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Identità e cittadinanza delle seconde generazioni
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 00:15 In Migrazioni,Società | No Comments
La riflessione antropologica qui presentata desidera porre l’attenzione su una questione contemporanea come il diritto di cittadinanza ai figli di immigrati residenti in Italia. Questo contributo muove dall’esperienza di un incontro organizzato da Italeya, associazione culturale di italo-egiziani.
Dialogando con i figli di migranti non possiamo non imbatterci sul concetto di identità. Un emigrato di seconda generazione originario della Bolivia, del Marocco, del Senegal o della Cina, come si rapporta con le due culture che lo caratterizzano?
Dai vari studi sul settore, si osserva, come spesso le famiglie mantengano e trasmettono alla loro prole i modelli culturali dello Stato di provenienza e i giovani che, nella sfera familiare ricevono queste impostazioni, nella sfera extra familiare, come nel contesto scolastico e amicale, ricevono stimoli della cultura occidentale, creando così una zona liminale nel quale si ritrovano a vivere. Nel mezzo di un dialogo una ragazza di origine egiziana mi ha detto che «loro si sentono fuori dal mondo, perché il mix culturale li estranea sia dall’ambiente familiare che da quello extra familiare » [1].
Dall’indagine etnografica svolta si intuisce come le seconde generazioni di immigrati, termine che si riferisce ai figli di immigrati nati qui in Italia, contestino le istituzioni italiane che, nonostante la loro nascita avvenuta in suolo nazionale, non li riconoscono come italiani ma come stranieri. Le norme vigenti prevedono che questi non italiani debbano aspettare il diciottesimo anno di vita per poter chiedere la cittadinanza italiana e giurare fedeltà alla bandiera e quindi alla nazione con le sue norme e legislazioni.
Non è di poco interesse notare come questi “non italiani”, in realtà, anche se non ufficialmente riconosciuti, manifestino sentimenti nazionalistici essendo la nazione italiana l’unica realtà che conoscono. Ma per poter comprendere meglio l’universo delle seconde generazioni, dobbiamo identificare in maniera specifica la prima generazione.
È noto che la prima generazione di immigrati si caratterizza, per lo più, nell’aver affrontato problemi di adattamento di prima necessità, di comunicazione, di relazione, difficoltà nel processo di inserimento nella società. Con la nascita dei figli le interazioni si intensificano, si ricercano ad esempio le scuole più adatte per i figli per facilitarne il riconoscimento e l’inclusione. L’immigrazione perde cosí la sua connotazione di status temporaneo assumendo caratteri più decisi di radicamento e di stabilità: da ingresso in un Paese straniero per cause di lavoro, quindi con permesso di soggiorno come straniero, a residenza e acquisizione di cittadinanza, entrando così nei censimenti della popolazione, in qualità di cittadino.
Il loro innesto in società, generalmente, si caratterizza in forme di mutuo soccorso all’interno della comunità locale di appartenenza. Per fare un esempio, all’interno delle moschee o dei centri di culto, sfruttando il principio della umma, gli aderenti alla religione islamica, trovano sostegno, sociale e finanziario, per potersi inserire nel nuovo tessuto urbano, con il supporto per imparare la nuova lingua e i sussidi conoscitivi necessari per superare le tante inerzie della burocrazia..
Il sociologo algerino Sayad (2002: 14), ha illustrato criticamente come
Altri sociologi, come Bastenier e Dassetto (1995), hanno fatto notare come il rapporto tra immigrati ed istituzioni della società ricevente si intensifica nel momento in cui nascono dei figli o iniziano dei processi di ricongiungimento familiare o di scolarizzazione, facendo così arrivare l’immigrato ad un processo completo di “cittadinizzazione” [2].
Le seconde generazioni di immigrati si muovono attraverso un piano tridimensionale nell’ambito della società globale. Le loro dinamiche si basano infatti sull’epoca storica della prima migrazione a cui fanno riferimento (la famiglia nucleare), sull’appartenenza di origine della propria cultura (nazione di origine), sulla loro integrazione nazionale o regionale di destinazione (nazione ospitante). La miscellanea di questi tre elementi contribuirà alla formazione dell’individuo e al suo concetto di identità.
Fattori come i meccanismi di arrivo e di accoglienza genereranno dei “sentimenti” o dei “risentimenti” verso lo Stato ospitante, così come ad esempio le motivazioni e le modalità di “abbandono” dello Stato di origine potranno produrre delle avversioni o delle frustrazioni. Si osserva come a volte le famiglie nucleari cerchino di mantenere in maniera pedissequa gli usi e i costumi tradizionali, senza cercare un incontro o un confronto con quelle abitudini e stili di vita del Paese ospitante che potrebbero produrre dei comportamenti ostili verso uno dei due modelli culturali.
