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Il Mediterraneo di Camus: il pensiero meridiano e la Grecia della Cabilìa

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 02:13 In Cultura,Letture | No Comments

letedi Ilaria Guidantoni

«Il Mediterraneo ha una sua tragicità che non è quella delle nebbie». Così Camus nel libro L’été racconta in modo metaforico la propria posizione di francese d’Algeria. 

Imprescindibile per comprendere il rapporto di Camus con il Mediterraneo è il suo ultimo testo, incompiuto, per l’improvviso incidente stradale avvenuto il 4 gennaio del 1960, che gli costò la vita. Si tratta di Le premier homme, tradotto in italiano letteralmente con Il primo uomo, perché ci riporta alla sua giovinezza in Algeria, all’ambiente familiare, alla formazione intellettuale, a quel suo essere deraciné, sradicato o meglio radicato ai due poli, genesi del suo pensiero meridiano, solare, così definito dallo stesso autore.

Il mare è comunque un grande protagonista del mondo di Camus e per il maître à penser si tratta del Mediterraneo che è stato creato dai Greci, di cui i Romani ne hanno fatto una (brutta). Il Mediterraneo rappresenta per l’intellettuale francese la ricerca della misura, nel dialogo tra il suo essere liquido, infinitamente mutevole e la terra; è ombra e sole ad un tempo, dove l’ombra è ineliminabile perché altrimenti il sole brucia e consuma. In fondo è la dialettica della vita stessa della quale i Greci hanno rappresentato la bellezza e per essa hanno preso le armi; mentre ‘noi’, occidentali, eredi dei Romani l’abbiamo dimenticata.

In ogni caso “il mare bianco di mezzo” è il luogo in cui si cerca se stessi perché non è l’assurdo che abita la vita ma l’enigma che non è insolubile ma solo umanamente difficile da svelare. Per questo Camus come gli algerini non dice “Mi faccio un bagno” ma “mi offro/mi regalo un bagno”, perché è un’occasione per un viaggio dentro se stessi.

Ora però il Mediterraneo non è ascrivibile al mito dell’età dell’oro e non deve cedere al regionalismo o peggio al “nazionalismo del sole” ma deve restare una zona di espressione di vita e di ricchezza nel suo essere variegato e guarda ad Oriente, ai valori dell’Oriente e in tal senso il Nord Africa è quel luogo ricco di vita dove convivono Oriente e Occidente, la vitalità che nasce dalla dialettica dei contrari. È la sfida dell’esistenza nel suo quotidiano al quale non possiamo volgere le spalle.

In occasione del drammatico inizio della Guerra d’Indipendenza algerina, le parole scritte da Albert Camus nei suoi Cahiers del 1955 – opera pubblicata postuma, tra il 1962 e il 1973 che raccoglie testi variegati ma che dà la dimensione del lavoro dell’intellettuale su diversi piani – suonano profetiche forse proprio perché sono rimaste inascoltate. Rivolgendosi agli algerini, oppressi certamente, consigliò nondimeno loro di superare la paura e tornare a dialogare con il mare, anche se quel mare era stato nei secoli la piattaforma delle invasioni, basti pensare che un cognome diffuso in Algeria è korso la cui origine è corsara, appunto. Voltando le spalle al mare, che è apertura e comunicazione con l’altro, secondo il filosofo, il Paese sarebbe diventato preda di estremismi e così è stato. Il mare resta certamente un rischio – e i naufragi di questi anni lo dimostrano – quanto una possibilità di futuro, più rapida e immediata della terra, secondo Camus l’unica.

È emblematico a tale riguardo il fatto che già ne L’été criticasse in tal senso la costruzione urbanistica di Orano che volta le spalle al mare per rivolgersi al deserto.

Nondimeno il Mediterraneo che conosce Camus è un mare in guerra anche se il filosofo si pronuncia contro l’ideologia rigida nordeuropea in nome del più aperto spirito mediterraneo.Per l’autore francese, l’uomo occidentale contemporaneo si è corrotto nel corpo, nella mente e nell’animo e per ritrovare la propria essenza avrebbe dovuto rivoltarsi contro le cause di tale miseria. Per raggiungere questo traguardo è necessario recuperare la giovinezza dell’umanità che «…si trova ancora intorno alle stesse sponde», quelle mediterranee appunto. E quando parla di Mediterraneo, anzi di “uomo mediterraneo”, di razza mediterranea, intende riferirsi non alla civiltà latino-romana bensì a quella greca e, talora, a quella orientale.

