo dei muri fosse possibile un mondo unico di dialogo e di pace. E, davanti ai nostri occhi, la Yugoslavia si frammentò in diversi nazionalismi. Anche quella fu una periferia che la guerra aveva fatto diventare centro, ma noi la vivemmo come qualcosa di marginale, che riguardava solo loro. All’epoca, una mia cara amica e collega che viveva a Zagabria mi raccontò di essere tornata nei rifugi, di avere rivisto situazioni e politiche che aveva combattuto da giovane partigiana. Il suo racconto fu il filo rosso che mi tenne legato a quelle tragedie, alla distruzione del ponte di Mostar patrimonio dell’umanità. Su indicazione di una allieva romana lessi La guerra in casa, Einaudi, 1998, di Luca Rastello [2], e poi i libri di Alex Langer, testi che forse sono la risposta più radicale e coerente al mondo in guerra. Fui colpito da una sua frase che diceva del bisogno e del diritto di piangere: la misi nel mio repertorio di emozioni. Fui davvero turbato dalla sua scelta di togliersi la vita.
Avere superato la fine della Yugoslavia (senza trascurare i conflitti in Irak, in Libia, in Siria, in Afghanistan eccetera e eccetera), avere superato l’assedio di Sarajevo, le stragi e le violenze di Srebrenica, ha comportato un processo di rimozione. Papa Francesco ci invita a non abituarci alla guerra. I giornalisti inviati in Ucraina usano aggettivi superlativi negativi, avverbi di rinforzo emotivo, si esibiscono sui luoghi della guerra. l’Ucraina è sempre la prima notizia dei telegiornali. Ha tolto il primato al Covid che è ora un po’ ai margini dell’informazione. Attualmente il Covid presenta una percentuale quasi stabile al 15% dei contagiati sui tamponi, e oscillazioni tra gli 80 e i 300 morti al giorno, ma viene incomprensibilmente dichiarato ormai in calo. Nella sua trasmissione Otto e mezzo, Lilli Gruber dice: “oggi si parla di genocidio, bambini morti, stupri, rischio di terza guerra mondiale … ma dopo la pubblicità” [3]. In questi giorni al centro dei telegiornali viene descritto il desiderio di evasione degli italiani e il successo del turismo nelle vacanze pasquali. Non è difficile vedere le vie di Firenze o di Genova piene di gente, le spiagge affollate, senza confrontarle coi palazzi scheletriti di Mariupol, colle bombe, colle mine, coi missili, coi carri armati che dominano lo scenario. A breve il centro tornerà altrove e la periferia tornerà tale, almeno per i più.
Il papa ha parlato di Caino e del gesto irreversibile del dare la morte e della responsabilità totale del primo gesto. Non poteva nominare Putin, ma, bene o male, lo ha fatto capire lo stesso. Un mondo di immagini salgono alla memoria: il tema dell’orrore, che si impone da Conrad a Coppola in Apocalypse now [4]. Ha il volto del dittatore.
Riemergono immagini profonde, le sette spade nel petto dell’Addolorata che se ne va in processione trafitta.
1 Una spada è la guerra;
2 Una spada è la morte dell’universalismo;
3 Una spada è la consapevolezza del nostro privilegio e della perdita dell’innocenza;
4 Una spada è non vedere le guerre nascoste, essere nella guerra diffusa e fingere di non saperlo;
5 Una spada è che il Papa e Mattarella siano inascoltati, che si acceleri la produzione di armi e i guadagni di chi le vende;
6. Una spada è l’esodo dei bambini e delle madri, il viaggio degli orfani e delle vedove verso nuovi campi profughi;
7. L’ultimo coltello è “il pianto che non si vede, la morte si sconta vivendo”.
Putin è Macbeth, è l’idolatria del potere. Su La lettura sono state assemblate delle immagini che mostrano il viso di Putin composto dai volti di Stalin e di Hitler. Il suo nazi/stalinismo, forse prevedibile, ma non per me, è un dato di fatto che prima che un giudizio chiede una maledizione. Non è sopportabile che Putin dica che la sua è una ‘operazione speciale’ [5] per denazificare il Donbass, che accusi gli ucraini di fare genocidi che invece è lui a compiere, che si faccia beffe della verità arrivando a dire che gli ucraini si sparano addosso da soli. Il bue che dice cornuto all’asino.
