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Il mondo e il suo discorso. Problematizzare le prospettive
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 02:01 In Cultura,Letture | No Comments
Chi ha fatto il mondo? I marinai che l’hanno scoperto, i pensatori che l’hanno misurato, i narratori che l’hanno raccontato? In che misura il calcolo di una distanza, una mappa oppure un viaggio ci dicono del mondo? Perché è di questo che si tratta, qualsiasi atto umano viene strutturato sulla base di narrazioni.[1] Le storie animano e condizionano il modo in cui percepiamo l’esterno e l’interno, il mondo fuori di noi e il mondo dentro di noi. Ma qui non ci si vuole occupare di fenomenologia né di psicanalisi bensì si vuole porre un accento a quanto può essere determinante proprio oggi problematizzare le narrazioni del mondo. Ci basta un’istante a noi degli albori del ventunesimo secolo, per visualizzare il mondo, il mondo in quanto globo, il mondo in quanto pianeta Terra.
Eppure, c’è una genesi narrativa del mondo così come ce n’è una geografica e, alle volte, queste due, coincidono. Dalla lettura di Osservare, Descrivere, Misurare: quattro variazioni e mezzo su temi di Humboldt di Greppi – testo pubblicato per adesso in versione parziale su Academia[2] – riusciamo a comprendere una cosa fondamentale: sia che si descriva a parole, sia che si raffiguri con il tratto del disegno o della pittura, sia che si misuri, il mondo è ciò che è in base alla narrazioni che l’umanità produce nell’atto di comprenderlo, percepirlo, rappresentarlo. Il diario di viaggio o di una spedizione militare (dell’antichità e della modernità), le vedute di paesaggio raccolte dallo stesso Humboldt [3], le corografie rinascimentali, le mappe o le carte geografiche, sono tutte modalità attraverso le quali chi percepisce il mondo, nel gioco delle sue parti, ne elabora un discorso.
Se escludiamo da questo ragionamento, ma non totalmente, le immagini satellitari, tutto il resto di ciò che si dice, si scrive, si disegna, si misura, sul mondo va a costituire un sapere eclettico e molto spesso amorfo che si è deciso di inchiodare alla forma intellegibile più scientifica e oggettiva possibile, ossia la carta geografica. Alla luce di ciò, il dibattito ormai logoro sulla fine della geografia ci si svela in tutta la sua drammaticità[4]: quello che oggi vogliamo sapere sul mondo, la carta geografica non ce lo dice più. Vedere rappresentate le distanze metriche dello spazio del mondo e i contorni delle terre emerse in un planisfero non ci importa più nella misura in cui abbiamo un navigatore geolocalizzato incorporato al nostro smartphone che ci indica e ci mostra, ogni qual volta vogliamo, la strada da fare, la distanza e il tempo di percorrenza.
Premesso quindi che ogni forma di rappresentazione e descrizione del mondo ne è una narrazione, è necessario chiedersi quanto inventiamo del mondo che pensiamo di descrivere. Quando, banalmente, ci viene chiesto di descrivere il nostro luogo di origine, la città in cui viviamo ecc., il discorso che sviluppiamo in risposta, sia scritto, che per immagini, che orale, è comunque frutto di un’elaborazione intellettuale che si muove da quell’attività cognitiva di narrazione che è intrinsecamente legata all’immaginazione. Inventare il mondo non significa quindi inventarlo da zero ma significa utilizzare l’immaginazione per colmare quelle lacune conoscitive ed esperienziali che necessariamente si sviluppano quando siamo di fronte un oggetto-concetto così complesso come quello di “mondo”, come afferma lo stesso Humboldt nella sua opera magna Cosmos, «dove la realtà minaccia di sfuggire alla presa, l’immaginazione viene doppiamente incitata ad attingere dalla propria pienezza, e a conferire contorni e permanenza a oggetti indefiniti ed evanescenti».[5]
Analizzare il come, il quanto e il perché in relazione all’immaginazione implicata nella conoscenza e rappresentazione del mondo problematizzandone dunque il discorso prodotto è forse la strategia più efficace per indagare veramente su cosa il mondo possa essere per qualcuno, che sia un singolo individuo o una collettività definita in base a qualsivoglia criterio sociale. Se può sembrare questa una considerazione banale, e lo è, a diventare complessa e complicata è la sua applicazione poiché si presuppone 1) che quella parte di conoscenza che definiamo oggettiva e scientifica (saper leggere e interpretare l’immagine satellitare del mondo o quella di una semplice carta geografica fisica e politica, e così via) sia acquisita; 2) che si abbiano strumenti speculativi raffinati tali da saper cogliere quelle zone grigie fra i “dati scientifici” e i discorsi che vengono costruiti attorno; 3) un’adeguata consapevolezza dei tranelli dell’esclusivismo culturale; 4)un’attenzione metodologica volta a problematizzare e mettere in discussione qualsiasi tipo di affermazione perentoria o che si autopone come definitiva.