Nel capitolo “L’exil d’Hélène” del libro L’été, Camus scrive che «Il Mediterraneo ha il suo tragico solare che non è quello delle brume…come accennato in apertura dell’articolo. In questa infelicità dorata, trova il proprio acme la tragedia». E sottolinea come la Grecia ha preso le armi per la bellezza fermandosi all’idea di limite, dell’essere come finito, definito, non spingendo al limite né il sacro, né la ragione perché non ha negato nulla né il sacro né la ragione ma ha cercato un equilibrio tra essi, tra la luce e l’ombra. Diversamente da quanto ha fatto l’Europa, ed è curioso che Camus opponga la Grecia all’Europa, come Oriente a Occidente, così come la mediterraneità all’elemento continentale. Il livello più alto è l’amore per la conoscenza, la filo-sophìa, che denuncia umiltà, là dove poi l’Europa, a partire da Alessandro Magno e i Romani, ha interpretato il potere e la ricerca della giustizia non come equità ma come assoluto.

180804__img_0487Ne L’uomo in rivolta (1951), che sancì tra l’altro la fine dell’amicizia molto contrastata con Jean-Paul Sartre, il tema della mediterraneità è sviluppato in senso filosofico, nonostante la partecipazione emotiva dell’autore all’elemento naturale dei luoghi, a cominciare dalla “luce invincibile” di Algeri – che da sola consola delle pastoie parigine – e al mare che è il primo e più sincero approccio per conoscere Algeri. L’incanto dei luoghi è molto forte anche nelle pagine poetiche de Les noces à Tipasa ne L’été, che abbiamo avuto modo di assaggiare. Sono i luoghi della sua nascita e della sua adolescenza che con la loro bellezza hanno corrisposto al suo spirito libero e sognatore al punto da farlo innamorare della vita in ogni aspetto e da fargli accettare tutto di essa fino a sentirsi un elemento della natura, nella veste di madre e matrigna. Pertanto neanche la povertà della sua condizione familiare gli era sembrata una disgrazia perché rientrava in quella vita dell’universo infinita, eterna, verso la quale si sentiva proiettato e al cui cospetto ogni singolo fenomeno si riduceva, diveniva un frammento dell’immensa composizione.

Secondo molti critici il Mediterraneo è stato all’origine del pensiero di Camus come lo era stato per la sua vita: l’essere nato sulle coste mediterranee dell’Africa ha determinato in lui una concezione così singolare della vita, sia nella fase del cosiddetto “pensiero solare”, sia in quella successiva “meridiana”, dove le ombre si addensano.

Già nel 1951, di fronte ad un mondo reduce e ancora vittima dei disastri di una tragica guerra, al conformismo diffuso e condizionamento intellettuale, all’asservimento delle masse, Camus aveva proclamato, nella sua opera più ampia e più discussa, la necessità per l’uomo di rivoltarsi contro la storia e la cultura che lo avevano preceduto, di rifiutare le precedenti rivoluzioni poiché, da qualunque parte fossero provenute, erano sfociate irrimediabilmente nel totalitarismo. Al nichilismo c’è un rimedio, una via d’uscita attraverso la ribellione che è più che rivoluzione – con tutti i rischi che comporta – solidarietà (La peste).

phpthumb_generated_thumbnailjpgLa complessità del mare e delle sue genti sembrano conferire, in una rispondenza tra ambiente esterno ed interiorità, una forte asistematicità alla sua opera che è, a mio avviso, anche il lato più vitale e intrigante del suo pensiero e sentire. Soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, nauseato dagli orrori, dai compromessi, e dalla corruzione, lasciati sul terreno dalla Seconda Guerra Mondiale, “predica” un ritorno all’origine, ad una dimensione archetipica dell’umanità che non è un ritorno all’antico e che mi preme molto sottolineare perché, in linea con il pensiero di Matvejevic, non si tratta di leggere il Mediterraneo con lo sguardo rivolto al passato, carico di nostalgia e utopia, quanto di recuperarne le fondamenta per costruire un nuovo mare nostrum. Il Mediterraneo, agli albori della civiltà occidentale, come ancor oggi, è in grado di dare la “misura”, la regola.

