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Il dramma del Coronavirus ci renderà migliori?

Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 01:27 In Attualità,Cultura | No Comments

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Los Angeles, Street art (ph. Mario Tama)

dialoghi intorno al virus

13 aprile

di Antonino Cangemi

In questi giorni di emergenza Covid-19 in cui la vita di ciascuno di noi rimane in uno stato di sospensione, quasi mutilata, per le restrizioni derivanti dalle severe regole di distanziamento sociale, della componente relazionale, non possiamo non chiederci che cosa accadrà quando si tornerà all’ordinaria quotidianità.

Gli interrogativi sono tanti e tante le possibili e differenti risposte. Innanzitutto, se si riconosce che la situazione surreale e di collettiva angoscia in cui si è coinvolti racchiude vari motivi su cui riflettere e da cui trarre insegnamenti, è lecito porsi una domanda di fondo: il dramma del Coronavirus ci renderà migliori? Domanda che ripropone la più classica e ricorrente: la storia è davvero maestra di vita? A essa tanti autori di aforismi rispondono con scetticismo e ironia, se non addirittura con una chiara negazione. Così anche il premio Nobel Elias Canetti: ‹‹La storia ci insegna che dalla storia non c’è niente da imparare››.

Messo da parte un pessimismo giustificato dall’andamento della storia (è un dato di fatto che le sue tragedie, le grandi guerre prime tra tutte, non hanno suggerito all’umanità correttivi, o comunque correttivi significativi, a modus vivendi connaturati alla sua indole), non si dovrebbe dubitare su un punto: l’emergenza Covid-19 produrrà degli effetti di natura antropologica. È però difficile prevedere quali.

Per mesi si è sperimentata una vita priva di contatti immediati con gli altri. L’altro è diventato un soggetto da temere, un possibile portatore e trasmettitore del virus. Abbiamo imparato a guardarlo con sospetto e diffidenza. Quella diffidenza che prima veniva confinata alle minoranze (immigrati di colore, labili di mente, omosessuali), adesso si è estesa alla maggioranza. Quando il Covid-19 sarà soltanto un ricordo (e occorrerà più di quanto si immagini perché è ragionevole presumere che la ripresa avverrà lentamente e per gradi) di questa diffidenza generalizzata rimarranno strascichi nei comportamenti sociali? La nostra cerchia di relazioni sociali tenderà a restringersi? Si cercheranno e si frequenteranno meno amici, si allacceranno meno contatti, ci si chiuderà maggiormente in se stessi e negli ambiti ristretti dei propri nuclei familiari e delle limitate conoscenze fidate?

È questa un’ipotesi, per quanto non gradevole, che va presa in considerazione: l’isolamento forzato dei giorni del Covid-19 consegna all’umanità un modello di vita nel quale sul bisogno di socialità prevale il timore del prossimo sino al punto di circoscrivere, o ridurre all’essenziale, le attività che necessitano dell’interazione diretta con gli altri. Dovesse verificarsi ciò, l’informatica e in genere la tecnologia sarebbero poste al servizio del distanziamento sociale: lo smart working, ad esempio, si affinerebbe e diffonderebbe non tanto per rendere più agevole il lavoro di chi ha problemi di salute o deve accudire figli piccoli ma per limitare i contatti diretti, tantissime attività che oggi postulano la presenza fisica degli altri potranno esercitarsi prescindendone, con l’ausilio di potenti strumenti meccanici.

Ma potrebbe verificarsi il contrario, ed è ciò che ci si auspica: che il lungo tempo passato in quarantena scateni nell’uomo, tornato “libero”, le proprie inclinazioni sociali, le faccia riemergere dopo il lungo letargo. Dopotutto l’uomo è un animale sociale, ha bisogno degli altri, la solitudine è una condizione alla quale è costretto ma che contrasta con la sua natura. In tal caso si dilaterebbero i confini della vita sociale, ci si incontrerebbe di più, si rivaluterebbe l’importanza delle relazioni; anche la vita culturale, intesa in senso lato, si intensificherebbe: si scoprirebbe, più di prima, il piacere di gustare con gli altri la visione di un film e le sale cinematografiche si riempirebbero, si ripopolerebbero i teatri, si incrementerebbero i luoghi di discussione e confronto.