Putin è responsabile di avere cambiato il mondo, di averne fatto vedere la gracilità e di avere prodotto – come dice il titolo dell’ultimo numero di Limes – la fine della pace. Una pace che non c’era, come continua a dire il Papa, ma di cui si poteva almeno fingere che ci fosse e che la guerra fosse lontana. Ci sarà una Terza guerra mondiale? Saranno comunque anni di scontri armati e di profughi. Sarà questo il futuro e non la pace e il benessere, che peraltro non ci sono mai stati per tutti.
Questo è il clima de La fine del mondo in cui De Martino riflette sulla minaccia della scomparsa nucleare del pianeta. L’apocalissi prossima vicina.
Patrimonio conflitti antropocene
Lo scritto di Lauso Zagato, studioso di diritto internazionale, Sul patrimonio culturale dissonante e/o divisivo mi rende più semplice passare dalla guerra ai temi del patrimonio. Con attenzione puntuale e precisi promemoria Zagato mostra il volto ‘caldo’, drammatico, dei valori patrimoniali non condivisi, valori che spesso vengono dimenticati, riducendo il patrimonio a una sorta di luogo differenziato per stile ma senza conflitti. Invece ci sono conflitti forti sul valore e sull’identità che possono essere estesi al rapporto tra patrimonio, storia nazionale, storia coloniale. Il tema del patrimonio diviso penetra nella vita dei Comuni, nei nomi dei luoghi, chiede chiarezza. Il Comune di Padova mantiene i nomi coloniali delle strade e, attraverso didascalie, ne spiega la storia. È un modo questo di far uscire i nomi delle strade dalla memoria indifferente. Ma ci sono sempre discussioni su questi argomenti e le nuove giunte comunali di destra cercano di lasciare i loro segni.
Partendo da un saggio di Ben-Ghial sul ‘patrimonio dissonante’ italiano [6], Zagato mette alla prova le FAQ che danno risposte sulla Convenzione di Faro, ed affronta i nodi delle permanenze coloniali. Conclude con la critica al quieto vivere italiano sui temi caldi della memoria pubblica: «Abbiamo accertato qualcosa di nuovo: quando viene in discussione il grumo di tenebra del colonialismo, e l’immobilismo non sia oltre difendibile, si preferisce da parte istituzionale la cancellazione all’utilizzo di quelle stesse iscrizioni e intitolazioni a fini di ricostruzione pubblica di una verità storica che non si vuol lasciare emergere».
Ho trovato sentieri analoghi nello studio delle stragi naziste in Italia. Da ricerche condotte nel 1994 da un gruppo di studio sulla memoria degli eccidi, uscì il libro di Giovanni Contini [7], forse il più rappresentativo di quegli anni, che chiamò ‘memoria divisa’, quella memoria che imputava la colpa delle stragi ai partigiani. Il nostro lavoro sulle stragi aveva in progetto di condividere con la popolazione la memoria divisa, di riunificarla. Nel caso di Civitella della Chiana, la comunità che si era sentita per 50 anni isolata ed accerchiata nel proprio lutto, si aprì alla ricerca, al confronto e ritrovò anche attenzione istituzionale. Le stragi che studiammo, le persone che incontrammo mi diedero la percezione di una comunità che aveva vissuto e memorizzato l’Apocalisse [8] , e dell’entità dell’offesa che gli eredi del lutto sentivano. Quelle stragi così vicine, tra Arezzo e Siena, ci aiutano a vivere il presente.
