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Il fascino dell’altrove
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:19 In Letture,Società | No Comments
Questo libro parla di viaggiatori, e degli sguardi che essi dispiegano nel loro viaggiare. Quelli presenti nel volume (ben centonovantacinque!) sono però per noi viaggiatori di particolare interesse. I loro viaggi li hanno infatti condotti a visitare la città di Messina, e il loro incontro con questo luogo e con la gente che lo abitava ha prodotto impressioni, descrizioni, forme scritturali più o meno appassionate e appassionanti, di viandanti che hanno – in un determinato momento della loro vita – confrontato il proprio sé con una realtà spesso assai distante da quella nella quale essi erano nati e cresciuti. E i loro resoconti, tutti interessanti e spesso contraddittori l’uno rispetto all’altro come si conviene a testimoni oculari che del medesimo evento rendano testimonianze diverse e a volte opposte, costituiscono un caleidoscopio variegato che nel suo complesso fornisce un’immagine della città a tutto tondo, rischiarando e focalizzando una scrittura ciò che le altre omettono o occultano. Da tale provvisorio ma cruciale melting pot di visitanti e visitati scaturisce un mosaico di sguardi che ci restituisce un quadro di Messina che può riservare molte sorprese a chi di essa abbia finora coltivato una visione statica o riposante.
Il volume testimonia di uno sforzo davvero ammirevole di fornire ai lettori materiali nuovi di conoscenza e riflessione su Messina, e lo fa in maniera organica e coordinata, dai due sapidi saggi iniziali di Gerardo Rizzo e di Giuseppe Ruggeri, rispettivamente dedicati alla storia plurimillenaria della città e alla sua sofferta identità, al lavoro certosino di Felice Irrera, che per anni – presumo – ha pazientemente collazionato pagine di viaggio note e meno note (e moltissime sono quelle assai poco conosciute) che articolano a ventaglio una straordinaria pluralità di sguardi privilegiati sulla città e i suoi abitanti.
Il viaggio è lo spostamento nello spazio di uomini, singoli o in gruppo, che intendono conoscere luoghi diversi dal proprio e genti diverse dalla propria. Come tale è un topos che accompagna l’uomo sin dalla sua presenza sulla terra, avendo contribuito potentemente a contrassegnare le fasi più cruciali e significative della sua storia. Da che mondo è mondo, il viaggio è stato sempre percepito, in ogni tempo e sotto qualunque latitudine, come un’azione che poteva al contempo trovare il suo svolgimento tanto sotto un profilo realistico quanto sotto un profilo simbolico. Si viaggiava (e si viaggia ancor oggi) per spostarsi concretamente da un luogo all’altro muovendosi lungo i territori esteriori del nostro pianeta (e, nel futuro, attraverso gli spazi infiniti del cosmo); si viaggiava e si viaggia ancor oggi lungo i territori dell’interiorità dell’uomo, assumendo in tal caso il viaggio e il viaggiare come metafora complessiva della vita stessa. In entrambe le accezioni, a ben riflettere, la dimensione simbolica si rivela essere quella pregnante, laddove si consideri che ogni spostamento fisico avviene in un tempo (il tempo del viaggio o durata) e che tale durata sortisce sempre mutamenti nei sistemi percettivi e di rappresentazione di chi quel viaggio compie.
Ove poi si consideri che durante il viaggio accade di incontrare altri simili, e con loro le realtà materiali (case, città, monumenti, opere, manufatti …) o immateriali (modelli di cultura, credenze, fantasie, usi e costumi, sogni …) da essi prodotte, allora apparirà chiaro che viaggiare è sempre, se ne sia consapevoli o meno, un fatto antropologico. Intanto perché tale attività è una costante dell’essere umano (una costante esclusiva, se si prende in considerazione la fattispecie non utilitaristica del viaggio), trovandosene traccia in ogni epoca della sua plurimillenaria storia. In secondo luogo per il fatto che tale attività costituisce il primo presupposto, tanto teorico quanto epistemologico, per qualunque antropologia possibile. Poiché l’antropologia è, sostanzialmente, uno sguardo (più o meno reciproco) tra angoli di mondo, è chiaro che i viaggi sono stati storicamente il veicolo eminente perché si determinassero incontri tra culture diverse e, parimenti, perché qualunque analisi antropologica non possa partire che dalla condizione di “spaesamento” determinata da un’esperienza di viaggio (poco importa se condotta nella dimensione spaziale come nell’etnografia o in quella temporale come nella storiografia).
