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Il crollo degli obelischi

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2018 @ 00:43 In Cultura,Società | Comments Disabled

Piero Guccione, Grande spiaggia, 1996

Piero Guccione, Grande spiaggia, 1996

di Gian Mauro Sales Pandolfini

Chi ha navigato per oceani e biblioteche, come Melville, sa benissimo che l’orizzonte del mare è una linea inventata, che non esiste, che è frutto della nostra capacità visiva ridotta.  Se imparassimo a riconoscere il valore dell’immaginazione nella sua componente più speculativa, e non meramente onirica, forse saremmo in grado di oltrepassare agilmente le nostre mura di riferimento. Abbattere la forzatura degli obelischi identitari, demolire i monoliti del pre-giudizio, non consentire alla linea ingannevole dell’orizzonte di dividere la nostra mente in due, darebbe certamente esiti diversi, a partire dai livelli di incidenza sociale apparentemente meno forti.

Negli anni Novanta l’antropologo tunisino Kilani ha condotto delle ricerche presso un villaggio di Gafsa, nelle oasi del Sud tunisino, una comunità che non conosce il valore della scrittura per come siamo abituati a intenderla. L’importanza della scoperta risiede nel fatto che la differenza tra la credenza religiosa e quella scientifica sarebbe di natura socio-culturale e non ontologica. L’autorità occidentale di uno studioso o di un documento è determinata dal consenso del laboratorio presso cui opera e dal prestigio della sua traccia scritta in sede sperimentale. Per gli abitanti di Gafsa, invece, citare un documento, una fonte d’archivio, che avvalori la propria testimonianza genealogica, condivisa peraltro da tutti i membri del gruppo presenti, non equivale mai alla reale esistenza del documento stesso. L’importante è che la sua esistenza sia vissuta dall’intero gruppo: se è così, la fonte documentaria, la citazione proposta nella conversazione, diviene mito che si fa norma, elemento di aggregazione e di identità partecipata. In altri termini esiste, accanto a una memoria artificiale dotta, libresca, scritta e ufficiale come la nostra, anche una memoria vissuta che agisce nelle comunità, che rafforza la credenza, la coesione sociale e la sua identità.

Anche la magia tradizionale siciliana rivela una propria efficacia simbolica, strategica e condivisa. Il valore della credenza, più volte cantato da Pirandello (Le nonne, 1902; Il figlio cambiato, 1923; La favola del figlio cambiato, 1934; I giganti della montagna, 1936) è ben lontano da ogni esoterismo newager.

Le donni, entità che affollano, per dirla alla Sciascia, l’aere siciliano, e che appaiono a metà tra maghe vive ed entità ctonie, vengono chiamate, per tutta l’Isola, in mille modi diversi, cosi tristi, patruneddi, donni di fora, fate, sibille, bedde signuri. Spesso sono anime irrequiete, più donne che uomini, morte in circostanze violente, magari prima di aver completato il naturale ciclo vitale, e invidiose di una maternità loro negata. Si divertono allora a giocare con i bambini, li spostano dalla culla, li rapiscono, li cambiano con un proprio figlio malaticcio. Nelle comunità popolari la nascita di un bambino portatore di handicap viene considerata una vergogna per la madre e un peso per tutti, in quanto inficia la sopravvivenza già stentata del gruppo e necessita di un surplus di cure e attenzioni, anche economiche, che nessuno accoglie volentieri. La malattia, in altri termini, viene avvertita come un problema che investe sia la sfera biologica sia quella sociale. Ecco allora che la magia interviene, diventando un codice di riserva per ovviare a una crisi della presenza – la sanità in questo caso – e deresponsabilizza la madre, reintegrando il bambino malaticcio nella società. Non è più il figlio della compaesana, ma il figlio sovrannaturale delle donni, che l’hanno cambiato, portando con loro quello sano. Se la madre e la comunità non si prenderanno cura del bambino sovrannaturale, loro si vendicheranno su quello sano, rendendolo infelice nell’aldilà.