Se questa fosse la risposta alla lunga prigionia causata dal Covid-19, si andrebbe nella direzione di quella che Virgilio Titone definì la «società della conversazione», alla quale lo storico e umanista castelvetranese contrapponeva la «società del silenzio»: una società incline al dialogo, al confronto, all’apertura mentale, la più fertile per il progresso scientifico, per la creatività artistica e per la stessa economia. L’informatica, la più rilevante innovazione dei nostri tempi, non mirerebbe a contenere le relazioni umane ma li favorirebbe; i social media non sostituirebbero i contatti diretti ma, utilizzati con parsimonia e intelligenza, li rivitalizzerebbero.

Altro interrogativo da porsi: la globalizzazione, intesa nei suoi aspetti positivi, subirà una brusca frenata? La società moderna è stata sinora una società sempre più globalizzata, e il dilagare del Covid-19 in tutti i Paesi del mondo – un’autentica pandemia – lo testimonia. Le relazioni commerciali si estendono tra i diversi continenti e, allo stesso modo, quelle politiche, sociali, culturali e scientifiche. Ci si sposta con assiduità e frequenza da un Paese a un altro, per lavoro, per diletto, per quella sete di conoscenza connaturata all’uomo (celebre quanto veritiero il monito dell’Ulisse dantesco: «Fatti non foste per vivere come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza».

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Indonesia, street Art, (ph. Raharjo, afp)

La pandemia del Coronavirus ha chiuso le frontiere. Quando potranno riaprirsi e si potrà viaggiare senza rischi, tornerà tutto come prima? Oppure gli Stati si chiuderanno in se stessi, si restringeranno le relazioni internazionali, si potenzieranno i “nazionalismi” e l’autarchia? Se ciò dovesse accadere, ci troveremmo dinanzi a un’inversione di tendenza innaturale con riflessi negativi non marginali sul progresso e sull’evoluzione dei consorzi umani: si registrerebbe un progressivo impoverimento in tutto il mondo, sia sotto il profilo economico che politico, sociale, culturale e scientifico. Peraltro proprio il dramma collettivo del Covid-19 reclama una maggiore cooperazione tra i popoli. Limitandoci a un solo ma significativo esempio, la ricerca del vaccino e del farmaco antidoti al virus vede impegnati le comunità scientifiche di tanti Paesi di diversi continenti e grazie all’interlocuzione tra di essi, non ostacolata da barriere ideologiche o da irragionevoli rivalità, si potrà trovare la risposta più congrua. Senza contare che, in un mondo diviso, i Paesi più poveri diventeranno ancora più poveri e quelli più ricchi ancora più ricchi, accentuandosi quel divario già oggi abbastanza marcato; lo stesso vale per il progresso tecnologico di cui potranno beneficiare i Paesi più avanzati senza esportarlo in quelli più arretrati.

Nel dopo Coronavirus ci sarà maggiore o minore solidarietà tra i popoli e, in genere, tra gli uomini? Le risposte delle istituzioni dell’Unione Europea alle richieste dei Paesi più colpiti dal virus non alimentano ottimismo. L’Unione Europea tentenna e si trincera dietro l’affermazione di princìpi economici che oggi più che mai risultano astratti e, nella sostanza, difende (o crede di difendere) gli interessi degli Stati economicamente più forti. Si è di fronte, a mio avviso, a posizioni miopi, di chi non riesce a vedere oltre la soglia, di soggetti in cui manca quello sguardo prospettico che sa proiettarsi oltre il presente. La solidarietà è la forza generata dall’unione di più debolezze e, oltre che eticamente rilevante, è incisiva nell’economia. Tanto più nell’economia di Paesi che hanno stretto un legame in vista di un fine comune. Se il più forte aiuta il più debole lo fa anche nel suo interesse, specie quando entrambi fanno parte di uno stesso organismo.

Diversi segnali positivi arrivano invece dall’Italia, dove a fronte dell’emergenza sono state promosse tante iniziative di solidarietà capitanate da varie categorie. L’avere vissuto un dramma comune che ha mietuto vittime e ci ha costretto a rinunciare ad alcune libertà, anche fondamentali, ci farà capire il valore non solo morale della solidarietà, del soccorso reciproco, dell’aiuto a chi versa in una condizione più infelice, o, al contrario, si consolideranno i nostri egoismi? Per quel che riguarda la politica dell’Unione Europea e l’Europa in genere, va fatta una considerazione. Il Covid-19 è stato paragonato a una guerra, e come la guerra ha causato morti, angosce, sacrifici economici, misure cautelative di salvaguardia dell’integrità fisica. Quando la guerra finisce si contano i morti e i feriti, si fanno i bilanci. Non c’è guerra, infatti, che non si concluda con vincitori e vinti. Se il Covid-19 è come una guerra, sconfitta la pandemia, si può prevedere un nuovo assetto della geografia politica. Gli equilibri tra le potenze mondiali cambieranno e se l’Europa si ostinerà a chiudersi nei suoi egoismi, il peso del vecchio continente diminuirà ulteriormente e probabilmente la stessa Unione Europea vivrà la più devastante delle crisi.

