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Il mercante e la Natura. Raccontare il cambiamento climatico
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 02:09 In Cultura,Letture | No Comments
Ogni parola rivela un mondo, nasconde un’avventura, dischiude un altrove da raccontare. Con L’isola dei fucili [1], sua ultima prova narrativa, Amitav Ghosh [2] ci invita a compiere un viaggio di scoperta e, per certi versi, riscoperta e riappropriazione di un legame necessario alla nostra stessa sopravvivenza, ma – ahinoi – impietosamente violato: quello con la Natura di cui siamo parte, con la Madre Terra che ci ha generato [3].
Conducendoci in giro per il globo terracqueo, tra città di ieri e di oggi, attraverso le maglie di un presente incerto e precario che si riannoda al passato, Ghosh ci porta a sperimentare quella che lui stesso ha definito, alcuni anni addietro, la grande cecità [4]: la nostra incapacità di registrare e comprendere i cambiamenti climatici in atto; l’inadeguatezza nel proporre soluzioni valide ad assicurare la salvaguardia degli equilibri naturali e perfino la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla Terra; il fallimento nell’immaginare e costruire un domani sostenibile [5].
Ecco che la parola bundook (= arma da fuoco, fucile), attorno a cui si dipana l’ordito romanzesco, diventa paradigmatica dell’irresponsabile azione esercitata dall’uomo sull’ambiente in nome del profitto: un crimine, un abominio, una carneficina contro cui la letteratura, da sempre terreno privilegiato della resistenza e della denuncia, non ha opposto in modo sistemico le proprie forze.
Pochi gli scrittori che hanno scelto di ingaggiare un’aspra battaglia di sensibilizzazione e civiltà: impresa certo ardua, tuttavia irrinunciabile e, soprattutto, non ulteriormente demandabile. Su questo difetto di prosa, Ghosh ha richiamato in passato più volte l’attenzione: «Quando il tema del cambiamento climatico fa capolino […], si tratta quasi sempre di saggistica; difficile che in tale orizzonte compaiano romanzi e racconti» [6]. Non certo una coincidenza per l’Autore, il quale si spinge ad azzardare che «la sola menzione dell’argomento basta a relegare un romanzo o un racconto nel campo della fantascienza» [7].
Ma va registrata, se possibile, un’indifferenza più generale: la cultura contemporanea nel suo complesso, tanto attraverso il linguaggio delle arti quanto mediante gli strumenti delle scienze umane, fatica a rappresentare il cambiamento climatico. Frattanto, la società del consumo e del marketing promuove a tamburo battente desideri legati al modello economico che si impernia sull’utilizzo dei combustibili fossili: un messaggio «intimamente legato alla più ampia storia dell’imperialismo e del capitalismo che hanno plasmato il mondo» [8].
Non resta che ammettere che i nostri stessi stili di vita ci rendono non solo vittime delle manipolazioni e delle seduzioni esercitate dalla pubblicità, ma complici degli occultamenti messi in atto dalla cultura dominante. In futuro, avverte Ghosh, «i lettori e i frequentatori di musei si rivolgeranno all’arte e alla letteratura della nostra epoca cercandovi innanzitutto tracce e segni premonitori del mondo alterato che avranno ricevuto in eredità. E non trovandone, cosa potranno, cosa dovranno fare, se non concludere che nella nostra epoca arte e letteratura venivano praticate perlopiù in modo da nascondere la realtà cui si andava incontro?» [9].
Da questa domanda nasce l’urgenza di percorrere nuovi sentieri narrativi. Fermamente deciso a sottrarsi alla schiera dei conniventi, convinto che nell’era del surriscaldamento globale il nostro sia un universo fatto «di tenaci e ineludibili continuità» [10], nel senso che tutte le realtà sono interconnesse e ciò che accade a livello locale ha ripercussioni immediate a livello globale, Amitav Ghosh si lancia in una sfida non priva di difficoltà: raccontare la guerra tra profitto e Natura.
Procedendo acriticamente (o fraudolentemente) lungo il sentiero di un progresso sbandierato come giusto e inevitabile dall’ideologia capitalista, anche per effetto di ripetute manipolazioni massmediatiche, l’uomo ha violentato il Pianeta senza premurarsi di stimare il costo da pagare [11]. La logica imperante del mercimonio ha agito (e continua a farlo) entro un orizzonte asfittico di pensiero, incapace di rispettare il presente e le attuali generazioni, incapace di guardare al futuro e di concepire un vincolo di solidarietà con quelle che verranno dopo: così, ogni progresso si ottiene al prezzo di «rendere il mondo più invivibile» [12].