La poesia della credenza, dunque, infonde senso, passione e salvezza alle cose insensate. In essa Pirandello ha risolto la sua annosa diatriba tra vita e forma.

Giorgione, La tempesta, 1503 ca., Venezia, Gallerie dell’Accademia, part

Giorgione, La tempesta, 1503 ca., Venezia, Gallerie dell’Accademia, part.

Ci sono altri feticci che l’umanità ama adorare, una persistente sfilata di falsi assoluti, direbbe Cioran. Si tratta di obelischi monolitici che avvelenano i rapporti tra gli uomini. Gli uomini sono prima di tutto persone, volti o maschere, identità confuse e spaurite, individui la cui fragilità è spesso all’origine dell’autodifesa, aggressiva e criminale. Il male nasce dall’infelicità. Chi non è in grado di viversi, chi non è presente a se stesso, chi non è sereno, tende a distruggere la vita altrui, a osteggiarne il fare e a ridimensionarne la presenza.

Un walzer di rimbalzi tra punti cardinali, tra Occidente e Oriente, presenzia regolarmente nella stagione dei concerti della storia, e da tempi immemori. Se il nemico può essere considerato medium indispensabile nel processo di definizione della propria identità, della quale, complice il confronto e il dictat di Plutarco, rafforza i confini della propria personalità – prima ancora che quelli del proprio ruolo di attore sociale –, è anche vero che gli epici scontri armati che hanno dettato la Storia – crociate, guerre di religione (o meglio, geopolitiche), fanatismi, terrorismi e manipolazioni economiche su larga scala – sono, indubbiamente, epifenomeni marchiati dal biblico quaerens quem devoret e che non arrivano a velare più di tanto il loro volto banale, ovvio.

La reciprocità culturale, sconsacrata da quel livellamento sociale esistente e dunque imprescindibile, denunciato da Gramsci, non può omettere la concreta divisione gerarchica che organizza e divide la società umana. Esistono, in altri termini, società egemoni, dominanti, sia economicamente che culturalmente, e società subalterne, sottoposte alle prime. E il tutto accade su più livelli. L’Europa domina l’Africa come la classe dirigente borghese domina il popolo. Questa consapevolezza, che per secoli ha consentito e giustificato, complice persino l’antropologia, il colonialismo dei cosiddetti “primitivi”, oggi, invece, va riletta in un’ottica nuova, dotando le proprie idee e ricerche di un approccio il più possibile obiettivo e lontano dalle costanti retoriche relativiste, buoniste o New Age che corrompono il pensiero e snaturano il comportamento.

L’uomo, del resto, è un animale tassonomico che ha bisogno di classificare, raggruppare e ridurre la vastità dell’ignoto in un hortus conclusus conoscibile e comprensibile, perfettamente sezionato e catalogato in un’ideale biblioteca del pensiero. Una lacuna genetica che si riversa persino sulla propria condizione bioetica, sicché il mondo finisce per somigliare a una tela di Leonardo marcata dalla prospettiva dello spazio. Immaginiamo la celebre Vergine delle rocce al Louvre.

 Leonardo da Vinci, La vergine delle rocce, 1485 ca., Parigi, Musée du Louvre.

Leonardo da Vinci, La Vergine delle rocce, 1485 ca., Parigi, Musée du Louvre

In primo piano è Maria, il soggetto egemone, colui che determina l’azione, inventa confini, santi e nemici, il protagonista riconoscibile che detta la storia, quantomeno quella più visibile e veloce, secondo lo schema braudeliano. In secondo piano i deuteragonisti accompagnano già marginalmente la danza del primo, mentre sullo sfondo, una quinta silente, sfumata sebbene indispensabile per la definizione dello spazio, fa la sua lenta comparsa. Ecco il piano della storia più profonda, quella di più lunga durata, quasi immobile, mineralizzata, poco visibile ai nostri occhi e che si porta sulle spalle il carico di saperi e tradizioni ancestrali, la sedimentazione culturale, l’immensità dei sincretismi. Tutti questi piani concorrono a dare una funzione segnica al quadro della vita, ma subiscono i singoli e diversi effetti del ruolo che indossano.

