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Il mare al femminile

copertina     di Orietta Sorgi

            La vasta letteratura antropologica fiorita in Sicilia a partire dall’Ottocento ha generalmente concentrato gli interessi sulle realtà rurali di tipo cerealicolo, considerato il ruolo preponderante che il grano ha avuto nell’economia dell’Isola. Solo a partire dagli anni Settanta del Novecento, si registra con un certo ritardo una sensibile attenzione nei confronti dei borghi costieri e marinari, contestualmente agli sviluppi della museografia etnoantropologica e della cultura materiale (Buttitta 2009: 9-11). Tuttavia, nell’analisi di questi modi di produzione legati alla pesca tradizionale, gli antropologi sono spesso concordi nell’assegnare all’uomo la funzione di predominio e comando, relegando la donna alla sfera domestica o tuttalpiù ad attività di supporto come la sarcitura delle reti o la salagione del pesce azzurro (Mondardini Morelli 2006: 166-182; Signorelli 1987: 1-7). Così è accaduto anche nel resto dell’Italia o nell’Europa settentrionale. In effetti, se si escludono rari casi isolati, riscontrati in Sardegna, in Irlanda e nella Spagna nordoccidentale (Thompson 1990: 7-12), la donna è rimasta storicamente fuori dalla vita di mare, talvolta ammessa a parteciparvi solo nel tempo della festa, come avviene in Sicilia per l’Ascensione o per l’Assunta, quando la barca è a riposo in una cala a ridosso dai venti. Altrove è stato ancora sottolineato il potere rassicurante e protettivo della donna nei confronti della navigazione maschile: rappresentata sui porti a suonare la brogna, una grande conchiglia come il corno, per scongiurare le correnti e le trombe d’aria e segnalare le coste (La Cecla: 1993:99-100).

Un’assenza diffusa, quindi, attestata fin dall’antichità nella mitologia greca dalla figura esemplare di Ecuba, che afferma, nelle Troiane di Euripide, di non essere mai salita su una nave, ma di conoscerla solo attraverso i racconti degli uomini. «Alle donne la terra, agli uomini il mare», si è sempre detto, associando la funzione riproduttiva femminile alla terra madre generatrice di frutti. Un legame forte, indissociabile è quello che ha legato in passato l’agricoltura alla donna, non a caso nei momenti dei grandi raccolti, della mietitura o della vendemmia.

A rimettere in discussione tali presupposti, giunge opportuno questo piccolo ma altrettanto denso contributo di Macrina Marilena Maffei, edito da Pungitopo nel 2013. Donne di mare – sono quelle dell’arcipelago eoliano, viste non soltanto a fianco del marito e dei figli nell’esercizio quotidiano della pesca, ma protagoniste dirette e talvolta esclusive di tutto il ciclo produttivo legato al mare. Con la forza inedita del racconto orale, tanto efficace nel ricomporre il complesso mosaico della memoria locale, l’autrice ridisegna così questo scenario piuttosto insolito, quasi a voler sfatare assiomi fortemente consolidati nelle ricerche etnografiche del Meridione d’Italia. Un ricco corpus di voci, registrate dal vivo dalla studiosa e oggi conservate nel suo archivio sonoro, ricostruiscono la vicenda esemplare di queste pescatrici dei primi decenni del Novecento, impegnate tanto quanto l’uomo ad affrontare venti e tempeste marine, nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. La ragione principale di un coinvolgimento così attivo, imponente e massiccio delle donne a mare, è data certamente dalla miseria di quel tempo, che richiedeva il ricorso a più braccia lavoro alla ricerca di ogni mezzo di sostentamento. Una situazione che di fatto è rimasta inalterata, senza significative variazioni, fino al secondo dopoguerra, quando l’onda della modernizzazione ha iniziato gradualmente a stravolgere l’identità culturale di quelle Isole, nel segno del turismo.  Fino a quel momento la vita delle comunità è stata contrassegnata da una doppia cultura, agricola e marinara, la prima dispiegandosi nell’arco della giornata, la seconda di notte. In entrambi i casi, la donna eoliana è stata impegnata in modo attivo e costante, in tutte le fasi dei diversi cicli produttivi: sui campi a coltivare la vigna per l’uva passolina, i capperi, le olive,  destreggiandosi, se necessario, in lungo e largo, dall’alto in basso, su tutta la superficie, con i suoi progressivi dislivelli e terrazzamenti, anche solo per “fare erba”, in un territorio impervio, difficile, soggetto a eruzioni vulcaniche e movimenti sismici. Così anche a mare, di notte, quando si racconta di equipaggi tutti femminili, allontanarsi dalle coste, su piccoli gozzi  a forza di braccia e dei remi, nel caso in cui il “demone” della bonaccia fa calare le reti.

 Alicudi, di L.Salvatore d'Austria (1893)

Alicudi, di L.Salvatore d’Austria (1893)

Figlie di Glauco –  le chiama l’autrice – esperte nell’orientarsi al buio durante la navigazione, sulla scia delle stelle e nell’uso di tecniche rudimentali di pesca come il volantino (cuoppu) o le nasse, ma anche nelle attività più faticose come il tirare la sciàbbica (rete dalle grandi dimensioni) da terra o nella pesca d’altura del pesce spada. In tutti i casi, inaspettatamente, la donna eoliana ricopre, con o senza l’uomo, tutti gli interventi del lavoro a mare: da quelli preliminari, sistemazione delle reti, pulizia delle imbarcazioni, a quelli finali della vendita e commercializzazione del pescato. Preziose testimonianze ripercorrono i “viaggi” di queste pescatrici, anche fuori dalle acque dell’arcipelago, fino ai porti di Milazzo e Messina, Palermo, Napoli, Salerno: occasioni di incontri, di scambi, finalizzati non soltanto alla vendita del pescato, ma anche dei prodotti della terra, e dell’attività conserviera. Le panaraddesi (native di Panarea), vengono qui ricordate con un certo sospetto dagli uomini più anziani del luogo, talvolta associandole simbolicamente alle streghe che viaggiano di notte sulle scope; ma anche con ammirazione, per via di quella sicurezza a mare dovuta al possesso di solide competenze.