Solo dal recupero della memoria sarebbe potuto nascere l’uomo nuovo, auspicato da Camus. L’uomo in rivolta era divenuto l’uomo mediterraneo e in questo aveva trovato quella “misura” sempre cercata e qualche volta intravista. A suo modo Camus ha scovato un’armonia, quanto meno un dialogo tra la sua vocazione mediterranea e lo spirito filosofico francese, una riflessione maturata non senza disagi, nell’irrequietezza di una vita, che per altro ha pagato a caro prezzo. In fondo è stato per questo emarginato sia dalla sua amata Algeria, sia dalla Francia o meglio dal circolo degli intellettuali francese con un pensiero apparentemente libero ma forse solo libertario. La sua vocazione mediterranea infatti prende avvio già durante la giovinezza ad Algeri grazie anche alla suggestione dei luoghi e dei pensieri della sua prima vita e all’influenza su di lui esercitata da Jean Grenier, suo professore di filosofia.

Nel 1937, poi, Camus sarà ad Algeri tra i promotori di quella “Casa della Cultura” impegnata nel recupero, affermazione e diffusione della cultura mediterranea, in precedenza oscurata o utilizzata per finalità lontane dal suo vero spirito, che per Camus ha il centro nella mitologia greca, mentre è quasi assente il richiamo alla cultura araba (diversamente dal poeta e scrittore algerino, anch’egli di origine spagnola Jean Sénac – con il quale ebbe un’amicizia simbiotica e poi una rottura altrettanto definitiva – che pure ha molti riferimenti al mito greco ma intrecciato con altre tradizioni).

91dipe8zamlIl viaggio attraverso i testi

Noces e L’été (1954), Albert Camus, Folio Galimard, 1959; in italiano: Il rovescio e il diritto; Nozze; L’estate, traduzione di Sergio Morando, Bompiani, 1959. Il libro raccoglie i testi pubblicati tra il 1936 e 1937, Nozze e poi riediti in un numero esiguo di copie ad Algeri nel 1938 da Edmond Charlot, senza modifiche, nonché L’estate del 1954. Sono testi di struggente bellezza, per la scrittura sublime, iconopoietica, di grande sensibilità, classica nel senso più alto del termine. Sono anche dei cahiers di viaggio, dei documenti di luoghi lontani e affreschi di un mondo che non esiste più, scritti in un francese impeccabile, fremono di sentimenti, di analisi sensoriali eppure non romantici nel senso più ingenuo del termine quanto innamorati di quella patria del cuore che per Camus fu l’Algeria. Difficilmente classificabili, non essendo romanzi in senso stretto, senza una storia e una struttura romanzesca, né pagine di un diario, né saggi ma scritti in prosa, liberi, fuori da un’etichetta come difficilmente etichettabile fu Camus, anche se annoverato tra gli esponenti dell’Esistenzialismo.

Algeri è protagonista, la città soprattutto delle estati per il Premio Nobel della letteratura nel 1957, la città del mare con la sua baia arrampicata sul Mediterraneo, la cui dolcezza gli appare italiana, che ricorda soprattutto la Spagna; ma c’è anche Orano la sua città, selvaggia “negra”, spagnola, che è la città delle pietre, dove la polvere regna sovrana; e ancora Costantina che gli fa pensare a Toledo o Tipasa con le sue rovine. È sorprendente come Camus sia attuale nell’analisi che, da quella giusta distanza, fa dell’Europa, dimentica della natura e della bellezza e dal quale volentieri prende distanze per ritemprarsi, per ritrovare la luce che è il grido dell’eroe tragico, per apprezzare il cielo che laggiù trova invincibile (sono sue parole).