Ed eccoci all’altro nodo, il concetto di identità, oggi strausato e distorto, come quelli di credenza e multiculturalismo. Si tratta spesso, a mio avviso, di un vocabolario divertentissimo con cui giornalisti, moralisti e politici – ovvero coloro che Lévi-Strauss addita come cancro del nostro secolo – speziano fin troppo certi piatti pubblici, per nasconderne odore e sapore autentici.

Ognuno di noi è il risultato di un Imprinting culturale, difficilmente sfaldabile. Ciò significa che già il gruppo sociale di appartenenza – prima ancora che le coordinate geografiche di stanziamento – può influenzare la visione del mondo di una persona. Amartya Sen, illuminante pensatore prima ancora che abilissimo economo indiano, scrive un libro folgorante, consigliabile a chi voglia approcciarsi al mondo con uno sguardo meno disincantato e più crudo, Identità e violenza, di cui capiterà di estrapolare qualche breve passo significativo.

È noto che quando si parla di individuo non ci si può soffermare a un unico attributo, a un’unica identità. Coesistono in ogni persona plurime identità tra loro concorrenti, che possono prevalere l’una sull’altra in virtù dei casi contingenti: a tavola si manifesta l’identità di onnivoro, vegetariano o vegano, ma un individuo, sul lavoro, può anche essere medico, artista o panettiere. L’identità islamica, tanto oggi di moda, tra fanatici e detrattori, può essere una delle tante identità di un individuo o di un paese, può essere magari la prevalente, ma non è mai l’unica. Ci sono altre varianti che dimentichiamo e che concorrono alla definizione dell’individuo: valori politico-sociali, ruoli professionali, classe sociale di appartenenza, gusti e stili di vita, atteggiamenti chiusi o aperti verso l’Occidente o viceversa verso l’Oriente. Si pensi, per fare un banalissimo esempio, alla differenza che esiste tra le usanze delle donne tradizionaliste nei centri rurali dell’Arabia Saudita e quelle delle musulmane turche, dove il velo è facoltativo e l’abbigliamento è sempre più simile a quello euroamericano. Queste come altre differenze esistono da sempre nel mondo musulmano, non sono fenomeni nuovi introdotti dalla modernità. Basti tornare indietro nel tempo all’imperatore Moghul Aurangzeb, che, asceso al trono in India nella seconda metà del XVII sec., è rimasto celebre per la sua intolleranza, arrivando persino a imporre tasse speciali nei confronti dei sudditi non-musulmani. Ma, se andiamo ancora indietro – e questo testimonia indirettamente quanto sia fallace il concetto evoluzionista di progresso – il bisnonno di Aurangzeb, Akbar, fu invece un sovrano di grande tolleranza e serena accondiscendenza, completamente disinteressato al primato fanatico del credo musulmano.

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Salvatore Fiume, Donne con specchi, 1987

Se le urgenze politiche e sociali attuali ci hanno condotto a una migliore e strategica comprensione dell’Islam nella sua complessa varietà interna, è anche vero che permangono pregiudizi, diffidenze e tendenze ad accorpare fedeli e fanatici. Ignoriamo, più o meno consapevolmente, che certe derive terroriste non sono il collasso etico dell’Islam, la cui componente religiosa non ha nulla a che fare con esse, ma una macchina economica e militare costruita ad hoc per la gestione delle risorse geopolitiche territoriali.

D’altro canto, ribadisce Sen, «non si può giustificare nulla in nome della libertà, se non si dà effettivamente alle persone l‘occasione di esercitarla, questa libertà, o se quantomeno non si cerca di valutare attentamente in quale modo sarebbe esercitata un’opportunità di scelta qualora essa fosse resa disponibile». C’è in ognuno di noi la possibilità di scegliere, anche inconsciamente, come viversi. Perfino Stoker, il creatore di Dracula, di un revenant, lo urla: «me lo dice il mio specchio. Hai mai provato a leggere il tuo volto? Io lo faccio, t’assicuro che non è affatto uno studio da niente, e ti crea più problemi di quanto non possa credere chi non l’abbia mai tentato».