Dalle forme realistiche di viaggio quali il viaggio profano e il turismo del flaneur (gli autori presenti in questo volume), il viaggio sacro e i pellegrinaggi, il viaggio per necessità (nomadismo, emigrazione, diaspora), il viaggio antropologico e l’incontro etnografico (Lévi-Strauss, de Martino, Metraux, Malinowski, Leiris etc.) a quelle simboliche, quali il viaggio magico-sciamanico o il viaggio nella memoria (Proust), il cuore del viaggiare rimane sempre lo stesso, il mutamento. Viaggiare nello spazio o nell’interiorità è sempre in qualche misura viaggiare nel tempo.
Il viaggio dunque, perché sortisca esiti significativi in chi lo compie, deve prevedere il momento della conoscenza, che consiste nell’interazione con la realtà nuova che esso progressivamente gli dischiude, e al contempo dell’esperienza dei simili e delle realtà che nel suo viaggiare egli incontrerà. Conoscenza ed esperienza, laddove praticate con un sufficiente grado di consapevolezza, determinano quasi sempre interessanti processi di relativizzazione dei propri modelli culturali, accompagnati dalla scoperta che, al di là delle proprie modalità di organizzare l’esistenza, esistono svariati altri “modi di vita” che travalicano orizzonti naturali, culturali e simbolici fino ad allora ritenuti esclusivi.
Scriveva Marcel Proust che il vero viaggio di scoperta non consiste nello scoprire nuovi luoghi ma nel dispiegare nuovi sguardi. E Thomas Stearns Eliot nei suoi Four Quartets ci ha consegnato l’intima natura di ogni peregrinare: «We shall not cease from exploration / And the end of all our exploring / Will be to arrive where we started / And know the place for the first time» («Non smetteremo di esplorare / e la fine di ogni nostro andare / sarà il tornare là dove siamo partiti / e conoscere quel luogo per la prima volta»).
Il filosofo Paul Ricoeur, che sviluppa un’intuizione già di Hegel, ci insegna che l’alterità ricopre un ruolo primario nel processo di costituzione del sé. Secondo tale prospettiva ermeneutica ciò che chiamiamo “io” è una realtà costitutivamente decentrata da sé, la cui identità si viene faticosamente costruendo attraverso un laborioso riconoscimento in sé delle molteplici tracce dell’altro. In modo non differente, i moderni studi di psicologia riconoscono l’importanza dello sguardo dell’altro nella costruzione del sé. Alla luce di tale assunto noi non potremmo avanzare tentativi di definizione del genius loci di Messina se non attraverso la conoscenza degli sguardi che su di essa si sono rivolti nel corso dei millenni. Ciò ci consentirebbe forse di liberare una volta per tutte la nostra percezione di questa città dalla camicia di Nesso, invero assai provinciale, di un’identità sognata giocata sull’accumulo di “caratteri” e “geni” che ci ha fatto comodo considerare reali ma che vengono contraddetti laddove si esercitino uno sguardo e una valutazione non conformisti della realtà. È infatti indubbio che vedersi attraverso gli occhi degli altri comporti, in qualche modo, il rischio di esporsi a un oltraggio delle proprie memorie (che lo sguardo altrui non sempre è in grado di cogliere), ma è altrettanto vero che tale esercizio, pur rivelandosi ingrato e doloroso, alla lunga mette in libertà risorse di pensiero che erano rimaste imprigionate nel cerchio magico dell’autoreferenzialità e dell’orgogliosa, a volte grottesca, rappresentazione di sé.