Ma, estendendo le riflessioni al più ampio ambito antropologico, il futuro dell’umanità appare poco roseo se le istanze solidali saranno surclassate dagli individualismi. Un uomo che non avrà cura dei suoi simili e, in particolare, di quelli più deboli sarà vittima della sua aridità e soffrirà le pene di una solitudine non solo fisica ma anche morale. Purtroppo, certo cinismo e con esso la scarsa considerazione del prossimo già si manifestano, soprattutto in taluni Paesi agiati dell’Europa continentale, e non pare un caso che in essi si registra il più alto tasso di suicidi.

Quale sarà il destino degli immigrati dopo il Coronavirus? È facile prevedere che, terminata la pandemia, i barconi torneranno con la frequenza di prima nei nostri mari e tenteranno di approdare nei nostri porti; e, peraltro, con l’arrivo della primavera, già si sono rivisti i battelli carichi di migranti e le tragedie del mare, passate in secondo piano nella cronaca monopolizzata dall’emergenza Covid-19. Quale sarà la risposta alla disperazione dei migranti? Non è certo un azzardo immaginare che le voci scomposte e strombazzanti dei demagoghi e dei populisti riecheggeranno ancora più forti moltiplicando i proseliti tra la gente comune. Avranno un argomento in più, i demagoghi e i populisti, per perorare la loro causa: gli “estranei” e i “diversi” contagiano malattie misteriose e sconosciute come il Covid-19 e, per tutelare la nostra salute, occorrerà sbarrargli ogni via d’ingresso. Naturalmente un simile argomento, già di per sé ai più seducente, non avrà bisogno di un avallo scientifico: l’opinione delle folli e di chi sa tracciarne le direzioni fa leva sulle suggestioni e le suggestioni contrastano con la scienza (vedasi le battaglie contro i vaccini). Dovesse, nelle comunità, rinvigorirsi il sentimento xenofobo, come purtroppo pare probabile, non si prenderebbero in considerazione due punti su cui vale la pena riflettere.

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Hong Kong, Street Art (ph. Antony Wallace, afp)

Uno: proprio l’esperienza del Covid-19 ha dimostrato l’inaffidabilità dei populisti e dei demagoghi. Nei Paesi guidati da agitatori delle masse, la risposta all’emergenza Coronavirus è stata debole e contraddittoria: si pensi agli Stati Uniti di Trump, al Regno Unito di Boris Johnson, al Brasile di Bolsonaro. Se ci si affida all’emotività e non alla ragione, il governo dell’ordinario e ancor più di situazioni straordinarie si rivelano alquanto insicuri. La tragedia del Coronavirus dovrebbe invece indicare una strada da seguire: quella della competenza. Chi regge le sorti di un Paese potrà affrontare le sfide più difficili con maggiori possibilità di vincerle se è competente. Anche la politica esige competenza, e la competenza comporta sapere assumere decisioni a un tempo rapide e meditate che sappiano fare tesoro, pur nella discrezionalità, dei contributi scientifici. Due: il progressivo calo delle natalità in Italia e in tutta l’Europa richiede una politica di accoglienza e soprattutto di integrazione degli stranieri. Per quanto possa apparire paradossale e non credibile agli occhi di gran parte della gente comune, l’immigrazione (gestita s’intende con misure razionali) è una risorsa per l’Italia e per l’Europa su cui fare leva per una difficile ricostruzione dopo le catastrofi economiche causate dall’emergenza Covid-19.

Altra categoria di persone più deboli: gli anziani. Sono le vittime principali del Coronavirus. In una società assai diversa di quella di cinquant’anni fa, la maggior parte delle persone più avanti negli anni è stata espulsa (il verbo può apparire crudo ma rispecchia la realtà) da nuclei familiari sempre più ristretti. Gli attuali modelli di vita in cui lavoro, relazioni amicali e sentimentali, svaghi si accavallano freneticamente, non prevedono margini di tempo, se non limitatissimi, da dedicargli. Nelle case di riposo (tante non protette da regole e ambienti salutari) dove sono stati confinati, i vecchi sono stati aggrediti dal virus senza potere contare, per difendersi, su sufficienti anticorpi.

