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Il meticcio culturale: italo-tunisini dal 1800 al 1956
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2015 @ 00:54 In Cultura,Società | 2 Comments
di Imen Ayari Cozzo
Il meticcio è un aspetto fondamentale nella cultura tunisina, che deriva dalla confluenza delle diaspore del Mediterraneo e le affiliazioni culturali e nazionali. Di origine berbera, punica, latina in seguito alla guerra di Cartagine contro Roma, araba, turco-ottomana e più tardi influenzata sia dalla cultura e dalla lingua italiana, sia da quella francese, la Tunisia ha subìto, pertanto, un lungo processo di contaminazione di diverse culture che l’ha portato, per la sua posizione nel Mediterraneo, ad essere punto di incontro tra l’Europa e l’Africa, l’Occidente e il Levante, il Nord e il Sud. Il nostro primo interesse è di rendere nota l’influenza della cultura italiana nelle grandi città della Tunisia, considerando la buona convivenza sperimentata e il benessere di cui gli “esterni”, spesso di origine italiana, nonché europea, ma che sono nati e vissuti in Tunisia, hanno goduto per circa due secoli. La storia ci insegna come la presenza italiana in Tunisia abbia cambiato definitivamente il modo di vivere della popolazione di Tunisi, Bizerte, Tabarka, Beja, Nabeul, Hammamet e Sousse. Mentre si parla politicamente della dominazione ottomana, il fattore geo-culturale euro-mediterraneo viene ignorato e dai nazionalisti italiani e da quei tunisini di filone pro-arabista. Invece la storia indica altri dati, ovvero una costante presenza italiana in Tunisia fin dall’800. Infatti nei primi decenni di questo secolo, la comunità italiana era costituita da alcune migliaia di attivisti politici, lavoratori, intellettuali, provenienti dalle regioni centrali e settentrionali della penisola. Tanti si erano rifugiati in Tunisia, come lo stesso Giuseppe Garibaldi. Fu fondata una scuola nel 1821 e si ha notizia di una prima stampa nel 1829, mentre la produzione di un giornale in lingua italiana risale al 1838.
Dal 1861 la popolazione italiana aumentò di numero, questa volta con l’arrivo di migranti non qualificati, per lo più, dalle isole di Sicilia, Sardegna e Pantelleria che si affermarono detenendo un ruolo politico attivo che contrasterà la crescente influenza della Francia. Dopo l’Unità, il nuovo Regno d’Italia ebbe delle intenzioni coloniali che furono ratificate, nel 1868, con un patto bilaterale tra il Bey e il primo ministro italiano Benedetto Cairoli. Gli accordi assicurarono al governo italiano l’influenza sul Bey di Tunisi e permisero agli italiani stessi di avere maggiori agevolazioni fiscali e una vita economica pari a quella dei cittadini tunisini, allora ancora sotto la dominanza ottomana che, peraltro, durava da secoli.
Con il cosiddetto “schiaffo di Tunisi” subìto dall’Italia, cui seguirono le dimissioni di Cairoli e l’instaurazione del protettorato sulla Tunisia da parte della Francia, nel 1881 iniziò un periodo di graduale e forzata assimilazione degli italo-tunisini. Essi, che furono definiti le perilitalien, rappresentavano, appunto, un pericolo per il numero e per l’influenza con cui superavano, allora, in Tunisia, la stessa popolazione francese.
Gli italiani continuarono, comunque, a sfidare il protettorato francese col peso di una colonia che numericamente contava di gran lunga la popolazione più importante di tutti: nel 1901, sono presenti a Tunisi circa centomila italiani contro solo 24 mila francesi.
L’arco di tempo dal 1925 al 1943, che ha visto la diaspora italiana a causa del fascismo, il rafforzamento degli antagonismi politici e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu un periodo di continuo scontro con la Tunisia francese. Tra il 1943 e il 1970, dopo i disordini della Seconda Guerra Mondiale e post-coloniale, la comunità italiana, nella maggior parte naturalizzata francese, stava lentamente scomparendo dalla Tunisia. Oggi ci sono circa quattromila italiani residenti in Tunisia [1].