Pertanto accade che, intervistando i figli di migranti, ci accorgiamo di come è frequente riscontrare la presenza di “minoranze nelle minoranze”, ritenendo più opportuno utilizzare il concetto di pluralità di gruppi umani nello stesso Paese, nonché di una pluralità di popolazioni che formano il quadro migratorio d’insieme di un luogo: il riferimento al plurale nell’ambito delle seconde generazioni è pertanto forma quasi naturale di interpretazione del fenomeno.
Analizzando gli elementi costitutivi del rapporto vigente tra la prima e la seconda generazione si registrano infatti dei meccanismi di discontinuità: ad esempio nei percorsi personali che compiono i figli per integrarsi nella società in cui vivono. Le seconde generazioni procedono in un progetto diverso da quello dei genitori nell’ambito dell’inserimento nel contesto cittadino di adozione. Essi cominciano dalla scuola a vivere la nuova città, crescono con ritmi e costumi più vicini a quelli dei ragazzi autoctoni rispetto ai conterranei: è inevitabile quindi che le scelte professionali e di formazione dei ragazzi di seconda generazione siano meglio definite e più ambiziose. Le forme di integrazione subalterna saranno quindi accettate difficilmente. Come afferma Toscano (2015: 96):
Concetto che si può cogliere nelle parole di Iman, ragazza di 26 anni, membro dell’associazione Italeya, quando racconta di come lei in Italia stia inseguendo il suo sogno di musicista e come in Egitto non lo avrebbe potuto fare.
Il principio al quale si riferisce l’informatrice riprende il concetto di hagat fargh’a [4], espressione che viene utilizzata per indicare quelle attività futili secondo la tradizione culturale egiziana. A quanto riferiscono gli informatori di Italeya, in Egitto, la figura del musicista non è considerata di grande rilievo sociale e il lavoro da musicista non è valutato redditizio. Come riporta Omar [5], informatore di 30 anni, «vivendo in Italia posso portare avanti la mia passione qual è la musica, anche se la famiglia, riprendendo il principio hagat fargh’a, non mi supporta totalmente».
La ricerca dell’identità è un altro elemento di discontinuità nel rapporto tra la prima e la seconda generazione. Un nuovo italiano [6] crea e struttura il proprio senso di identità a seconda della dimensione sociale in cui vive. Non è possibile scindere questo stadio di formazione del carattere, dal conflitto interno di un giovane nella fase adolescenziale. Le seconde generazioni, vivono, nel loro complesso, una forma di “trapasso culturale”, trovandosi a far fronte alla situazione in cui da una parte hanno in eredità le proprie tradizioni d’origine, nelle forme religiose, di usi e costumi e dall’altro c’è la società di adozione contraddistinta dai propri modi di concepire la quotidianità e la vita.
Questa dicotomia si coglie nelle testimonianze raccolte durante l’incontro ad Italeya. Ramy, 28 anni, afferma che «qui mi sento un italiano, in Egitto mi sento uno straniero» [7], mentre Samer, 22 anni, aggiunge
I giovani immigrati che si stabiliscono in nuovi Paesi hanno quindi da affrontare una ricostruzione vera e propria del proprio orizzonte esistenziale, in termini a volte anche conflittuali e di sfida. Altro fattore determinante che può produrre problematiche nel percorso di riconoscimento della propria identità, lo ritroviamo nel modo e nel contesto in cui avviene l’inserimento del giovane. La scuola, ad esempio, è il luogo privilegiato in cui si dispiega l’interazione tra i giovani immigrati di seconda generazione e i ragazzi italiani. Si aggiunga. inoltre, la rilevanza che assume in queste dinamiche il tema della cittadinanza.