Purtroppo però le città algerine sembrano non avere passato, ai suoi occhi e in questa osservazione emerge il suo essere mediterraneo del nord. In qualche modo le città algerine non concedono nulla alla riflessione e tutto alla passione, al contrario di quelle europee. Così Prometeo diventa l’eroe per eccellenza del quale si è perso il significato: il suo mito racconta di chi ha voluto portare il fuoco e la libertà agli uomini, ovvero la tecnologia e l’arte che devono poter convivere per alimentarsi reciprocamente. Oggi – quindi allora già negli Anni Trenta – la tecnologia aveva preso il sopravvento con l’illusione di poter liberare il corpo dimenticando lo spirito. Quasi una profezia. Sorprendente. Interessanti anche i graffi della sua scrittura, verità taglienti che sembrano lasciate per caso in mezzo a descrizioni di grande suggestione e respiro dove l’occhio annega volentieri.

Il viaggio comincia descrivendo un matrimonio a Tipasa, luogo di incanto; quindi una passeggiata a Djémila, un posto dove non si passa né si arriva per caso ma ci si va espressamente e non tanto agevolmente: è una città ‘pagana’ che non porta da nessuna parte ma è al termine di una strada senza uscita. Algeri è una città dilaniata, sofferente ma dove l’eccesso di beni naturali fa perdonare ogni ruga e stridore della città. In qualche modo quest’angolo del mondo sembra confrontarsi con le città europee che hanno soffocato la cultura e che per altro Camus sembra conoscere bene come Vienna, crocevia di civiltà o Firenze che sembra amare particolarmente descrivendo la collina di Fiesole e il giardino di Boboli.

Lo sguardo che si perde ad Algeri soprattutto nei quartieri popolari di Bab el-oued e Bellecourt con il loro brulichio, traffico, agglutinamento di persone e colori, fanno da contrasto all’ordine dell’Europa eppure in Algeria Camus sembra apprezzare e fare i conti con una dimensione dell’anima essenziale: la solitudine, lontana dalla “solitudine popolata” delle città d’Europa. L’invito di Camus è comunque rivolto al mare, a quel luogo di vita, di scambi, a volte pericoloso, sia per la natura sia per la storia che in quella parte del mondo è stata da sempre una storia di invasioni, conquiste, scorribande. È pur sempre dal mare però che viene la vita, perché lo scambio anche quando è scontro è pur sempre vita, non dal deserto. Se l’Algeria avesse ascoltato il suo “profeta” forse non sarebbe stata presa in trappola dal terrorismo. Un libro che resta di grande attualità, una meditazione molto sentita sull’afflato e la risposta al bisogno di altrove che il Maghreb può dare all’europeo del sud, anche una riflessione su se stessi e sul destino della civiltà europea. In ogni caso un libro da leggere perché una lezione di bella scrittura.

51jzd59tqdl-_sy445_ql70_ml2_Una novità sul fronte algerino, è il primo romanzo di Kamel Daoud, classe 1970, giornalista del Quotidien d’Oran, originario di Mostaganem, residente a Orano che riscrive la storia raccontata da Camus ne Lo Straniero al contrario. Mersault contre-enquête (Actes du Sud, maggio 2014, Premio Goncourt 2015; in italiano Il caso Mersault, Bompiani, 2015) è un romanzo e quindi un itinerario immaginifico quanto coerente nella tessitura che illumina le vicende attuali dell’Algeria. Il racconto è speculare a L’Etranger. La vicenda di allora è nota: un francese su una spiaggia all’ora della canicola uccide apparentemente senza ragione un arabo perché lo legge come una minaccia. Del testo del grande maestro francese colpiscono l’indifferenza e la freddezza, l’estraneità a se stesso e alla coscienza. In questo atteggiamento sta l’essenza del titolo che diviene una condizione dell’anima: l’essere estraneo. Il libro di Daoud parte da un’altra indifferenza, quella di Mersault, il protagonista, verso la morte della propria madre, un affronto nell’immaginario dei rapporti familiari del mondo arabo. Daoud immagina il protagonista del suo romanzo quale fratello gemello dell’Arabo ucciso da Mersault. Scrive per chiedere giustizia e dà voce a chi della famiglia, umiliata da decenni, dopo oltre mezzo secolo non ha visto restituito neppure il corpo. Un Arabo non ha nome, è solo etichettato, al più indicato come zoudj, due in algerino, ovvero le 14, l’ora della canicola nella quale va incontro alla morte. Il termine, declinato nel tunisino jouj è anche la radice della parola ‘gemello’, un gioco di parole che l’italiano non rende adeguatamente.