La simmetria contrastiva, che regola e ordina il gioco di opposizioni, ha consentito – e continua a farlo – la possibilità di comprendersi, definirsi e identificarsi. Il frutto di questo incontro di sguardi è un’anamorfosi culturale, un’immagine leggibile soltanto se osservata da un certo punto di vista, magari più ampio e distaccato. Difficile, difficilissimo, sebbene necessario.

Il multiculturalismo lo immagino alla maniera di un tè esotico e pregiato che accompagna la conversazione di deliziose vecchiette ottuagenarie sedute attorno al tavolino del salotto. Certi accadimenti della vita mi hanno insegnato che l’ignoranza non è una colpa, è il risultato di una identità storica che si è subìta nella crescita e che va ricondotta all’educazione ricevuta, alla propria formazione, all’ambiente familiare in cui, per l’appunto, si cresce e si vive. Il multiculturalismo da TG nazionale, da associazionismo pseudo-umanitario, da collegio borghese è in verità declinabile in due modalità completamente opposte e inconciliabili: l’insana [auto]celebrazione della diversità quale valore in sé da promuovere a qualunque costo e sopra ogni cosa e il sano rispetto per una libera e ragionata scelta di essere, per quanto possibile, ciò che si desidera.

Multiculturalismo non dovrebbe significare cieca tolleranza, buonismo a tutti i costi o, ancora con Cioran, santità scatenata, ma trasparente e sincero rispetto per l’intelligenza e le pratiche decisionali del singolo individuo, la cui mente deve crescere libera di scegliersi, senza carceri identitarie imposte dall’alto. Mi sembra dunque prioritario annichilire questa forma di miniaturizzazione umana a cui assistiamo quotidianamente, ridicola quanto rivangare continuamente le ostilità del passato tra Occidente e Oriente, tipiche di due amanti litigiosi, a convenienza reciproca.

Tutti i gruppi umani tendono a identificarsi e a credersi, ciascuno, come la Società per eccellenza. L’impronta europea sul mondo è stata ed è – compreso il suo parto più recente, l’America – ben altro di una semplice tradizione teogonica che agisce localmente. La paura della diversità e in genere del non-conosciuto, l’ipocrisia delle gerarchie politiche esercitate dai Paesi economicamente più forti alimentano il sorgere di un’omologazione coatta, mascherata da multiculturalismo e da tolleranza perversa nei confronti di mondi considerati più stranieri di altri, «comunità guardaroba» – ribadisce Sen – d’occasione, da tenere ai margini o compatire paternalisticamente.

Non si ha alcun rispetto per le singole persone, che annegano in una modernità uniformante e malsanamente paludosa, liquida. Chi è diverso è considerato una minaccia, non perché è altro da noi, ma per ciò che ci somiglia: non si odia il nero che fa lo zio Tom, scrive Kilani, ma il nero che vuole fare il bianco, a meno che non stia sul palcoscenico a intrattenere il pubblico, cantando o recitando.

A livello macroscopico, i giochi di potere tra i Paesi più forti si tramutano in un circo di giocolieri abili a inebetire e sedurre le masse indistinte che affollano il globo. E le minoranze scelgono di rispondere trasformandosi in masse di minorati privi di personalità. Celebriamo il trionfo dell’Homo sacer di Agamben, l’uomo della biopolitica, ritualmente insacrificabile ma colpevole, assassinabile senza che si commetta delitto nel farlo. E il tutto è chiosato dall’«aritmetica della pena», denunciata da Foucault, che ritualizza i supplizi celebrati dall’indifferenza, facendo «del colpevole il pubblico ufficiale della sua propria condanna».