Da Ulisse agli Argonauti, via via sino all’esplorazione del nuovo mondo, e poi al settecentesco viaggio di formazione (Bildung), al viaggio etnografico con lo stupefatto incontro di umanità impartecipi delle rispettive culture e ai viaggi interstellari e telematici del nostro tempo, la storia ci mostra come si sia prodotta cultura, avanzamento nella coscienza diffusa del genere umano, ogni volta che l’incontro con l’alterità abbia sortito un ampliamento degli orizzonti ideologici, simbolici, esistenziali. Anche i viaggi letterari o cinematografici, da Jack Kerouac (On the road) a Stanley Kubrick (2001. A space Odissey), propongono percorsi al contempo fisici, interiori, mentali, spirituali. E tutti questi percorsi comportano un racconto. È assai stretto il nesso che lega il viaggio al racconto, dato che tutti i viaggiatori hanno sempre voluto lasciare sulla pagina scritta i propri resoconti e le proprie impressioni. Si viaggia anche per poter raccontare il proprio viaggio, questa sorta di fuga temporanea dalla domesticità per esperire luoghi diversi e diverse modalità di essere nel mondo.
I viaggiatori che nel ’700 invasero l’Italia, eleggendola a meta d’eccellenza del Grand Tour inventando al contempo una pratica turistica destinata a rivoluzionare il mondo contemporaneo, erano mossi dal desiderio di ritrovare in Italia, in specie nel Mezzogiorno e più in particolare in Sicilia, il pittoresco, un topos al contempo estetico, letterario, esistenziale da essi percepito come utile a fornire linfa nuova a contesti esperienziali tiepidi o estenuati come quelli disponibili nei loro Paesi d’origine. Di fatto, il loro viaggiare era pur sempre occupare spazi “altri” al fine di ricavarne relazioni, negoziazioni, discorsi.
Certo, non tutto quello che ci forniscono questi testimoni stranieri va preso per oro colato. Nei meccanismi di rappresentazione di una determinata realtà giocano sempre un ruolo non secondario le equazioni personali di chi quella realtà descrive e rappresenta, e quindi i modi di pensare, i pre-giudizi e le retoriche, i modelli culturali e i luoghi comuni. Molti viaggiatori, soprattutto gli stranieri, non riescono a sottrarsi a un esercizio dello sguardo di tipo “orientalistico” (per dirla con un termine mutuato da Edward Wadie Said), ossia proiettando sulla realtà percepita un giudizio cui sia in ultima analisi sottesa una qualche distinzione ontologica tra l’osservante e l’osservato.
Se il viaggio provoca una trasformazione in chi viaggia e visita, altrettanto avviene in chi è viaggiato e visitato. Gli sguardi dell’altro, anche se spesso dopo un lungo periodo come nel caso delle fonti presentate in questo volume, aprono squarci nuovi, dispiegano nuovi orizzonti in chi si vede conosciuto, descritto, rappresentato.
Come dunque è l’alterità che struttura il viaggio, è l’alterità che ne consolida gli esiti. Leggere per noi dei miti di fondazione di Messina così come essi apparvero ai lontani, o meno lontani nel tempo, esploratori delle nostra plaghe non può che sortire una lettura degli stessi che prenda le distanze da una letteralità che ha segnato a lungo la nostra (dico di noi Siciliani) percezione delle origini, se è vero che i resti ossei di ippopotami ed elefanti nani sono stati in passato assai spesso ritenuti appartenere ai mitici abitatori dei nostri siti. Da tale atteggiamento “demitizzante” scaturirà così una migliore consapevolezza della reale natura storica delle nostre realtà territoriali ed esistenziali, la quale non può che essere, vichianamente, «nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose».
