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Il grammelot di Dario Fo, nel teatro come nella vita

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Dario Fo, Mistero buffo (Archivio Rame-Fo)

di Alessio Arena

Nel Nord Italia, e in particolare in Veneto, il teatro popolare rivestiva un ruolo sociale di fondamentale importanza, contribuendo a rendere consapevoli i ceti più umili dell’influenza determinante che avevano i rappresentanti del potere sulle vite degli “ultimi”. In quelle regioni, i grandi protagonisti della scena teatrale del Cinquecento ritenevano fondamentale cercare un dialogo con le masse popolari illetterate, avendo cura quindi di utilizzare un linguaggio assolutamente comprensibile. La prima accortezza, dunque, riguardava la lingua.

Il dialetto costituiva lo strumento indispensabile per stabilire un’intesa con il pubblico disordinato che si radunava in piazza, incuriosito dall’allestimento dei teatranti. Angelo Beolco, detto Ruzante, dal nome di uno dei suoi personaggi più amati, fu uno dei maggiori esponenti delle rappresentazioni popolari e segnò in maniera indelebile la storia del teatro italiano, influenzando fino alla contemporaneità i suoi grandi protagonisti. La lingua usata da Ruzante si basava sul pavano, la varietà cinquecentesca del dialetto veneto parlato a Padova. L’uso del dialetto in questo particolare contesto non era motivato unicamente dalla necessità dei teatranti di rendersi comprensibili a tutti, ma anche dalla volontà di mandare un chiaro messaggio politico ai detentori del potere che opprimevano quotidianamente, in modi diversi, le masse popolari. Non era neppure, come hanno ipotizzato alcuni, una soluzione strategica per evitare la dura censura che colpiva chi, nel Cinquecento, si scagliava contro il potere in ambito artistico. Al contrario, il ricorso alla lingua dialettale costituiva una forma di resistenza ai potenti: un rifiuto esplicito e provocatorio della lingua che questi ultimi utilizzavano come primo strumento di oppressione del popolo.

Alla luce di questo presupposto, risulta evidente il ruolo fondamentale rivestito in ambito culturale e sociale da Ruzante, nel suo contesto storico. Il popolo che, accorso in piazza, aveva la possibilità di assistere ai suoi spettacoli, si riconosceva nei personaggi e acquisiva consapevolezza della propria condizione sociale e delle oppressioni subìte ad opera dei rappresentanti del potere. Il teatro di Ruzante era dunque estremamente politico: attraverso la messa in scena di situazioni assolutamente paradossali ed ironiche, sceglieva il prototipo dell’uomo comune come protagonista indiscusso. I comici dell’arte fecero tesoro delle innovazioni che Ruzante apportò alla commedia classica italiana, dando inizio a una nuova tradizione che segnò nel profondo la storia del teatro contemporaneo, anche attraverso un connubio assolutamente inedito tra sema e fonema nel linguaggio teatrale.

A proposito del teatro di Ruzante e di come questi fosse abile nel farsi narratore consapevole del proprio tempo, Mario Baratto ha scritto:

 «Un mondo elementare, potremmo dire di natura, la cui storia teatrale è minima ed è soprattutto irrigidita in schemi precisi, si esprime, a tutti i livelli – linguistico, gestuale, tipologico, contestuale – in modo relativamente monotono, per eccellenza ripetitivo» (Baratto, 1990: 38).

1-ruzzanteIn questa definizione si riconoscono tutti gli elementi peculiari della grande tradizione della commedia italiana, che Ruzante ha innovato, restituendo all’uomo, purificato da ogni superflua sovrastruttura sociale, il suo ruolo da protagonista. Da qui non stupisce riconoscere in Ruzante il modello di riferimento di Dario Fo, insignito del premio Nobel per la Letteratura nel 1997 per aver «fustigato il potere e riabilitato la dignità degli umiliati» [1]. Fo apprese dal “maestro” Beolco l’uso rivoluzionario e sapiente della lingua in ambito teatrale, portando in scena dei dialoghi o monologhi in grammelot, ovvero quella lingua foneticamente verosimile, ma in realtà priva di significato, frutto della commistione di onomatopee e suoni propri di lingue e dialetti caratteristici dell’Italia settentrionale e, in alcune occasioni, dei Paesi d’oltralpe.

