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Il difficile governo dell’immateriale: società civile e dissonanze del patrimonio culturale

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 01:41 In Cultura,Letture | No Comments

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 Dopo un iter legislativo di sette anni, il 23 settembre 2020 il Senato italiano ha finalmente ratificato la Convenzione di Faro [1]. La “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”, stilata dall’UNESCO nel 2005, non rappresenta solo un valido strumento per l’inquadramento e la gestione del cosiddetto patrimonio culturale immateriale (intangible cultural heritage ICH), ma ne approfondisce alcuni aspetti rispetto alle precedenti normative di riferimento. Termini come “salvaguardia”, “comunità d’eredità”, “responsabilità condivisa” vengono riaffermati con particolare forza. Il dialogo è particolarmente intenso con la Convenzione internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale del 2003, ratificata dall’Italia già tredici anni fa. Nonostante gli anni trascorsi manca ancora una vera e propria politica dedicata ai beni immateriali; di converso, la società civile ha assunto un’indiscutibile rilevanza nei processi di riconoscimento e valorizzazione del patrimonio.

Il recente volume di Lia Giancristofaro e Valentina Lapiccirella Zingari (2020), Patrimonio culturale immateriale e società civile, affronta precisamente queste tematiche, ponendo al centro la Convenzione UNESCO del 2003. Le due autrici non condividono solo un comune background antropologico, ma anche specifici interessi – teorici, metodologici e professionali – e spiccate sensibilità [2]. A questo proposito, come puntualizzano le autrici, parlare di “Liste UNESCO” può essere fuorviante dato che questa organizzazione internazionale si “limita” a riconoscere e istituzionalizzare realtà patrimoniali già esistenti. Dal 1972 i singoli Stati-Parte possono proporre l’iscrizione di beni culturali materiali e immateriali in Liste, riconosciute dall’UNESCO per il loro valore universale, come patrimonio dell’umanità appunto. Le normative internazionali infondono legittimità e un certo prestigio a questi “cataloghi di rappresentazioni patrimoniali”, ma l’iter di riconoscimento e selezione avviene sostanzialmente all’interno degli Stati. Chiarire questo primo punto è importante, poiché permette di ricalibrare il peso relativo di UNESCO e Stati-Parte all’interno dei processi di patrimonializzazione.

Un secondo punto viene formulato da Pietro Clemente nella sua premessa al volume. L’antropologo, già coinvolto nella prima iniziativa italiana post-ratifica della Convenzione UNESCO del 2003, sottolinea la differenza sostanziale tra salvaguardia e conservazione. La salvaguardia non estrapola manufatti, tradizioni o saperi dalla loro vita culturale, ma prevede al contrario una trasmissione tra generazioni, come “eredità culturale”, che la Convenzione di Faro definisce come: «un insieme di risorse ereditate dal passato che le persone identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione». Il patrimonio infatti cambia, si trasforma, e già nella Convenzione UNESCO del 2003 veniva posto l’accento sulla trasmissione creativa dei beni culturali immateriali. Questo particolare aspetto della salvaguardia viene ribadito più volte nella Convenzione di Faro, parlando anche di comunità d’eredità (heritage community) caratterizzate da una precisa volontà di trasmettere un certo patrimonio – riconosciuto come tale in primis dalla stessa comunità – alle generazioni successive.