lo-stranieroNel libro, ben scritto, con il piglio del giornalista, tanto che viene da pensare di leggere una pagina di storia, il protagonista decide di imparare il francese perché è la lingua del diritto, della giustizia, la porta per essere riconosciuti ed ascoltati anche nella sua Algeria. Che è una terra vittima del dolore di una famiglia bastonata dai colonizzatori come dallo stesso governo e ciò che ferisce maggiormente il fratello di Moussa è l’indifferenza della gente, forse degli stessi Algerini. Non riesce ad accettare l’idea che Mersault-Camus sia diventato famoso grazie ad un libro ben scritto, che in qualche modo riscatta l’assassino. Soggetto originale condiziona il lettore nella presa di posizione e dischiude un mondo rispetto al personaggio di Camus, uomo di confine, algerino di Algeri, algérois, non di Orano – città che non amava e che ridusse alla banalità – molto criticato perché non prese posizione contro la Francia a sostegno del Fronte di Liberazione Nazionale, rispetto alla guerra d’Indipendenza. Parimenti fu emarginato in Francia, in particolare dagli intellettuali.

Il caso Mersault è un libro senza pace che ci introduce nella difficile interpretazione della storia recente algerina, storia fatta di moti unidirezionali: Francesi, leggi Europei, Cristiani contro Arabi-Musulmani. Nel libro si fa solo un cenno ma si lascia intravedere che questa rabbia porterà altro rancore, tanto che gli Arabi schiacceranno i Berberi. La storia nel romanzo invertirà le parti finendo in tragedia, con la vendetta e quello che colpisce ancora una volta è che il protagonista è scosso dall’indifferenza anche quando è il turno di essere giudicato come nuove carnefice. C’è un comune denominatore tra i due protagonisti del romanzo di Camus e di quello di Daoud, due carnefici, miscredenti che non trovano Dio nemmeno nel dolore per la morte. Nel libro di Daoud il protagonista fa sentire tutta l’avversione per il radicalismo che ha caratterizzato gli anni ’90 dell’Algeria, la deriva senza razionalità, quel fastidio per il venerdì, il giorno di preghiera, dove le persone in nome della religione abdicano ai doveri sociali. C’è un passaggio che mi ha colpito e che descrive bene ogni forma di estremismo, quando il protagonista decide il venerdì di restare a casa, di guardare gli altri dal proprio balcone e guardando le moschee sottolinea come siano così grandi da offuscare Dio. Romanzo pungente, di denuncia, un inno di amore per il proprio Paese. Scritto in una lingua raffinata che soltanto il Francese non di Francia riesce a regalare.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Ilaria Guidantoni, fiorentina di nascita, vive e lavora tra Roma, Milano e Tunisi. Giornalista e scrittrice, si dedica alla conoscenza e alla scoperta dei temi legati alla mediterraneità, in particolare si occupa del dialogo interreligioso e interculturale, dell’evoluzione del femminile, delle rivolte arabe e della cooperazione tra le due sponde. Laureatasi in Filosofia Teoretica all’Università Cattolica di Milano con una tesi sul filosofo Wladimir Jankélévitch, è autrice di diverse pubblicazioni. Ha collaborato con il Dizionario Enciclopedico delle Migrazioni Italiane nel Mondo (SERItaliAteneo, 2014). Nel 2015 sono usciti Il potere delle donne arabe (Mimesis editore) e Marsiglia-Algeri. Viaggio al chiaro di luna, un reportage sull’attualità algerina (Albeggi edizioni). Nel 2016 per Albeggi Edizioni ha pubblicato la riedizione del libro sulla transizione tunisina, Senza perdere il coraggio. Tunisi, viaggio in una società che cambia e il pamphlet sul Mediterraneo Lettera a un mare chiuso per una società aperta. Sue sono la traduzione e la curatela dell’opera del poeta algerino di espressione francese Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre.

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