Le proporzioni della strage di Bucha del marzo 2022 sono simili alla strage nazista di Civitella della Chiana del 1944. Così si mescolano le storie di violenza di guerra, di uccisione arbitraria di civili innocenti, si misurano i tempi del dolore che la guerra produce. Ci vogliono poi decenni per ritrovare memorie conciliabili. Tutto questo aiuta a capire i temi del patrimonio divisivo, le stratificazioni diacroniche, i gruppi che si coalizzano per difendere immagini del passato, la trattativa e il conflitto sulla memoria. I temi forti, oltre quelli della guerra, del patrimonio conteso.
Connetto a questi temi la riflessione di Settimio Adriani su Il bosco che avanza. Lo scritto ha una portata davvero ampia, anche se è collocato nel piccolo paese di Fiamignano, in provincia di Rieti, e può servire a dilatare ulteriormente il nodo del patrimonio conteso. Se il paesaggio è patrimonio, come in Italia è previsto anche dal Codice dei beni culturali, e di conseguenza è paesaggio culturale, la dimensione del patrimonio e del suo carattere conflittuale diventa ancora più estesa.
Attualmente, in conseguenza della guerra, si sceglie di ritornare all’uso di risorse energetiche già da tempo condannate ed escluse. Si riparla di carbone, di gas ricavati con mezzi inquinanti: sembra più facile fare passi indietro che non tuffarsi coraggiosamente nel futuro utilizzando risorse come energia solare, eolica, etc…. Il 22 aprile si è svolta la Giornata della terra, nata nel 1970, che è «la più grande manifestazione ambientale del pianeta, l’unico momento in cui tutti i cittadini del mondo si uniscono per celebrare la Terra e promuoverne la salvaguardia. La Giornata della Terra, …coinvolge ogni anno fino a un miliardo di persone in ben 192 Paesi del mondo».
Questo grande sforzo si scontra e si confronta con la guerra. Gran parte del mondo sceglierà l’uso delle vecchie energie che danneggiano il pianeta, con il potenziamento dell’antropocene. Già è in atto il conflitto per procurarsi comunque le risorse energetiche pur che siano. E il consumo occidentale è del tutto incomparabile con quello di altri mondi. L’evento della Festa della Terra non sarà centrale ma sarà uno dei tanti che vengono dopo le notizie sulla guerra e sul PIL, sfondo della scena, quasi rituale nel suo ripetersi, doveroso da nominare non certo da realizzare come priorità. Nello scritto di Settimio Adriani ci sono questi nodi, c’è l’urgenza di affrontarli e non rinviarli, la sensazione che una trasformazione ecologica sia evidente a tutti ma non sia altrettanto evidente per la politica e l’economia dominanti, che le vedono come oggetti liturgico, di cose da dire, non come dramma planetario da strapparsi i capelli. Ora comunque esso viene dopo la guerra.
Lo scritto di Benedetto Meloni, al cuore dei nodi del riabitare i territori marginali e della prospettiva di sviluppo finalizzata ai luoghi, ribalta, in modo significativo, l’idea che i territori marginali siano territori carenti di qualcosa, e li propone come ricchi di potenziali iniziative e di risorse importanti. Meloni pensa questi territori nella prospettiva dello sviluppo finalizzato ai luoghi evitando il rischio di vederli solo come luoghi di assistenza.
Il centro della riattivazione è l’agricoltura, una agricoltura multifunzionale ovvero capace di
Mette in evidenza il dialogo e il vantaggio reciproco nel rapporto di scambio tra città e campagna, tra città e montagna ed aree interne.
Nelle nostre limitate esperienze, un tema che appare evidente è la grande pluralità delle pratiche del ritorno o del nuovo abitare. Non di rado sono segnalate conflittualità con i residenti, ma anche diverse prospettive tra i nuovi abitanti e i ritornanti sul tema del rapporto con il mercato, dell’uso delle energie rinnovabili e della biodiversità. Così che ci sono interne divisioni che vanno dalla sfera etica a quella finanziaria. È questo un altro aspetto delle ‘dissonanze’ del patrimonio inteso in senso ampio. Dissonanze che ci sono anche tra ‘noi’ che riflettiamo su questi mondi locali che ci sembrano strategici per il futuro. Nell’ambito delle politiche territoriali del giorno per giorno, legate ai piccoli successi, sorgono differenze tra prospettive più radicali e più mirate sulle strategie e intolleranti dei piccoli passi e l’investire sul patrimonio come parte necessaria dello sviluppo locale e come fattore di conservazione.