img-1Come nota Clemente, le due Convenzioni sul patrimonio immateriale cercano di coniugare lo sguardo locale dell’antropologia con categorie internazionali, di volta in volta declinate all’interno dei singoli Stati-Parte e recepite attivamente da un reticolo di stakeholder. Come vedremo, questo ha portato alla formazione di precisi regimi del patrimonio (heritage regime), un concetto che affiora spesso nel volume e su cui insisteremo nella seconda parte: «the host of regulatory steps, actors and institutions that transform a cultural monument, a landscape or an intangible cultural practice into certified heritage» (Bendix, Regina, Eggert & Peselmann 2013: 11). Diciamo fin d’ora che il patrimonio – specie quello immateriale – è anzitutto uno spazio d’azione sociale, un’arena pubblica in cui si confrontano organizzazioni internazionali, Stati-Parte e società civile. Seppur con forme e definizioni eterogenee, nei Quaderni di Gramsci (1977) troviamo una profonda elaborazione critica di questo concetto: più che la semplice somma delle organizzazioni private presenti nello Stato, la società civile riguarda il «senso di egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società, come contenuto etico dello Stato» (Q6, §24). Recuperare questa valenza etica diventa tanto più importante oggigiorno, per controbilanciare un certo ethos normativo degli Stati-Parte che guarda ai beni culturali come oggetti da catalogare, certificare e amministrare. Del resto, come notano le autrici (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 87), le riflessioni di Gramsci sono più che mai attuali per ripensare fenomeni come il folklore, le pratiche e i saperi “tradizionali” alla luce dei processi globali, muovendosi trasversalmente attraverso l’intera società civile, senza rimanere congelati (anche metodologicamente) all’interno di uno “strato” isolato di marginalità (Dei 2018).

La società civile, secondo la bella immagine data dalle autrici, è «un flusso di relazioni associative che, intercorrendo nelle società complesse, si pongono come un reticolo di cittadinanza distinto dallo Stato» (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 35). È all’interno di questi reticoli sociali e comunitari che il patrimonio immateriale acquista corpo e senso. Nella distinzione tra società politica (lo Stato) e società civile si apre uno spazio di riconoscimento per nuovi attori collettivi [3] – come le ONG, le comunità d’eredità o le reti ecomuseali – una pluralità di soggetti culturali portatori di interessi, valori e contenuti etici. Nell’ultimo paragrafo proveremo a mettere a fuoco due gruppi marginali all’interno della società civile, che si rapportano al patrimonio secondo logiche nettamente differenti, contrapponendosi non solo alla governance dello Stato, ma agli interessi delle stesse comunità: il primo è l’industria turistica, con le pratiche neo-liberali di gestione del patrimonio e di mercificazione; il secondo comprende un insieme più sfuggente di movimenti e “sguardi” che si pongono contro il patrimonio attraverso la negazione, la contestazione e la distruzione dello stesso (Geismar 2015: 80-82).

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Festa di S. Domenico abate a Cocullo

Oltre la Convenzione: assemblaggi di potere

Le Convenzioni, lo abbiamo visto, riconoscono il carattere mutevole del patrimonio, che come ogni altro dispositivo culturale cambia in ragione dei contesti storici e sociali. Il primo capitolo del volume traccia l’evoluzione storica di questo concetto nel quadro europeo, sottolineando il ruolo decisivo di musei e monumenti tra Ottocento e Novecento. Questa eredità, evidente in ogni città nella sua dimensione materiale, ha profondamente segnato le moderne politiche del patrimonio, arrivando a disconoscere o sottovalutare l’aspetto immateriale. Eppure, per quanto “purificati” dai processi conservativi e di musealizzazione, edifici, monumenti e manufatti sono portatori culturali di valori, simbologie e poteri, che più in generale rimandano alla difficile relazione tra Storia e memorie sociali (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 22). Le proteste del movimento Black Lives Matter, per esempio, hanno riportato d’attualità questa dimensione problematica e contestata del patrimonio, su cui ci soffermeremo più avanti.

Il retaggio culturale del patrimonio affonda anche nel diritto romano: con la res incorporales viene introdotta la questione giuridica della trasmissione di privilegi immateriali, di tutto ciò quæ tàngi non pòssunt; la stessa radice etimologica di patrimonio (lat. pater monere) rimanda ad una forma di eredità famigliare. Tanto la materialità monumentale e museale di fine Ottocento quanto il diritto classico romano concorrono ad influenzare le modalità odierne con cui il patrimonio culturale viene definito, regolato e gestito. In questo senso, l’UNESCO gioca un ruolo assolutamente propositivo con le sue Convenzioni. Le normative internazionali assumono una vita politica a sé stante in ogni Stato-Parte, recepite all’interno di specifici regimi del patrimonio. Il concetto di heritage regime, complesso assemblaggio di attori sociali, norme giuridiche, e pratiche di salvaguardia, nasce proprio per descrivere la ricezione delle Convenzioni UNESCO da parte degli Stati aderenti (Bendix, Regina, Eggert & Peselmann 2013). Possiamo leggere tutto il terzo capitolo del volume come una descrizione del particolare regime del patrimonio in Italia, che coinvolge parti importanti della società civile.