In molti dei loro scritti i viaggiatori qui presenti indulgono ironicamente nella descrizione del variegato ventaglio di miti locali, il che soddisfaceva eviden- temente il desiderio di amplificazione fantasmatica delle proprie esperienze di viaggio, ponendo in essere strategie narrative incentrate sul meraviglioso, in ciò anticipando appunto l’orientalismo, un modello di esotismo artistico-letterario creato a tavolino a proprio uso e consumo.
Pierre Victorien Lottin De Duval nel 1836 adotta viceversa uno sguardo realistico, preconizzando profeticamente per Messina il vento rivoluzionario del 1847, inauguratore di fatto del Risorgimento italiano. E il viaggiatore Enault nel 1852 si interroga già sulla possibilità che un ponte unisca le due rive dello Stretto.
Quello che però colpisce particolarmente i viaggiatori è la straordinaria posizione del sito e la grande vivacità – direi “europea” – che ne connota l’economia:
Alcuni di essi si soffermano – quasi tutti con toni di ammirazione – sulle straordinarie peculiarità del paesaggio peloritano, altri sono colpiti dalle architetture e dalla configurazione urbanistica, altri ancora dai costumi ai loro occhi più o meno bizzarri (dalla prostituzione all’avvenenza delle monache e le loro frequenti fuitine ….), altri infine dai diversi aspetti della vita comunitaria, dagli eventi cerimoniali e rituali alle superstizioni, dalle istituzioni all’economia, dalla scienza ai terremoti …. Alcuni sono attirati dagli aspetti naturalistici del sito, altri ne mettono in luce la ricchezza monumentale, altri ancora sono piuttosto catturati dal brulicante campionario di umanità che là dipana le proprie giornate storiche. Si può affermare che ogni viaggiatore abbia tratto dall’unicum continuum della reale vita messinese nel suo svolgersi una serie di tableaux utili a ordinare quel materiale magmatico in una narrazione nella quale potesse lui stesso riconoscersi quale osservatore partecipante.
Da tale caratteristica deriva a mio parere la natura squisitamente antropologica di questi scritti. Dico antropologica ma dovrei aggiungere etico-civile. La descrizione della città e del porto di Messina, delle sue variegate, febbrili e fabrili attività ci consente di misurare la distanza siderale che intercorre tra una città laboriosa, se non opulenta, ricca di monumenti e urbanisticamente pregnante, e la Messina dei nostri giorni, piatta e volgare, che a motivo di scelte politico-amministrative sciagurate ha rimosso e definitivamente interrotto il naturale rapporto con il mare che ha costituito per millenni la sua più radicata vocazione.
Al netto delle venature orientalistiche, non possiamo perciò fare meno di emozionarci di fronte a una descrizione come quella di Sergej Tchakhotine, di poco più di un secolo fa:
Ultima considerazione che la lettura di queste testimonianze di viaggio mi ha suggerito è la necessità di un ripensamento critico del concetto di identità. Questa, nel comune sentire di gran parte della comunità messinese, è sempre stata indicata (almeno negli ultimi decenni) con un termine ritenuto evidentemente il più idoneo a rappresentarla. Tale termine è la cosiddetta messinesità.
Senonché, a giudicare da quanto Messina è riuscita ad esprimere in tema di società civile nel medesimo lasso di tempo, è probabile che tale termine, utilizzato per “costruire” una sorta di identità sognata, sia di fatto fuorviante e mistificante; fuorviante in quanto non esaurisce né racchiude alcun reale concetto di identità plausibile, suggerendone viceversa uno infarcito di luoghi comuni e di “mitologie”, in parte responsabili dello stato di degrado e di sostanziale sottosviluppo in cui si trova oggi la nostra città.