La legislazione attualmente in vigore è assai restrittiva: diventare cittadini italiani al giorno d’oggi per un immigrato, sia di prima che di seconda generazione, significa possedere determinati requisiti, in base ai quali la cittadinanza non può che essere concessa dalle autorità. La legge del 5 febbraio 1992, n. 91 che regola il diritto di cittadinanza in Italia è basata sullo ius sanguinis [9]:
Non prevede, infatti, lo ius soli [10], cioè il diritto che si acquisisce, come accade per chi nasce ad esempio negli Usa, per il fatto stesso di emettere il primo vagito sul suolo italiano, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Dunque, lo status giuridico dei bambini, figli di immigrati, cui capita di nascere in Italia, è inestricabilmente legato alla condizione dei genitori: se i padri ottengono la cittadinanza (compiuti dieci anni di residenza legale) questa si trasmette automaticamente anche ai figli minorenni. Infatti l’Art. 9 afferma che
Nell’ambito della società e del rapporto con i coetanei i ragazzi delle seconde generazioni sentono di essere interpreti di valori nuovi per la società ricevente e allo stesso tempo avvertono la necessità di adeguarsi alle norme e alle consuetudini del luogo dove risiedono. Da quel momento scattano i meccanismi di assimilazione di nuovi usi e costumi, accompagnati a volte da un rapporto conflittuale con questi stessi, dovuto alla difficile comunicazione da un lato con i ragazzi autoctoni, dall’altro al timore di tradimento delle proprie origini culturali. Si suole per questo affermare che le seconde generazioni di immigrati vivono in bilico tra appartenenza ed estraneità, tra fedeltà e adattamento.
L’aggregazione dei giovani intorno ad identità religiose ed etniche (“arabi”, “maghrebini”) e l’insorgere di manifestazioni anche violente di conflitto sociale nelle periferie ad alta concentrazione di popolazioni immigrate sono quindi interpretati da diversi studiosi come l’effetto di questa dissonanza tra socializzazione culturale implicitamente riuscita ed esclusione socio-economica. In questo senso la diversità religiosa, riscoperta come tratto identitario e oppositivo, può diventare il catalizzatore di una condizione di esclusione. Come afferma Hervieu-Léger (2003: 103)
Cogliendo lo spunto riflessivo dall’antropologo Smith (2000), possiamo ipotizzare che, se si identificano in maniera ridotta forme culturali esotiche o tradizionali, è pur vero che altre identità culturali tendono a rigenerarsi, a ricomporsi e a ricostruirsi, anche se in maniera diversa. I processi di globalizzazione e quindi di scambio di comunicazioni a livello mondiale hanno subìto una notevole accelerazione. Il movimento migratorio che caratterizza la nostra epoca con la decisione della maggioranza dei soggetti di stabilirsi in maniera fissa in società diverse dalla propria, è conseguente alla scelta dettata dalle necessità che emergono da cause sociali economiche e politiche presenti nel Paese d’origine.
Emigrare vuol dire non solo andare via di casa, ma in molti casi significa non avere la possibilità di pianificare in termini temporali il proprio ritorno in patria. L’obiettivo, per chi ha una famiglia con figli, o per chi la famiglia se la crea nella nuova patria, è anche di crescere i propri ragazzi in una società che può dar loro una possibilità di “riscatto” in termini sociali ed economici. Da qui la condizione di ambigua o doppia appartenenza delle seconde generazioni.
Con l’indagine empirica, si è cercato di individuare gli elementi caratterizzanti gli aspetti sociali e culturali della vita di un giovane immigrato. Quattro sono gli elementi in comune che caratterizzano le interviste di tutti i soggetti:
L’alto numero di richieste di cittadinanza presentate dai migranti e dai loro figli e le continue istanze di riconoscimento dello stato di cittadino italiano dei nati in territorio nazionale, sta finalmente suscitando una più avvertita sensibilità nelle istituzioni che hanno iniziato l’iter legislativo per la riforma del diritto della cittadinanza italiana che presto potrebbe basarsi su un accertato percorso scolastico: ius culturae [11].
Questo nuovo principio, ancora all’esame del Parlamento, nasce per rispondere all’esigenza dei figli dei migranti che, nati nel suolo italiano o che si siano trasferiti entro il compimento del dodicesimo anno di età, hanno svolto i loro studi all’interno dei confini nazionali per almeno cinque anni, conclusi i quali la cittadinanza si acquisisce per dichiarazione di volontà espressa all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza da un genitore legalmente residente in Italia o da chi ne detiene la patria potestà entro il compimento del diciottesimo anno di età del richiedente. In questa nuova norma viene inserito anche il principio di naturalizzazione, che ha carattere discrezionale da parte delle istituzioni, e interessa chi ha fatto il proprio ingresso prima del compimento del diciottesimo anno di età e che sia legalmente residente da almeno sei anni avendo concluso un ciclo di studi.
Con l’inserimento di queste nuove riforme istituzionali sulle modalità di acquisizione della cittadinanza italiana potremmo superare l’impasse in cui attualmente siamo rispetto ai diritti dei nati in Italia da genitori stranieri. Se loro, come più volte denunciato, si sentono italiani perché nati o cresciuti in questo nostro Paese e desiderano aver riconosciuto la loro cittadinanza in qualità di italiani, con la ius culturae o la naturalizzazione potranno finalmente essere italiani, senza più vivere da italiani senza esserlo.
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