I regimi del patrimonio, infatti, non rappresentano solo modelli di governo dei beni culturali, ma sono internamente orientati da particolari “ideologie”, per riprendere nuovamente le categorie gramsciane. In altre parole, la società civile influenza gli heritage regime, rivendicando così un ruolo attivo nei processi decisionali. Questo non riguarda solo le comunità, ma anche altri soggetti portatori d’interesse come gli antropologi. Un esempio è la recente creazione da parte del MiBACT delle Liste nazionali per i professionisti dei beni culturali, un’occasione per gli antropologi di esercitare le proprie competenze professionali in uno spazio pubblico e riconosciuto. Un’opportunità anche per lo Stato italiano di aggiornare il proprio assetto culturale e giuridico sul patrimonio. La Convenzione del 2003 infatti presuppone un cambio radicale di prospettiva: non più “oggetti culturali”, ma “soggetti culturali”, mettendo al centro il reticolo di comunità, musei, professionisti di beni demo-etno-antropologici e altri portatori d’interesse. Questo almeno in teoria, dato che – come notano le due autrici – le istanze della Convenzione UNESCO sono state integrate nel Codice dei Beni culturali e del Paesaggio [4](2004), senza modificare sostanzialmente la sua impostazione materialistica e conservativa del patrimonio.

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Monumento del Leone di Giuda oggi ad Addis Abeba, ma per un trentennio a Roma

Parte del problema sta nel retaggio ideologico fascista (leggi Bottai del 1939) in cui il concetto di conservazione è gravato dalla visione statica, monumentale e imperialista dell’epoca. Si pensi alle spoliazioni coloniali durante l’occupazione dell’Etiopia (1936-41): questi “furti istituzionali” non avevano solo lo scopo di arricchire i gerarchi del regime, ma erano parte di una strategia di colonizzazione mediata dalla stessa cultura materiale. Il governo fascista insistette per la rimozione di tre monumenti in particolare: il Leone di Giuda, la statua di Menelik II, e l’obelisco di Axum. Questa negazione del patrimonio puntava a cancellare i simboli più importanti dell’Etiopia indipendente, “assorbendoli” e ri-contestualizzandoli all’interno dell’immaginario fascista italiano.

Tornando agli aspetti normativi, in Italia per lungo tempo è prevalsa una visione triplice del patrimonio culturale, distinto in beni archeologici, storico-artistici e architettonico-paesaggistici, con una conseguente suddivisione dei campi di competenza tra le varie discipline (Perego 1987). Ancora oggi l’ambito in cui gli antropologi culturali sono più presenti è il secondo, all’interno di musei, archivi, centri di restauro, spesso in collaborazione con altri esperti del settore. La stessa gestione complessiva del patrimonio culturale italiano è segnata dalla sovrapposizione tra enti pubblici e privati, con competenze e funzioni incrociate. Le Soprintendenze, organi periferici del MiBACT, condividono l’amministrazione dei beni culturali sul territorio con enti provinciali e regionali, oltre a collaborare con le Università. I processi di patrimonializzazione sono gestiti dall’amministrazione pubblica, in collaborazione con soggetti del Terzo settore cui lo Stato delega parte delle pratiche di tutela. Tuttavia, manca un’apposita legislazione che riceva e applichi i propositi delle due Convenzioni sul patrimonio immateriale.