Fo e la moglie, Franca Rame, partecipavano di fatto, nella veste di esponenti del teatro, al dibattito politico che caratterizzava l’Italia del secondo dopoguerra. Le abilità recitative della coppia, combinate con la tradizione artistica della famiglia Rame e le straordinarie doti mimiche e filologiche di Dario Fo, resero possibile l’istituzione di un teatro d’inchiesta che si faceva espressione consapevole delle tensioni culturali e sociali che caratterizzavano la contemporaneità in cui Fo e Rame vivevano.

In tale accezione, il grammelot diventava uno straordinario strumento di espressione culturale e di affermazione politica, oltre che un interessante fenomeno di sperimentazione teatrale e linguistica, coerentemente con la tradizione cinquecentesca. La componente mimica completava le lacune lasciate dal grammelot sul piano strettamente semantico, esplicando il significato del discorso pronunciato attraverso l’uso della lingua “incomprensibile”. È appena il caso di precisare quale valore semantico abbia il corpo nella grammatica teatrale, quale potenza espressiva abbia il gesto nella comunicazione testuale. Il linguaggio mimico in teatro si articola, infatti, in parallelo rispetto a quello verbale, riplasmandolo e arricchendolo. Il risultato era la perfetta comprensione del discorso, nonostante la totale assenza di parole o segmenti dotati di vero e proprio significato (Arena, 2018).

3A proposito del grammelot in Francia, Dario Fo disse: «[…] il grammelot si può dire che l’abbiano inventato loro, pur ispirandosi al linguaggio recitato dei nostri comici dell’arte quando arrivarono in Francia quattro secoli fa» (Fo-Rame, 2015: 180).

Fo e Rame erano abilissimi, infatti, a riprendere le sonorità proprie della fonetica della lingua francese nei loro grammelot, contaminandole opportunamente con quelle dei dialetti settentrionali. I comici dell’arte, a cui Fo fece riferimento, sapevano utilizzare allo stesso modo l’aspetto fonetico della lingua, facendone un’arma gentile da opporre alle costrizioni dei potenti, senza ricorrere necessariamente ad attacchi diretti ed espliciti. Questo scrupolo non riguardò mai in alcun modo gli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame che, al contrario, furono sempre politicamente aggressivi, poiché i due autori intendevano il teatro proprio come strumento utile a indagare e vanificare le strategie ordite dai potenti ai danni degli ultimi.

In un manoscritto conservato al MusALab – Museo Archivio Laboratorio Franca Rame Dario Fo, Fo ha annotato che il grammelot è una lingua «inventata ogni volta! Che non può essere per sua natura omologata, stabilita, racchiusa in regole o metope». Fo citava Marx che riteneva che il linguaggio costituisce il primo potere. In virtù di questo assunto, sosteneva che ogni classe sociale egemone ha cura di imporre lessico e grammatica ai sottoposti, al fine di gettare le fondamenta del proprio potere politico. Fo riteneva che tali regole vengono presentate dal potere all’interno della società come “sacre”, “dogmatiche” e, dunque, assolutamente intoccabili. Nessuno può permettersi di mettere in discussione il linguaggio scelto dal potere.

Dario Fo fece riferimento a un poeta provenzale del Quattrocento, Marty, che, mettendosi al servizio del potere, spronava i propri contemporanei a inserire nel volgare parole con radice greca e latina «in modo che il popolo, al quale abbiamo preso il parlare, non riconosca più la propria lingua tanto da sentirsi straniero e succube di questa sua nuova ignoranza». Come spiega l’attore, questo processo era detto “annodamento del verso”, intendendo quest’ultimo come sinonimo di “discorso”. Alla luce di questo, Fo riteneva che il grammelot fosse «il teatro puro», poiché mutava ad ogni messa in scena. Chi porta in scena un grammelot può fare riferimento non solo alla propria lingua, ma anche a lingue straniere che il pubblico può riconoscere attraverso la replica di alcune peculiarità fonetiche facilmente riconducibili ad esse.