È l’avvertimento di tanti osservatori preoccupati del destino della nostra casa comune, non ultimo Papa Francesco [13]. È il monito di Ghosh che, con L’Isola dei fucili, si conferma prosatore di talento e intellettuale incendiario, come suggerisce il titolo di un suo noto scritto di taglio giornalistico apparso nel 2006 [14]: da esperto antropologo e narratore navigato, con mirabile agilità di scrittura, crea un intreccio avventuroso e avvincente basato sul mistero, dimostra una comprensione profonda delle dinamiche geopolitiche ed ecologiche, proponendo una riflessione acuta e pungente ad ampio spettro sulle conseguenze ambientali e sociali innescate dal cambiamento climatico, in particolare sui flussi migratori [15].
Con grande abilità, dopo il successo dei romanzi che rientrano nella «Trilogia dell’Ibis» [16], va a caccia di grovigli storici e concatenazioni, trasforma le coincidenze in occasioni d’inchiesta [17], esplora le sottili trame concettuali della lingua bangla e si addentra nel folklore di un’ampia area territoriale dell’Asia, oltremodo prolifica di narrazioni, per riemergere con una leggenda sorprendente: quella del mercante di fucili, Bunduki Sadagar, che fugge al di là del mare, dopo essersi inimicato la dea Manasa Devi, signora dei serpenti e di ogni altra creatura velenosa.
Una storia che ricorda l’Odissea per le peregrinazioni cui è costretto il protagonista, alle prese con forze assai più potenti di lui, ora divine ora terrene [18]. Ma se il viaggio dell’Ulisse omerico si conclude con l’approdo alla sua Itaca e il ricongiungimento alla famiglia, di diverso segno è la vicenda del mercante. Dopo esser scampato ad alluvioni, carestie e calamità d’ogni sorta, l’uomo spera invano di trovar tregua sull’Isola dei fucili, dove si credeva non esistessero i serpenti. La dea lo raggiunge anche lì e lo perseguita, inducendolo ad un’altra rocambolesca fuga. Bunduki Sadagar finisce tra le grinfie dei pirati, che lo deportano sull’Isola delle catene per venderlo come schiavo. Disperato il mercante, che inizialmente s’era rifiutato di adorare la potente divinità, finisce per prostrarsi al suo culto e s’impegna a costruire per lei un dhaam, un tempio nel Golfo del Bengala, nel vasto delta formato dalla confluenza dei fiumi Gange, Brahmaputra e Meghna, nel cuore della più estesa foresta di mangrovie del mondo.
Questa la versione più nota di un racconto le cui origini risalgono ai primordi della memoria bengali e che annovera numerose varianti locali, con grande persistenza nel tempo. Nei secoli, a seguito di successive ondate narrative, gli intrecci sono sempre soggetti a rivisitazioni e integrazioni; i personaggi stessi possono acquisire altre caratterizzazioni e perfino nuovi appellativi. Così accade alla leggenda del mercante di fucili, che – nei suoi cicli di vita – si eclissa per secoli, per poi riapparire con nuovo vigore e ulteriori, significative sfaccettature.
Una di queste ha a che fare appunto con l’erezione di un edificio sacro, segno tangibile della assicurata devozione alla Dea, nelle Sundarban, «la frontiera dove il commercio e la natura selvaggia si guardano negli occhi, il punto esatto in cui viene combattuta la guerra tra profitto e Natura» [19]. Un ecosistema complesso quello ricostruito ne L’Isola dei fucili: non scenario di fondo, ma parte integrante di una narrazione dalla molte sfumature. Né potrebbe essere altrimenti per gli intenti perseguiti da Ghosh. Un cuore verde di enorme importanza sia in termini di biodiversità che come naturale protezione contro i cicloni che atterriscono le popolazioni locali. Purtroppo, anche un’area particolarmente vulnerabile, che rischia di essere sommersa per effetto di cambiamenti climatici che appaiono irreversibili. E che, a chi la attraversa, si presenta minacciata dalla sovrappopolazione, contaminata dall’inquinamento causato dal traffico mercantile e dagli insediamenti industriali, sventrata dalla deforestazione dissennata e selvaggia cui è stata sottoposta in nome di lucrosi guadagni [20].
Già scelta da Ghosh come ambientazione per Il paese delle maree [21], nonché luogo entro cui si sviluppava una parte della trama de I misteri della jungla nera di Emilio Salgari [22], questa regione resta tra le più importanti riserve naturali e faunistiche del pianeta. Le acque che la devastano e progressivamente la conquistano sono le medesime che stanno invadendo Miami Beach, le stesse che minacciano Venezia, dove la laguna pericolosamente deborda sommergendo calli e cortili. Nel mondo globale, i confini dello stato-nazione sfidano ed eccedono l’idea di “luogo” come spazio circoscritto: «Il cambiamento climatico ha rovesciato l’ordine temporale della modernità», annota lo scrittore indiano nel saggio La grande cecità [23].