La modellistica proposta da Benedetto Meloni deve utilmente essere confrontata con le pratiche correnti e collocarsi non come un disegno di futuro remoto ma come un obiettivo aperto, di medio periodo, in parte in atto, e da estendere in termini di consapevolezza.
Sempre a proposito di patrimonio, negli altri due testi, il mondo degli ecomusei ci viene raccontato tra le buone pratiche della Regione Piemonte e le cattive pratiche della Regione Sicilia. In questa fase difficile ma promettente del ‘riabitare l’Italia’ gli ecomusei sono, a mio avviso, dei presidi importanti e attrattivi per ritorni e nuove esperienze. Il tema dello sviluppo locale è spesso alla base della loro nascita e della loro missione, mentre esso per i musei è oggi una nuova missione. Nel testo viene descritta la rete costituita da quattro ecomusei piemontesi che si confrontano e si connettono sul tema del gusto, rientrando così nel quadro della multifunzionalità dell’agricoltura, dei prodotti locali e della qualità. Nel caso piemontese è chiaro il nodo tra ecomusei e produttori:
Il formaggio Castelmagno, la pecora sambucana e i suoi prodotti, la segale e le acciughe sono i temi guida di questi quattro ecomusei che all’apparenza mostrano una bizzarra sequenza, ma di fatto rivelano una ricchezza sia di inventiva che di storia. Ognuno dei prodotti rappresenta una parte di un insieme plurale e ancora attivo, non ridotto alla sola rappresentazione turistica.
Il racconto dell’ecomuseo ‘abortito’ progettato da Sergio Todesco – paziente e attivo realizzatore di studi e di musei ed esperto di patrimonio in Sicilia – fa capire che spesso il tratto divisivo del patrimonio va prima di tutto messo in relazione ai disegni, agli opportunismi o al totale disinteresse culturale delle amministrazioni pubbliche e della politica. La rete ecomuseale che avrebbe potuto nascere sui Nebrodi Occidentali – area di importanti studi antropologici nonché di nascita di Giuseppe Cocchiara, uno dei fondatori degli studi italiani di antropologia culturale – vien fatta cadere attraverso una decisione amministrativa totalmente chiusa alla comprensione della domanda territoriale, decisione dovuta sia alla cancellazione di competenze demoetnoantropologiche nelle Soprintendenze che operano in Sicilia sia alla cancellazione sulla carta di una realtà di parco legata a momenti diversi e dialoganti del patrimonio.
Le ragioni sono difficilmente comprensibili. Nel campo della cultura le scelte amministrative sono diventate ovunque quasi assenti, e dove si attivano sono legate a ragioni che non hanno nulla a che fare con la valorizzazione del patrimonio. Recente è la notizia che a Tricase (Lecce) il sindaco sfratta d’imperio, senza alcuna ragione plausibile, un centro culturale molto attivo nel campo del patrimonio immateriale. Così come l’Archivio di Alberto Mario Cirese, dato in comodato d’uso dalla famiglia a una fondazione culturale di Rieti, viene rimandato indietro al mittente. Quasi nessun comune ha nel suo bilancio fondi per la cultura. Spesso i sindaci e i presidenti delle Regioni scelgono di tenere per sé l’assessorato alla cultura come fiore all’occhiello, come luogo di ‘visibilità’. Visibilità del nulla. Come ne “I vestiti nuovi dell’imperatore”.
In generale in Italia la cultura è diventata – o forse è tornata ad essere – uno spazio di resistenza e come tale va pensato e interpretato. È il nodo centrale di un progetto a tutto campo che contiene la guerra come il patrimonio, e che si misura con l’idea di possibili nuovi mondi a partire dalla tragedia che abbiamo davanti agli occhi.
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