La conseguenza più evidente di questo assetto lacunoso è la frammentazione delle candidature alle Liste, ognuna delle quali formalizza uno specifico progetto senza raccordo con le altre. Diventano allora evidenti le potenzialità della società civile, che può fornire un reticolo “di sfondo” in cui condividere esperienze, competenze e pratiche. I musei – e specialmente gli ecomusei – sono un buon esempio di come queste reti sociali anticipino la ricezione statale delle Convenzioni, interrogandosi sulle nuove forme di gestione del patrimonio immateriale, e legando tra loro comunità, memoria e territorio. Non bisogna però omettere che questo tipo di iniziative solleva spesso anche delle “frizioni patrimoniali” (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 204), in cui emerge tutta la distanza (e il peso politico) del regime del patrimonio statale, supportato dalle stesse Università. Se da un lato le Convenzioni UNESCO sono animate dalla volontà di superare i particolarismi nazionali, promuovendo un concetto universalista del patrimonio, dall’altro la responsabilità degli Stati-Parte nell’applicazione delle normative internazionali offre il fianco a numerose critiche. È importante notare come il linguaggio delle Convenzioni internazionali descriva il patrimonio culturale mondiale in modo analogo a quello del patrimonio naturale: reperti archeologici, manufatti artistici, monumenti, sono considerati come un insieme di risorse non rinnovabili, da tutelare a beneficio dell’umanità. In questo senso, gli heritage regime cercano di mediare questa visione universalistica e conservativa con il riconoscimento di dissonanze e differenze culturali (Meskell 2002: 570). Tuttavia, il patrimonio non è tale finché non viene riconosciuto e ratificato dallo Stato, che detiene un principio di autorità in rappresentanza delle parti sociali, e che costituisce dunque un interlocutore imprescindibile in ogni processo di patrimonializzazione.

Il problema non si pone solo “verso l’alto”, nei confronti delle visioni UNESCO, ma anche internamente ai singoli Stati, laddove l’identificazione forzata delle identità locali con una “cultura nazionale” può dar luogo ad attriti e conflitti. La ratifica della Convenzione di Faro fornisce un ulteriore strumento di rivendicazione per le comunità, che sono chiamate a fornire una definizione soggettiva del patrimonio culturale. Tra statuto patrimoniale e valore patrimoniale esiste una differenza sostanziale: il primo riguarda i processi istituzionali e normativi, gli assemblaggi e i meccanismi degli heritage regime; il secondo costituisce una dimensione valoriale assegnata socialmente sulla base di categorie emiche. Riprendendo la riflessione di Pietro Clemente, gli antropologi sono chiamati a svolgere un lavoro di raccordo e di mediazione tra questi due aspetti del patrimonio.

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Distruzione di reperti archeologici nel museo di Mosul da parte dell’ISIS (2015)

Oltre la tutela: contestazione e mercificazione

Il patrimonio può essere pensato come un «surrogato politico dell’identità» (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 57) e come tale costituisce uno strumento partecipativo per la mediazione e la risoluzione di conflitti sociali (Kisić 2016); tuttavia, questa sua dimensione politica lo espone anche a tutti i rischi del pólemos, creando esclusioni, tensioni e scontri. Le frizioni e le mancanze dei regimi del patrimonio diventano luogo e occasione per forme di counter-heritage; alcune di queste pratiche agiscono dissimulando o negando il legame tra (particolari) memorie sociali e beni culturali, oppure contestandone l’appropriazione da parte di un gruppo o un’autorità. Altre ancora si oppongono al patrimonio rimuovendolo, o eliminandolo materialmente; le autrici ricordano in proposito la distruzione del sito archeologico di Palmira (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 29), una delle aree più colpite dalle azioni dell’ISIS. Dal 2015 questo movimento intraprese una vera e propria anti-heritage campaign (Tugendhaft 2020; Harmanşah 2015: 171) usando l’iconoclastia islamica come giustificazione ideologica, ma trafugando e vendendo al mercato nero migliaia di reperti per finanziarsi. Il modello di riferimento di questa campagna di distruzione è stato la demolizione del Buddha di Bamiyan da parte dei talebani afghani. Qui però l’anti-heritage assume i tratti di una resistenza all’ethos normativo di precisi heritage regime occidentali (Geismar 2015: 81), ritenuti ipocriti nei loro principi universalistici. È significativo che l’attacco dell’ISIS al patrimonio mondiale abbia avuto come conseguenza lo sviluppo di nuove pratiche di tutela, con progetti e interventi internazionali per la salvaguardia del patrimonio materiale nelle zone di conflitto, ma anche con riflessioni critiche sulle politiche degli ICH e sulla loro efficacia.