Sono lontani i secoli della razionalità strumentale di matrice anglosassone e della ragione progettuale di origine illuministica e idealistica. Non c’è umana pietà per l’ordine e il diritto naturali, così come per il bene comune e il bello. L’umanità percorre adesso la via del regresso: e potrebbe avviarsi ad una delle più immani tragedie dalla sua comparsa sulla Terra. In un passaggio di estremo interesse, Ghosh istituisce una relazione fra gli effetti del surriscaldamento globale e l’evidenza che una delle lingue più parlate a Venezia sia il bengali: «[…] gli uomini che gestiscono le pittoresche bancarelle di frutta e verdura o cuociono le pizze, o addirittura suonano la fisarmonica, sono perlopiù bangladesi, molti di loro costretti dallo stesso fenomeno che ora minaccia la loro città d’adozione, l’innalzarsi del livello dei mari» [24].
Venezia, luogo in cui Shakespeare ha ambientato la storia del Mercante Shylock e di Otello [25]. Venezia, dove le teredini, tra le più temibili specie xilofaghe marine [26], stanno erodendo le fondamenta di legno su cui molta parte della città è edificata. Venezia, crocevia di mercanti e di migranti, è una delle tappe di viaggio di Deen Datta, il «libraio antiquario» [27] che impariamo a conoscere sin dalle prime pagine de L’Isola dei fucili: «esperto di folklore bengali», dopo aver attraversato una stagione assai complicata della propria storia personale, si ritrova ad esser attratto dal richiamo magnetico della leggenda di Bunduki Sadagar [28]. Un po’ per caso, un po’ per destino: perché certe storie scandiscono il tempo dell’esistenza, fungendo in un certo senso da riti di passaggio. Dinu (questo il nomignolo che lo radica ai luoghi natii e dell’infanzia) non esita a lanciarsi alla ricerca di una spiegazione per i simboli rinvenuti nel tempio eretto al di là dei mari.
Una mano a dipanare l’intricata matassa gliela fornisce una studiosa veneziana, secondo cui l’universo può parlarci solo per mezzo delle storie: l’erezione del tempio risalirebbe al Seicento, correlata ad una fase particolarmente critica della “piccola era glaciale” [29].
Dietro la simbologia, si adombra così la reale vicenda del mercante, con le vicissitudini causate dall’impatto del clima sulle vite degli uomini. Per raggiungere il Mediterraneo, egli aveva attraversato l’Egitto, ma s’era scontrato con una terribile crisi economica dovuta ad una infausta siccità: dinanzi a tanta devastazione, a tanta povertà, impossibile fare affari. S’era spinto così verso la Turchia, per far ancora esperienza diretta dei nefasti effetti che le alterazioni climatiche esercitano sulle società: ad Istanbul, erano divampati incendi e la responsabilità era stata addebitata agli ebrei, che in massa avevano cercato miglior fortuna altrove e, grazie ad un provvedimento emanato dalla Repubblica Veneziana nel 1516, s’erano stabiliti nel ghetto della città, posto in un’isola separata dalle altre.
Lì, «pur vivendo segregati, gli ebrei di Venezia erano più al sicuro e più liberi che in qualunque altro luogo del mondo cristiano» [30]. Lì, in una realtà decisamente cosmopolita, il mercante aveva trovato il centro ideale per i suoi commerci. Il ghetto diventa così il correlativo dell’Isola dentro l’isola, che insieme accoglie ed esclude, dove Natura e profitto coesistono fronteggiandosi; e l’itinerario che al ghetto conduce si fa immagine del dramma umanitario che investe i migranti di ieri e di oggi.
Ghosh ci consegna un romanzo mirabile per significati umani e implicazioni antropologiche. Mentre in molti ancora si chiedono se la bellezza potrà salvare il mondo, lo scrittore di Calcutta indica la rotta: «Lo vedi quante gradazioni di colore ci sono nell’acqua?», chiede Piya a Datta [31]. Scrutare il mondo con occhi colmi di meraviglia: ecco la Bellezza che potrà salvarlo. Perché ogni aspetto della Natura, a considerarlo con sguardo vergine, proprio come accade con le parole, rivela un mondo altro, spalanca un’avventura da intraprendere, cela un altrove da raccontare:
Stupirsi della vita nelle sue molteplici e imprevedibili forme, adorarle e proteggerle è, in ultimo, il segreto che questa storia contiene: così il tempio da erigere ogni giorno alla Grande Madre per la sua protervia non è che un segno ideale di gratitudine, una scelta di appartenenza all’ordine naturale e di sottrazione all’imperio del dio denaro, che tutto corrompe e corrode.
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