Una colonia culturalmente ibrida
L’italo-tunisino di allora doveva affrontare le differenze tra lui e il resto dei connazionali. L’Italia come nazione era un’idea lontana e poco percepita, ma altrettanto importante da essere distinta dai francesi da una parte e i tunisini dall’altra. A proposito dei cittadini italiani si parla di una identità ibrida e un rapporto difficile con la lingua italiana. Nella maggioranza dei casi, gli italiani venivano dalle isole e lavoravano a fianco dei tunisini convivendo negli stessi palazzi. Nel Portrait du colonisé (Ritratto del colonizzato del 1957), il famoso scrittore tunisino Albert Memmi definisce gli italiani di Tunisi “mystifiés”, ovvero i mistificati del colonialismo:
Albert Memmi parla della povertà degli italiani che sono quasi allo stesso livello economico dei colonizzati. Ma Memmi non parla della presenza di un gruppo di italiani ebraici, conosciuti come “grana”, che contavano una minoranza e si comportavano come il colonizzatore interessandosi poco del resto della colonia. In ogni modo nella classifica sociale, gli italiani occupavano un posto di mezzo fra i capi-colonizzatori e gli schiavizzati tunisini.
La nostra attenzione si focalizza su La Goletta, a dieci chilometri dalla periferia settentrionale di Tunisi, emblematica per l’alta presenza italiana. La cittadina si sviluppò, a partire dall’Ottocento, come quartiere abusivo della capitale a seguito dell’arrivo, dapprima modesto, di immigrati maltesi e siciliani, attirati dalle prospettive di lavoro legate a specifiche attività marinare e portuali. Il suo nome sembra essere dovuto al fatto di trovarsi in una piccola “gola” di fiume, per cui fu chiamata così dai primi italiani che vi si trapiantarono nel primo dell’Ottocento.
I francesi successivamente ufficializzarono il nome in “La Goulette”, dall’italiano La Goletta. Nel 1996, il film Un’estate alla Goletta per la regia di Férid Boughedir e per la sceneggiatura dello stesso Boughedir e di Nouri Bouzid, racconta come La Goulette ospitava un tempo una cospicua comunità italiana che annoverava, fra i suoi esponenti di spicco, anche l’attrice Claudia Cardinale e che ha dato origine al quartiere ancor oggi denominato “Piccola Sicilia”. Il film comincia con questo testo:
La storia, ambientata nell’estate del 1966, alla vigilia della guerra dei sei giorni, vede protagonisti Youssef, musulmano e controllore sulla TGM, Jojo “re ebraico del brik” e il cattolico Giuseppe, un pescatore siciliano, i quali vivono con le loro famiglie nello stesso edificio che è di proprietà dell’hajj Beji. I tre uomini, inseparabili al di fuori del lavoro risiedono con le loro famiglie, da buoni vicini, nella piccola cittadina sul porto della Goletta, alla periferia di Tunisi. Insieme condividono un’estrema felicità fino al giorno in cui ciascuna delle loro figlie, Meriem, Gigi e Tina, inseparabili come i loro padri, decidono di perdere la verginità concedendosi a ragazzi di religione diversa dalla loro. Il tentativo, nel giorno del matrimonio della figlia maggiore di Jojo, fallisce a seguito dell’intervento dei padri allertati. Verso la fine del film, quando inizia la guerra dei sei giorni, si spezza l’armonia tra le comunità. Di questa armonia parla Louis Morice, nel Le Nouvel Observateur del 7 ottobre 1999: «Boughedir, nostalgico di quei tempi di tolleranza, non si fa trasportare dall’amarezza e dalla tristezza, impossibile su una spiaggia là dove una madre grida ai suoi figli “Se ti anneghi, ti ammazzo!”» [4].