In proposito, Kisić rileva una specifica dimensione dissonante del patrimonio (Kisić 2016: 50), legato alla sovrapposizione di diversi sguardi sociali e attribuzione di valore su luoghi, monumenti, saperi e pratiche. Questa dissonanza costituisce una condizione latente in ogni patrimonio, dato che i processi che lo costruiscono (o lo certificano) sono sempre socialmente posizionati, ed escludono inevitabilmente attori, interessi e rappresentazioni minori. Talvolta questa esclusione è volontaria: nella costruzione del sito memoriale di Auschwitz, non c’è stato ovviamente spazio per posizioni neo-naziste. Più spesso però, esprime una certa trascuratezza delle istituzioni, o se vogliamo delle omissioni nei regimi del patrimonio che tagliano fuori parti della società civile. I beni culturali materiali sono più facilmente oggetto di dissonanze, dal momento che marcano spazi pubblici come piazze e musei, esprimendo determinati valori e celebrandone altri. Il furto dei labari fascisti (giugno 2020) conservati presso l’Archivio centrale dell’EUR di Roma, è un esempio “domestico” di come un medesimo patrimonio venga valorizzato diversamente a seconda dello sguardo sociale: quelli che lo Stato riconosce come oggetti storici, da musealizzare, per un gruppo minoritario diventano trofei da collezionare, un patrimonio identificato con la propria identità ideologica e con la propria memoria del fascismo.

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Palazzo della Civiltà italiana nel quartiere EUR di Roma

Occorre fare una netta distinzione tra la Storia, intesa come tentativo sistematico di descrizione del passato, e patrimonio, come assemblaggio contemporaneo ottenuto dalla Storia attraverso processi selettivi e interpretativi che chiamano in causa le memorie pubbliche (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 30; Kisić 2016: 52). La Storia è un risultato necessariamente successivo, esito di lunghi processi di selezione, purificazione e assemblaggio delle memorie sociali. Uno sguardo critico ci permette di riconoscere questo dispositivo culturale nel suo agire, mettendo in luce il lungo lavorìo che lo anima; uno sguardo distruttivo, contesta e respinge la Storia – o meglio, parti di essa – perché non coincide con la memoria sociale, dimenticando che non si può parlare di memoria senza usare il plurale. L’esempio classico è quello dei negazionisti della Shoah, che contestano la realtà dei lager nazi-fascisti, e che di conseguenza negano valore al patrimonio materiale e immateriale (come memoria) di Auschwitz. L’ironia inconsapevole del negazionismo è che, mentre contesta una narrazione storica per la parzialità dei processi culturali che l’hanno prodotta, basa e finalizza il proprio revisionismo su posizioni ideologiche e politiche ancor più parziali.

Ritorniamo allora a quelle forme di anti-heritage legate a contesti negazionisti, dove una certa narrazione del patrimonio viene contestata e sostituita in modo interessato con altre (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 33). Come antropologi, non possiamo limitarci a «ascribe a simplistic politics of extremism to such antiheritage maneuvers without understanding the full implications of antiheritage sentiment as a foundation for social movements» (Geismar 2015: 80). Occorre perciò riconoscere la capacità di queste rappresentazioni alternative di produrre identità, chiaramente “spendibili” nell’agone politico per creare consenso. Un esempio sono i movimenti sovranisti, che fondano la propria retorica contro delle autorità altre ed “alte”: istituzioni statali, Unione Europea, organizzazioni internazionali. La critica negazionista della parzialità storica si lega così alla critica dell’autorità: governi, scienziati, multinazionali sono messi al centro di congiure e complotti, ovvero modalità sotterranee di dominare la Storia. Lo stesso patrimonio culturale si presta a manipolazioni e revisioni di questo tipo. Nonostante alla base delle Convenzioni UNESCO vi sia la volontà di contrastare particolarismi, conflitti e chiusure tra le nazioni, incentivando la creazione di reti di salvaguardia internazionali, le Liste UNESCO rischiano di diventare esse stesse oggetto di strumentalizzazione politica da parte dei movimenti sovranisti, rievocando la logica patrimoniale del nazionalismo novecentesco.