Si è detto anche che il nostro Paese è quello tra i più colpiti dal Covid-19, se non in proporzione il più colpito, in termini di sacrifici di vite umane, per la media avanzata della sua popolazione: troppi vecchi e mal sopportati. La morte di tantissimi di essi riaccenderà l’affetto nei loro confronti? Le innumerevoli perdite graveranno sulle nostre coscienze? La tragedia del Covid-19 ci ricorderà l’importanza di generazioni che hanno affrontato privazioni e sofferenze simili a quelle della pandemia e che a quelle privazioni e sofferenze hanno saputo fare scudo maturando una filosofia di vita rispettosa della persona umana? Si terrà conto che proprio da uomini non certo giovani anagraficamente sono arrivate le parole, dettate dal cuore e rielaborate dalla ragione, di soccorso e di incoraggiamento in un momento per tutti delicatissimo: papa Francesco, solo e tenacemente caparbio nella sua benedizione urbe et orbe in una surreale e deserta piazza San Pietro martellata dalla pioggia, e Sergio Mattarella, sobrio, equilibrato ed efficace nel rappresentare istituzionalmente un Paese in gravi difficoltà? È azzardato prevedere che la condizione degli anziani possa migliorare nel post Coronavirus: significherebbe riappropriarsi di valori e costumi di vita propri di un modello di società, ancorato alla cultura e alla civiltà contadina, che appartiene al passato. Rispolverarli saprebbe di miracolo.

Altra categoria particolarmente debole è quella dei detenuti. Hanno sbagliato, è giusto che con la pena paghino i loro errori. Ma la pena, oltre che tendere alla rieducazione – come da dettato costituzionale – deve essere proporzionata alla colpa e non eccedere i limiti della ragionevolezza e della sensibilità umana. Il che non accade se si considerano le condizioni delle carceri, lo stato della loro “abitabilità”. Il vivere uno accanto all’altro in celle di pochi metri quadri li ha resi più vulnerabili al Covid-19, con l’indifferenza – colpevole – delle istituzioni. Apriranno gli occhi, rectius il cuore, governanti, amministratori, magistrati insensibili? Si costruiranno luoghi di reclusione che rispettino le condizioni minime di igiene e sicurezza? Ci si ricorderà della loro sofferenza non commisurata alle loro colpe che vanifica ogni intento di rieducazione?

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Berlino, Street Art, Eme Freethinker  (ph.Macdougall, afp)

La clausura, per quanto forzata, potrebbe paradossalmente sortire anche effetti positivi. Nei giorni di prolungata “tregua” (si consenta l’eufemismo) da una quotidianità pervasa di stress si avrebbe più tempo a disposizione per leggere e meditare, su se stessi, sulle proprie relazioni, sul mondo che ci circonda. Quanti di noi riesce a farlo o è riuscito a farlo frenando quel senso di frustrazione causato dalla costrizione che annienta i migliori propositi? Il dopo virus ci regalerà un uomo più “pensante”, più “filosofo”, più consapevole dei propri limiti e delle proprie fragilità? Già, perché il Coronavirus scopre e focalizza la debolezza dell’uomo. L’uomo del 2000 è padrone della scienza nei limiti stessi della scienza. Vi possono essere eventi imprevedibili sotto più punti di vista, difficili da contrastare, che svelano la sua “piccolezza”. L’uomo iper tecnologico, nel domani più prossimo, avrà meno sicurezze. Dovrà convivere presumibilmente, per un periodo non brevissimo, con un virus misterioso che può ripresentarsi quando sembrava sconfitto, perché occorrerà più tempo di quanto non si creda perché si possa disporre di un vaccino scientificamente testato e perché questo vaccino potrà essere somministrato su larga scala.

Infine, un’ultima domanda: chi ha vissuto l’incubo del Coronavirus e che ha conosciuto, anche attraverso la voce dei media, la spietatezza di una morte subìta senza la consolazione, nel trapasso, di persone vicine e priva di quei riti che facilitano l’elaborazione del lutto, avrà acquisito un senso più “religioso” della vita e del suo mistero? L’uomo del day after, non importa se credente, sarà più predisposto al raccoglimento spirituale?

In realtà, oltre a queste, di domande ce ne sarebbero molte altre e tutte potrebbero sintetizzarsi, se si vuole anche semplificando all’estremo sino all’elementarità e tornando al quesito di fondo di cui all’inizio, in una sola: ci troveremo, domani, dinanzi a un uomo e a un mondo più maturi e più sensibili? «The answer, my friend, is blowin’ in the wind», cantava Bob Dylan. Già, la risposta soffia nel vento.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia e con vari periodici culturali.

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