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Fabio Visentin, Odissea, graphic novel, 2018

La globalizzazione, se rivalutata correttamente, senza i particolarismi politici, svela invece un apprezzabile contributo: Sen parla di «viaggi di idee» che attraversano da sempre spazio e tempo, contribuendo alla crescita e alle dinamiche d’incontro tra tutti gli uomini nel mondo, viaggi pluridirezionali in cui i concetti cartografici cardinali perdono di consistenza. E il Mediterraneo di incontri ne ha visti eccome. Ricco di ponti dove sono passate, passano e passeranno milioni di scarpe diverse che s’incrociano, si guardano o si calpestano vicendevolmente. Trait d’union di scambi e guerre, di amore e morte, mare – canta Pavese – fatto di lacrime e sperma.

I concetti cardinali sono banalissime tassonomie geografiche, interscambiabili come i punti di vista. Persino l’epica ce lo insegna. Ulisse, scrive il geografo Farinelli, trafiggendo l’occhio di Polifemo, è prima di tutto l’uomo le cui braccia si tramutano in compasso, capace di disegnare il suo ordine, di annichilire il mostruoso, il kaos, di comporre propri modelli semiotici ed ermeneutici di riferimento. Mi diverte raccontare anche dei Minotauri creati dal pregiudizio, in cui marcisce l’uomo impaurito che sfugge all’ignoto, che corre ansioso guardandosi le spalle nel labirinto di Creta, tra i cui molteplici e possibili percorsi perde il lume della conoscenza.

Il pregiudizio appare spettralmente non quando la Ragione ha sonno, ma quando anzi è sveglissima e consapevole di cosa desideri. Certi comportamenti deviati nascono dall’ignoranza, nella sua fase più bulimica, e da obiettivi, razionalmente prefissati, contro ogni ostacolo che possa minare la loro spregiudicata emersione. La geopolitica mondiale, con il più feroce cinismo economico messo in atto, si aggiudica, in tal senso, il ruolo di privilegiato manifesto dell’orrore contemporaneo.

Dialoghi Mediterranei, n.34, novembre 2018
Riferimenti bibliografici
 Giorgio Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino, 2005.
Emil Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano, 2005.
Alberto M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo, 2003.
Franco Farinelli, Geografia, Einaudi, Torino, 2003.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 2014.
Elsa Guggino, La magia in Sicilia, Sellerio, Palermo, 1978.
Mondher Kilani, L’invenzione dell’altro, Dedalo, Bari, 1997.
Claude Lèvi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 2004.
Herman Melville, Moby Dick, Adelphi, Milano, 1994.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino, 1999.
Plutarco, Come trarre vantaggio dai nemiciMoralia III, Mondadori, Milano, 1996.
Leonardo Sciascia, La corda pazza, Einaudi, Torino, 1970.
Amartya K. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari, 2006.
Bram Stoker, Dracula, Mondadori, Milano, 1998.
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Gian Mauro Sales Pandolfini, antropologo, si occupa di credenze popolari, siciliane e classiche, attinenti la sfera magico-rituale, e di fenomeni legati allo Spiritismo medianico e magnetico tra Otto e Novecento, sia da un punto di vista socio-antropologico che letterario. Ha contribuito al disvelamento dell’opera saggistica e letteraria, inerente l’occultismo, di Luigi Capuana, sostenendo metodologicamente il dialogo interdisciplinare tra antropologia e letteratura. Già redattore e amministratore multimediale presso la Casa editrice palermitana G. B. Palumbo, ha lavorato come archivista presso la biblioteca del Dipartimento dei Beni culturali-storico-geografico-antropologici dell’Università degli Studi di Palermo; collabora all’allestimento di mostre d’arte moderna e contemporanea presso diverse istituzioni pubbliche e private; e ha contribuito come consulente antropologo e coordinatore editoriale per un’attività direttamente promossa dall’Assessorato ai Beni Culturali e all’Identità siciliana della Regione Sicilia, nella persona dell’ex ass. Vittorio Sgarbi, con il quale continua a operare per altre iniziative culturali.

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