Un altro tipo di critiche alle Liste UNESCO riguarda le ripercussioni turistico-economiche sul patrimonio. Le autrici mostrano come talvolta esista una vera e propria «corsa alla certificazione UNESCO», in cui le comunità fanno un uso rivendicativo del patrimonio per sostenere una precisa immagine del territorio (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 70). Si ottengono così brand territoriali formati da rappresentazioni stereotipate, funzionali all’industria turistica, e prive di quella dimensione creativa che caratterizza il patrimonio immateriale. Tra gli altri, Bendix (2018) si è occupata di come questa nuova industria del patrimonio concretizzi certi immaginari della vacanza, attraverso una risignificazione di luoghi, pratiche ed oggetti. I rischi di questa mercificazione sono stati colti dalla stessa UNESCO, che come risposta ha redatto dodici princìpi etici per la salvaguardia e il contrasto degli abusi commerciali (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 115-119). Già Berardino Palumbo (2006) aveva sollevato il problema della mercificazione del patrimonio e della spettacolarizzazione turistica delle tradizioni. In questo senso la gestione del patrimonio è interessata anche da pressioni neo-liberali, tese a decentrare il controllo verso attori del settore privato, un ristretto insieme della società civile che rientra nell’industria del turismo:

«Certainly we are witnessing a new dominance of market ideologies in heritage management and in its means of “valuation” with an increasing emphasis on investment in cultural resources and human capital so as to yield economic returns, adding value to them so as to encourage tourism, foster foreign direct investment, encourage product differentiation, and promote new commodifications of “cultural resources» (Coombe 2013: 378)
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Mappa del sito Dolomiti Unesco

Il problema non sta tanto nella delega in sé, nonostante sia una scelta significativa da parte dello Stato ed evidenzi anche in questo caso certi meccanismi dell’heritage regime. La difficoltà sta piuttosto nell’assicurare una corretta redistribuzione dei benefici sociali e delle responsabilità, la shared responsibility citata nella Convenzione di Faro. Il turismo del patrimonio rappresenta indubbiamente un’opportunità per molte comunità marginali, un volano economico per il territorio che però, al tempo stesso, agisce sull’identità sociale, esautorando talvolta la stessa comunità nei processi di valorizzazione. La costruzione di brand territoriali legati alle Liste UNESCO è un fenomeno tipico del turismo patrimoniale (Light 2015: 147): si pensi ad esempio alla valorizzazione delle Dolomiti, inserite nel Patrimonio naturale dell’umanità, e al successivo cambiamento nel turismo alpino.

A differenza dei gruppi e movimenti coinvolti in pratiche di counter-heritage, l’industria del turismo rappresenta un attore di assoluto rilievo nella pianificazione delle politiche patrimoniali, anche per il suo peso economico e la capacità di intervenire sul territorio.