Tutto ciò non ci serve come da setaccio ermeneutico per infine trarre una descrizione del mondo quanto più “oggettiva” possibile quanto a scovare nelle molteplici narrazioni peculiarità ed idiosincrasie che fanno luce prima di tutto sul come e sul cosa si dice sul mondo al fine di arricchirne l’immagine e l’immaginario [6], una volta accettato il fatto che non è possibile pretendere tale oggettività neanche dalle immagini satellitari poiché già in quanto immagine ad essa sottostà una semiotica propria e complessa.[7] Non è che queste ultime non ci dicono nulla bensì ciò che ci dicono è sempre inserito in narrazione tutte umane e sono sempre soggette a meccanismi cognitivi umani.[8] Quante volte al giorno vediamo l’immagine del nostro pianeta, la conosciamo tutti, è palese già dalla prima volta che vediamo un mappamondo, che il Sistema Terra è un sistema chiuso,[9] eppure il discorso globale continua a non essere ecologista quanto basterebbe per non rischiare nei prossimi decenni l’estinzione come specie.[10]
Facciamo allora un esempio di come una narrazione sotto forma di romanzo sia in grado di problematizzare la conoscenza e l’esperienza del mondo e di una sua parte, nel caso specifico l’Artico canadese: I fucili di Vollmann.[11] In questo libro l’autore sovrappone viaggi reali e immaginari strutturando la narrazione su più piani narrativi e più personaggi, anche questi parzialmente reali e immaginari, uno di essi è Sir John Franklin che, insieme alla rievocazioni di tutte le spedizioni nel passaggio a Nord Ovest compresa quella che gli costò la vita, costituisce una delle prospettive attraverso le quali lo spazio del mondo artico viene raccontato. Questo romanzo interessa al nostro discorso non tanto per la sua struttura narrativa quanto per il sapiente utilizzo non solo di più sguardi, costantemente sospesi fra il reale (documentale) e l’immaginario (romanzato), ma anche di più forme di rappresentazione grafica. Il testo è infatti cosparso di disegni di piante artiche a opera dell’autore, oggetti della cultura inuit, resti e raffigurazioni, elenchi dei partecipanti alle spedizioni artiche, ricalchi di vecchie carte geografiche e mappe tracciate invece a penna liberamente. Il succedersi di tali raffigurazioni contemporaneamente alla lettura del testo, va a comporre un intenso flusso immersivo di immagini (grafiche e letterarie) che restituisce in maniera efficace un frammento dell’esperienza dello spazio artico tanto da essere in grado di far percepire, in qualche modo, al lettore quel mondo lì come uno fra gli innumerevoli sensi del mondo – ove con “senso” intendo proprio il modo di porsi, fra infinite possibilità, di quel mondo a chi ne fa esperienza.