Perché mistificante, è presto detto. C’è un orgoglio campanilistico positivo e legittimo, laddove esso non perda contatto con la realtà e, soprattutto, susciti passione civile, voglia di partecipazione e desiderio di migliorare la qualità della vita propria e degli altri “compartecipi” dello stesso campanile. C’è poi una tipologia “distorta” di campanilismo, che per tenere lo sguardo sempre fisso sulla città sognata (i primati, le glorie passate, o anche le mitologie presenti) finisce quasi sempre per distoglierlo dalla città ferita, una città prigioniera di vizi antichi e nuovi e sempre in attesa di “liberatori” che puntualmente si rivelano pigri o distratti. Nel primo caso il senso di appartenenza sortisce dinamiche liberatorie, laddove nel secondo ha come esito la nascita, o il perpetuarsi, di gabbie mentali che scambiano la realtà con una sua narcotizzante rappresentazione.
Potremmo sostenere che a questa bella e sfortunata città siano dunque, di fatto, sottese due distinte “identità”: quella storica, derivante dal ruolo – a tratti prestigioso – che la città ha ricoperto nei secoli passati, costruita una generazione dopo l’altra da comunità laboriose, con forte senso di appartenenza, capaci di esprimere un “sentimento del tempo” che le poneva in grado di valutare il télos della città, di percepirne un genius loci condiviso; e quella vissuta nel nostro tempo, in cui la Vara si mescola al pesce stocco, allo scirocco e alla pignolata, ma anche al familismo amorale, alla mancanza di regole, alla cialtronaggine “buddace”.
Occorre forse, dunque, sbarazzarsi di questa presunta identità messinese, di questa messinesità che risuona spesso in bocca a giornalisti, politici, intellettuali (o sedicenti tali) che la adoperano quasi sempre come una chiave in grado di aprire tutte le porte (e sappiamo come una tale chiave sia sempre una chiave falsa!). E occorre forse iniziare a pensare a come poter costruire tutti insieme (molto pazientemente …) una messinitudine, un’identità cioè meno vistosa e più responsabile, meno chiassosa e più coerente, senza retorica e senza automobili in terza fila, senza consorterie e razzismi, con meno struggimenti nostalgici e un po’ pelosi verso un passato al quale di fatto non si è più in alcun modo ancorati e con più senso comunitario, impegno civile, coraggio di contare come cittadini, volontà di lavorare a progetti di bellezza, consapevolezza di non vivere nel migliore dei mondi possibili. Una messinitudine che si possa immaginare analoga alla saudade, un po’ fiera un po’ malinconica, in ogni caso mai disposta a contaminarsi con la furbizia e la volgarità.
Fuori da tale progetto di lucida autoanalisi motivata da una passione civile scevra di retorica, Messina dovrebbe coerentemente, per quelle che appaiono le sue tare attuali, essere percepita e valutata (alla stregua di quanto Goethe ebbe a dire di Napoli) come «un paradiso abitato da diavoli»!
Concludo. Sessant’anni or sono Claude Lévi-Strauss apriva il suo straordinario diario di viaggio (Tristes Tropiques) con un’affermazione a dir poco fuorviante: «odio i viaggi e i viaggiatori». Era l’addio – quasi un viatico – che questo antropologo rivolgeva al modello di viaggio romantico, quello alla ricerca di sé attraverso gli altri, ormai divenuto impossibile in un mondo cui il deciso accorciamento dei tempi di percorrenza aveva reso disponibili, quindi banali, distanze un tempo incolmabili e luoghi in precedenza ricchi di mistero e carichi di scoperte. E certamente negli ultimi cinquant’anni il viaggio ha visto fortemente declinare, quando non interamente smarrire, la sua natura di esperienza radicale. Alla luce di tale considerazione appaiono ancora carichi di fascino, pur nell’ingenuità di alcune pagine, gli scritti qui presentati, nei quali si coglie la condizione di un’umanità curiosa, ancora allo statu nascenti, che conserva l’invidiabile vantaggio di avere tutte le scoperte ancora dinanzi a sé, il mondo intero ancora pronto a dischiudersi al proprio sguardo. Ulteriore merito di questo volume è dunque quello di rivelare, attraverso il prisma variegato di tanti viaggiatori, lo straordinario crogiolo di culture che fu l’angolo di mondo chiamato Messina.
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