Due mestieri quindi, quello della terra e quello del mare, che si alternano, si sovrappongono, si completano a vicenda: suppliscono in qualche modo la precarietà delle risorse. D’altra parte, come ricorda Braudel, il mare del Mediterraneo è stato sempre trattato allo stesso modo della terra: il pescatore artigiano, non vive solo sulla sua barca, tra lenze e reti, è anche un contadino esperto, che coltiva il proprio orto (1987:35). Alla base di questa organizzazione sociale vi è una solida concezione della famiglia e del vicinato che mette in atto costantemente una rete di relazioni comunitarie di scambi e prestazioni reciproche: un sistema fluido, plurifunzionale, in cui diversi ruoli vengono all’occorrenza riproposti e messi in atto senza distinzione d’età o di sesso.

2La famiglia, come altrove nella Sicilia tradizionale, è stata per secoli un meccanismo compensativo della povertà, dove la prole numerosa ha costituito conditio sine qua non del perpetuarsi della vita in generale. La donna, in tale quadro di riferimento, ha concentrato su di sè una pluralità di ruoli, domestici ed extra domestici: riproduzione della specie e allevamento dei figli, produzione di beni e scambi. In questo senso va riconsiderata la gestazione non come un periodo isolato nell’orizzonte esistenziale femminile, ma ripetuto nel  tempo, che per questo non poteva certo costituire un impedimento all’attività lavorativa. Diverse testimonianze riportate nel volume ricordano nascite avvenute sulla battigia, dopo il rientro dalla pesca, a volte finite tragicamente. Ma alle donne, officianti e custodi di un patrimonio di saperi culinari, è demandato anche il potere della nutrizione, che ricrea tacitamente  le condizioni per la riproduzione e il mantenimento della forza lavoro. Quel cibo ancora caldo come il pane, preparato dalle mogli e consegnato ai propri uomini sulla barca, ben custodito dentro fagotti per il trasporto a mare, sancisce la forza del nucleo familiare, creando un ponte ideale e rassicurante fra la dimensione affettiva della sfera domestica e le intemperie della vita di mare. Eloquenti restano, a questo proposito, quelle pagine che rievocano la pesca delle tartarughe, prima delle leggi di tutela della specie, catturate direttamente in acqua dalle mani femminili e portate a casa per trasformarle, dopo un meticoloso trattamento, preludio alla cottura, in cibo della festa.

3Una storia tutta al femminile, riproposta attraverso i vissuti e le esperienze narrate, che ora restituisce dignità alle donne, assegnando loro la giusta collocazione nella comunità isolana, prima ancora che venga definitivamente dimenticata. Non si tratta di ribadire una nuova supremazia femminile sull’uomo, ma solo di rivedere quella posizione di subalternità su cui si è tanto insistito, senza per questo giungere a conclusioni frettolose e generalizzanti. Storie di vita individuali che si intersecano con la memoria collettiva dei luoghi e pongono nuovamente in discussione alcuni stereotipi antichi e ormai assodati sul maschile e femminile. È la forza di questi ricordi da parte degli ultimi informatori viventi ad imporre nuove riflessioni, finora trascurate dalla storiografia ufficiale, suggerendo implicitamente un confronto fra le diverse forme di sapere, quelle scritte e quelle orali.

In questo senso storia e antropologia dovranno necessariamente dialogare, in un rapporto complementare, come sostiene Pietro Clemente, perché è l’antropologo che, osservando l’alterità e registrando le storie di vita dei propri informatori, potrà comprendere l’interazione fra diversi soggetti, arrivando  a conclusioni sensate, sempre aperte e reinterpretabili. Laddove l’uso del documento scritto si rivela inadeguato, è proprio la fonte orale a rivelare nuove prospettive: «la verità è che la storia non potrà mai offrirci quello che i racconti di vita ci offrono: una cultura vista dall’interno, da parte di chi l’ha vissuta e ce la racconta» (Clemente 2001: 29-49).

Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014
Riferimenti bibliografici
Braudel  Fernand, 1987,  Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Milano, Bompiani
Buttitta Ignazio, E.2009,  Campi di sale, messi di pesci, in Id., Feste e lavoro nella Sicilia del mare, Palermo
Clemente Pietro, 2001, Scrivere di sé tra dolore e pudore: storie di donne, di uomini, di generazioni, in Griselda. Tra memoria e scrittura, Firenze, Olschki.
La Cecla Franco, 1993,  Mente locale. Per un’antropologia dell’abitare, Milano, Elèuthera
 Matvejević Predrag, 2004,  Breviario Mediterraneo, pref. C. Magris, Milano, Garzanti
Mondardini Morelli Gabriella, 2006, Fra tradizione locale e promozione turistica: i saperi delle donne e lo sviluppo turistico dei centri costieri, in L. Rami Ceci (a cura di), Turismo e sostenibilità, pref. A. Buttitta, Roma, Armando
Signorelli Amalia, 1989,  Cultura popolare, memoria storica, lavoro, in L. Mazzacane (a cura di), La cultura del mare in area flegrea, Roma-Bari, Laterza
Thompson Paul, 1990, Il potere nel privato. Variazioni esplicative nelle comunità marittime, in «La Ricerca Folklorica» n. 21: 229-240
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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006) e Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011).

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