Infatti, il punto su cui si deve riflettere è proprio questo, cioè l’efficace narrativa e non in termini di stile o di voce o di letterarietà bensì in termini di vividezza dell’immaginario. Se a un primo acchito, l’immagine cartografica ci dice poco del mondo artico (se non le sue forme dall’alto), non ci dice nulla del freddo, del paesaggio, delle carcasse congelate, dell’opacità stordente dei ghiacciai, anche il semplice stratagemma di alternare carte ricalcate a mappe disegnate a mano, costringe il lettore a ricreare mentalmente quei contorni e quelle forme come se le avesse effettivamente percorse e che altrimenti rimarrebbero una mera istantanea sulla retina. Ogni qual volta poggiamo il nostro sguardo e la nostra attenzione su quelle pagine avremo realmente un’idea, un sentore, un qualcosa che ci parla del mondo artico anche se quel luogo descritto non esiste del tutto con quella cartografia o è esistito soltanto nel passato. È chiaro che la strabiliante qualità della parola di Vollmann fa la sua parte ma per quanto riguarda questa analisi non è rilevante, perché qui davvero si vuole riflettere semmai sulla capacità di organizzare la descrizione, l’osservazione e la misura di quel mondo attraverso più linguaggi, più tratti grafici e un immaginario complesso e ricorsivo, il tutto nella cornice del romanzo che in realtà si configura semplicemente, da questo punto di vista, come medium-libro e non come meta-discorso narratologicamente pre-costruito. Perciò la pluralità dei punti di vista e delle narrazioni all’interno del romanzo è uno strumento che, oltre a essere o meno una scelta stilistica, serve a problematizzare ancora di più l’esperienza e la rappresentazione di quel mondo.
Che cosa voglio dire allora? Che la crisi della geografia ci deve far ritornare alle narrazioni geografiche, sia perché oggi possono essere più efficaci nel parlarci di un mondo e del mondo, sia perché di narrazioni comunque parliamo, una volta che sviluppiamo la capacità di interpretare una carta geografica, il vuoto che resta viene riempito con l’immaginazione e le narrazioni. Quello del problematizzare e del complicare dall’interno una narrazione geografica è ciò che fa Greppi stesso quando inserisce nella sua analisi «i viaggi finiti male, con i loro naufragi e le loro peripezie: almeno quelli di cui ci viene fornita testimonianza», proprio perché nei viaggi di scoperta geografica e di esplorazione cartografica «lo spazio era stato più o meno tenuto sotto controllo, nonostante tutto. Nei naufragi lo spazio è ostile, è prima di tutto il prodotto dello spaesamento»[12].
Il fatto che non esiste un mondo ma tanti mondi quanto sono gli esseri umani che lo concepiscono[13], dovrebbe essere usato come strumento di lotta politica verso quel diritto all’immaginazione di cui parla Appadurai[14] e allo stesso modo dovrebbe spingerci verso l’emancipazione dalle narrazioni e dagli immaginari tossici – per esempio quelli che esplicitamente o in maniera subliminale negano i diritti fondamentali dell’uomo, quelli che giustificano l’oppressione di alcuni individui per mezzo di altri o quelli che mirano alla distruzione sistematica degli ecosistemi del pianeta, degli animali, dei paesaggi, delle foreste e degli oceani in nome del profitto. Si finisce invece per chiudersi nelle proprie nicchie intellettuali, un po’ per autoconservazione, un po’ perché ci si convince, spesso da soli, che alcuni hanno più diritto di altri.