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Dario Fo e Franca Rame

A proposito di ciò, Fo riassume questo insieme di suoni immediatamente attribuibili nel termine “canto”, poiché venivano riprese melodie e cadenze, combinandole in maniera armoniosa e, dunque, verosimile. Fo fece, inoltre, riferimento a un patrimonio di canovacci, raccolti da Vito Pandolfi, che testimoniano le modalità attraverso cui venivano articolati i racconti in grammelot. Uno di questi, detto Dello Zanni e della sua fame, riporta la storia più antica pervenutaci in grammelot. Fo spiega che gli zanni erano in origine i facchini che lavoravano nei porti di Genova e di Venezia. La maggior parte di essi era formata da contadini padani, provenienti dalle campagne di Bergamo, Cremona e dalle valli vicine. La crisi che aveva investito l’attività economica di chi viveva del frutto del proprio lavoro impose ai contadini di abbandonare le loro terre, trovando impiego nelle città, accettando anche mansioni estremamente umilianti e faticose. Questo è, dunque, il caso degli zanni, ovvero i servitori che diventarono, nella commedia dell’arte, gli attori e i motori della narrazione, al pari del servus currens della commedia latina.

Fo scrive che nel 1525 gli zanni morivano di fame in massa. In Dello Zanni e della sua fame si ritrovano suoni tipici della fonetica bergamasca e cremonese. Lo zanni si cimenta in una elaborata e iperbolica descrizione della fame che lo attanaglia. Afferma, come riporta Fo, di essere disposto a mangiare sé stesso, pur di mettere fine ai propri tormenti. Spiega, inoltre, che vorrebbe divorare gatti, cose, il pubblico stesso e forse anche Dio che «buon per lui […] se ne sta lontano nel regno dei cieli». Inoltre, lo zanni immagina di essere un cuoco e descrive il pasto straordinario che vorrebbe preparare, arrivando a divorare persino le pentole e i mestoli. Infine, il povero affamato si risveglia dal proprio sogno, afferra una mosca che lo tormenta e la mangia, come se fosse la migliore delle prelibatezze.

A proposito delle sue origini, Fo ha affermato l’universalità del grammelot, andando oltre il fenomeno strettamente linguistico e culturale e superando il focus sull’Italia Settentrionale. Scrisse, infatti:

 «Il grammelot esiste da sempre. Lo inventano i bambini prima ancora di imparare ad articolare parole e frasi logiche. Lo inventano in tutti i popoli, in tutte le epoche nelle loro tiritere senza senso comune, durante i giochi».
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
 Note
[1] “The Nobel Prize in Literature 1997”. Nobelprize.org. Nobel Media AB 2014. Web. 4 Mar 2018. http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/literature/laureates/1997/.
 Riferimenti bibliografici
 Alessio Arena, Il mondo a ribaltone. Il teatro nel gesto di Dario Fo, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018.
 Mario Baratto, Da Ruzante a Pirandello, Napoli, Liguori Editore, 1990.
Dario Fo, Teatro, Torino, Einaudi, 2000.
Id., Conferenza buffa sulla Commedia dellArte. Una riflessione di Dario Fo, in “Casola è una favola”, 7 agosto 1986.
 Dario Fo – Franca Rame, Nuovo manuale minimo dellattore, Milano, Chiarelettere, 2015.
 Id., Cinquant’anni di storia italiana attraverso il teatro, Viareggio, Baroni, 2002.
 Ferruccio Marotti – Giovanna Romei, La professione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969.
 Angelo Ruzante, Teatro, Torino, Einaudi, 1969.
Ferdinando Taviani, La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni,1991.
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Alessio Arena, laureato in Lettere presso l’Università di Palermo, è autore di poesie e numerosi studi. Ha ricevuto il Premio Internazionale «Salvatore Quasimodo», il Premio «Virgilio Giordano» e il Premio Italia Giovane. È curatore della rubrica di cultura italiana «La biblioteca di Babele» per la Radio Nazionale Argentina e Ambasciatore del C. P. per il Club per l’Unesco di Matera del progetto «Distributori di poesia».

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