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l’America era ancora una meta troppo difficile da raggiungere per i siciliani e i maltesi in cerca di fortuna, cosicché il flusso migratorio si riversò sulla vicina Tunisia. La stragrande maggioranza di questi coloni, che erano braccianti, manovali, minatori e pescatori, giunse alla Goletta in condizioni di sostanziale miseria. Adrien Salmieri parla di una sorta di “divisione”, all’interno della colonia italiana, tra questi ultimi e una minoranza di insegnanti, dirigenti, artigiani e commercianti che ruotano intorno al consolato italiano e all’Associazione culturale “Dante Alighieri”. A differenza della massa dei lavoratori non qualificati, i pochi italiani che godono di una certa situazione economica, seppur semplice, sono a capo di reti associative, scuole, ospedali e gravitano attorno alla banca italiana creata in Tunisia nel XIX secolo, sono di cultura medio-alta e amano distinguersi dai loro connazionali, spesso analfabeti. Questa minoranza borghese italiana, dominata da notabili tra i quali contano molti Grana, riesce a condurre una campagna di civilizzazione dei suoi connazionali poveri, parallela a quella del colonizzatore francese. Salmieri aggiunge: «Les Livournais, patriotes nationalistes, uniques et vrais gestionnaires de la colonie, vont tirer vers l’italianisation les grandes masses d’immigrés siciliens parfaitement étrangers si non hostiles à ce qui est italien, et qui, en terre d’Afrique se sont naturalisés italiens »[5]. Il nostro primo testimone è il signor Giovanni Alcamo, nato a Tunisi nel 1934, da madre pantesca e da padre siciliano, ma nativo di Tunisi dove era nato anche lo stesso nonno, nel 1830. Alcamo descrive dei luoghi a Cartagine, a Belvedere e a la Goulette dove suo padre, ebanista di professione, insegnava e suonava la batteria nei banchetti e nei matrimoni.
Il signor Giovanni ricorda anche la povertà in cui, allora, versava Pantelleria dove non si trovavano né cibo né medicinali, mentre nella sua “piccola America” c’era di tutto:
Parlando del rapporto italiani-francesi, egli si ricordava di qualche dettaglio. Per un po’ di tempo, suo padre fu obbligato a fare il camionista per i francesi senza essere pagato. Un dettaglio che conferma l’atteggiamento di superiorità che il colonizzatore esercitava anche sugli italiani pur essendo maggiore quello sui tunisini. Se un francese, ad esempio, uccideva un tunisino, i tunisini non avevano diritto a reagire, al contrario tanti tunisini venivano arrestati e uccisi in piazza. Nel caso degli italiani la situazione era più che altro una “segregazione privilegiata”e di questo ci parla il signor Alcamo:
Anche Memmi, sottolineando che la condizione degli italiani è in qualche modo a metà strada tra “colonizzatori” e “colonizzati”, chiarisce il concetto nel seguente passaggio:
«Loin d’êtrerefusés par le colonisateur, ce sonteux qui hésitententre l’assimilation et la fidélité à leur patrie […] Ne bénéficiant de la colonisation que par emprunt, par leur cousinage avec le colonisateur, les Italiens sont bien moins éloignés des colonisés que ne le sont les Français» [8].
Questa posizione intermedia degli italo-tunisini e la loro identità ambivalente erano ail risultato di tanti fattori messi insieme. Da un lato, c’era insicurezza perché non avevano un rapporto unilaterale, c’era la Francia che esercitava il controllo su tutto il territorio e l’Italia, durante le varie guerre, si era messa contro gli alleati. Dopo l’invasione italiana della Libia nel 1911, gli italiani che vivevano nella Medina di Tunisi furono uccisi e ci furono delle rivolte anti-italiani. Tanti, fra cui la famiglia Alcamo, vedendo che l’Italia non dava loro protezione sul serio, preferirono l’assimilazione francese imposta dal colonialismo.
Allora dopo l’indipendenza della Tunisia, quando il presidente Habib Bourguiba ordinò il sequestro dei beni degli stranieri in Tunisia, questi ultimi presero la via dell’esilio: la famiglia Alcamo andò in America, ma tante altre in Francia. Gli italiani di Tunisi, non avendo che documenti francesi, non ebbero altra scelta che cercare una nuova vita in Francia. Nel suo romanzo La statua di Sale, Albert Memmi descrive come vede questa identità meticcia e l’ibridazione culturale:
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