Seppur brevemente, abbiamo cercato di riannodare fra loro i fili di un discorso che percorre l’intero volume, seguendo gli orli di quel tessuto connettivo che è la società civile. L’applicazione delle Convenzioni UNESCO è resa complessa non solo dai molteplici regimi del patrimonio, che frammentano e ridimensionano la loro portata internazionale, ma anche da certi aspetti della società civile, che invece della salvaguardia si rapportano al patrimonio attraverso la contestazione e la mercificazione neo-liberale. Nel trattare del particolare heritage regime in Italia abbiamo voluto seguire l’esempio delle autrici quando affermano che: «smontando la ‘macchina della Convenzione’ per mostrare al lettore i suoi pezzi fondamentali [...], quello che dal di fuori e nella sua interezza sembrava un pericoloso moloch, si mostra ora come un potere fragile e marginale» (Giancristofaro & Lapiccirella Zingari 2020: 211). Certo, l’assemblaggio istituzionale che abbiamo descritto è tutt’altro che marginale; si presenta al contrario come una realtà pervasiva, e tuttavia appesantita dal proprio retaggio storico e oggetto “d’inceppamenti” nei suoi meccanismi. In queste zone grigie si aprono opportunità di intervento e rivendicazione per quegli attori della società civile che abbiamo via via ricordato: comunità d’eredità, ONG, professionisti del patrimonio, reti di musei e aziende turistiche, che nelle Convenzioni UNESCO possono trovare un orientamento, delle indicazioni per costruire quella dimensione valoriale del patrimonio.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
 Note
[1]   Ddl Senato n.702 – XVIII° Legislatura
 http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/testi/50297_testi.htm [controllato 05/10/20].
[2] Lia Giancristofaro è professoressa associata presso l’Università di Chieti, con una formazione in studi giuridici che riemerge nel suo interesse per l’antropologia del patrimonio e del diritto. Membro di SIMBDEA, è stata cofondatrice del gruppo di ricerca sul patrimonio culturale nei conflitti armati, promosso dall’Università Ca’ Foscari. La sua attenzione per il ruolo sociale delle ONG, pensate come nuove policy makers, è condiviso anche da Valentina Lapiccirella Zingari, cofondatrice del forum delle ONG accreditate UNESCO. Lapiccirella Zingari si distingue per la sua attività professionale come antropologa in Francia, Belgio e Italia, dedicandosi in particolare alla valorizzazione dei patrimoni e degli archivi orali. All’interno di SIMBDEA si occupa di patrimonio immateriale e memoria sociale, supportando le candidature multinazionali alle Liste UNESCO. Insieme, le due ricercatrici sono impegnate in un progetto di iscrizione del culto di S. Domenico abate e il rito dei serpari di Cocullo nella Lista di Salvaguardia urgente.
[3]   Riprenendo Althusser o Laclau potremmo parlare di nuove “interpellanze” emergenti nella società civile.
[4] Decreto Legislativo n.42 (22/01/2004) https://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/testi/04042dl.htm [controllato 05/10/20].
 Riferimenti bibliografici
 Bendix, Regina, 2018, Culture and Value: Tourism, Heritage, and Property, Bloomington: Indiana University Press.
Bendix, Regina, Eggert, Aditya, Peselmann, Arnika, 2013, Introduction: Heritage Regimes and the State, in R. Bendix, A. Eggert, A. Peselmann (eds.), Heritage Regimes and the State, Göttingen: Universitätsverlag Göttingen, 11-20.
 Coombe, Rosemary J. 2013, Managing Cultural Heritage as Neoliberal Governmentality, in R. Bendix, A. Eggert, A. Peselmann (eds.), Heritage Regimes and the State, Göttingen: Universitätsverlag Göttingen, 375-388.
 Dei, Fabio, 2018, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’UNESCO, Bologna: il Mulino.
 Geismar, Haidy, 2015, “Anthropology and Heritage regimes”, Annual Review of Anthropology 44: 71-85.
 Giancristofaro, Lia, Lapiccirella Zingari, Valentina, 2020, Patrimonio culturale immateriale e società civile, Roma: Aracne.
 Gramsci, Antonio, 1977, Quaderni del carcere (4 voll.), Torino: Einaudi.
 Harmanşah, Ömür, 2015, “ISIS, Heritage, and the Spectacles of Destruction in the Global Media”, Near Eastern Archaeology 78 (3): 170-177.
 Kisić, Višnja, 2016, Governing Heritage Dissonance, Amsterdam: European Cultural Foundation.
 Light, Duncan, 2015, Heritage and Tourism, in E. Waterton, S. Watson (eds.), The Palgrave Handbook of Contemporary Heritage Research, Basingstoke: Palgrave Macmillan: 144-158.
Meskell, Lynn, 2002, “Negative Heritage and Past Mastering in Archaeology”, Anthropological Quarterly 75 (3): 557–74.
Palumbo, Berardino, 2006, L’UNESCO e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Milano: Meltemi.
Perego, Francesco (a cura di), 1987, Memorabilia: il futuro della memoria. Beni ambientali, architettonici, archeologici, artistici e storici in Italia, Roma-Bari: Laterza.
 Tugendhaft, Aaron, 2020, The Idols of ISIS. From Assyria to the Internet, Chiacago: Chicago.

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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).

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