Ma torniamo al punto precedente ossia quanto può essere arduo problematizzare una certa narrazione del mondo. In realtà, per quanto sia effettivamente un lavoro che richiede tempo e pazienza (I fucili ne è un esempio così come Cosmos), problematizzare il punto di vista e la narrazione altrui sul mondo costituisce l’anima della sottotrama dell’evoluzione dell’universo dei media. Da quanto detto emerge infatti che problematizzare una narrazione porta inevitabilmente a problematizzare anche il medium prescelto alla sua comunicazione (così come Cosmos e I fucili non sono soltanto e semplicemente un saggio di geografia e un romanzo di viaggio standard). Si pensi per esempio al fatto che i talk show della tv vengono seguiti sempre meno dai più giovani preferibilmente orientati a frequentare il web e quelle forme simili di intrattenimento dialogato che si differenziano però in un punto cruciale: la possibilità di interagire attivamente con gli “ospiti”.
Piattaforme come Twitch [15] o le dirette su Youtube o altri social network, sono dotate di una chat sempre attiva in cui chi guarda non è più spettatore passivo bensì un utente attivo. L’opportunità di interrogare chi sta parlando, di postare i propri contenuti, di mettere in discussione quello che si sta dicendo in merito a una vicenda o di sviluppare discussioni parallele che spesso i “conduttori” utilizzano come spunti in tempo reale, riflette il bisogno di problematizzare le narrazioni sul mondo e sulle cose che offre chi è dall’altro lato dello schermo. Inoltre, quasi sempre, il mondo degli youtbers è direttamente finanziato dagli utenti che possono sostenere attraverso donazioni in appositi crowdfunding (di forme e tipologie differenti) o semplicemente facendo lievitare le views al punto tale da far sì che Youtube stesso ed eventuali sponsor finanzino il canale in questione [16].
Con questo si vuol dire che, di norma, l’utente ha la possibilità di problematizzare i simboli, e immagini, i punti di vista, le idee e tutto ciò che lì viene detto, seppur dietro uno schermo. È vero che lo share è fondamentale anche per i programmi tv ma l’interattività del web ha già cambiato le carte in tavola, ha già funzionato da sparti acque nel definire i tipi di pubblico. Non per altro, il successo delle piattaforme streaming di cinema e tv, Netflix e Amazon Prime per esempio, pur offrendo forme di intrattenimento in cui l’utente rimane uno spettatore, restituiscono quella forma di potere (d’interattività) in un altro senso e cioè dando la possibilità di decidere quando e come vedere quel contenuto, crearsi delle bacheche di preferiti, e il software della piattaforma fa il resto suggerendoci via via in base alle scelte precedenti, contenuti che ritiene di interesse maggiore.
Ora, possiamo leggere tutto questo come un’involuzione qualitativa della fruizione dei contenuti audiovisivi (ammesso che ci sia uno standard qualitativo, e se sì chi e come lo definisce? In base a cosa?), oppure possiamo parlare di cinema 3.0 [17] e di nuove modalità di fare arte e intrattenimento; possiamo vedere Twitch come la nuova arma del capitalismo di annichilimento delle coscienze dei più giovani oppure come un nuovo ambiente di lavoro artistico o sportivo (dipende da come si intendono gli eSport); possiamo considerare le nuove piattaforme di streaming i nuovi detentori del controllo sull’immaginario collettivo oppure nient’altro che una nuova voce nel mondo della produzione delle immagini. Possiamo quindi parlare del mondo affidandoci solo alle carte geografiche oppure possiamo andare a leggerci dei naufragi andando a vedere dove gli spazi e le forme dei media classici collassano.
Se vogliamo ripensare l’immaginario del mondo a venire [18] dobbiamo allora andare a vedere luci ed ombre dei mondi sorti nel frattempo, come il mondo dei videogiochi dove l’immaginario e le immagini sono in continua elaborazione, come il mondo dei content creator e delle community online. Se il discorso sul mondo passa anche per le narrazioni che lo animano e gli immaginari che lo inventano è allora il caso di andare a rintracciare i terreni fertili in cui le immagini vengono rimescolate e riorganizzate, il libro-romanzo viene ribaltato come un calzino, le narrazioni audiovisive riconfigurano interattività e narrativa e le discipline del sapere si incontrano senza paura.
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