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I sentieri della memoria

Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2017 @ 00:04 In Cultura,Società | No Comments

Padru

Padru (ph. Clemente)

 di Corradino Seddaiu

Il piccolo borgo di Sa Pedra Bianca, frazione del comune di Padru, nella Sardegna nord- orientale è il paese natio di mia madre. I miei genitori emigrarono, come tanti altri da queste terre negli anni Settanta. Non essendo quindi né nato né vissuto qui, le mie visite nei territori anticamente chiamati Saltos de Joss (Salti di giù), erano limitate alle vacanze estive e talvolta a quelle natalizie o pasquali. I ricordi che conservo e che mi accompagnano sin da bambino hanno ben vivo il senso di comunità che qui si respirava. La differenza fra la città di Sassari, in cui sono nato e cresciuto, e Sa Pedra Bianca, luogo dove ancora vivono i miei centenari nonni, era palpabile, si poteva respirare.

Quando si andava a Sa Pedra Bianca per le vacanze, le prime cose che mi colpivano all’ingresso del borgo erano gli odori, diversi da quelli di una città, il profumo dei camini accesi, gli odori della flora selvatica, dei lecci e il silenzio circostante, l’accorrere festoso del cane dei miei nonni, Leoneddu, che nonostante ci vedesse una volta l’anno, riconosceva il rombo dell’auto di mio padre; così ci scortava abbaiando in maniera festosa fino alla casa dei miei nonni che era una delle ultime del borgo, come ad annunciarci.

La cosa straordinaria era vedere che oltre all’accoglienza dei nonni e degli zii, il villaggio intero si radunava, parenti e non, per porgerci i saluti e per dare il ben tornato; anche il passaparola era velocissimo, in pochissimi minuti tutti erano lì e io venivo accolto da persone che per la maggior parte non conoscevo; tutti sospendevano l’attività precedente qualunque fosse per salutare i figli della comunità che ritornavano e questo succedeva anche quando questi ripartivano, non esistevano cose o affari più importanti. Al momento di ripartire, quello delle lacrime per la nostalgia, la comunità tutta ci regalava qualcosa: formaggi, vini, dolci, pani locali che portavamo via come un qualcosa di genuino e di prezioso, dono identitario che ci rammentava quali fossero le nostre origini e che serviva come legame indissolubile nei confronti della comunità.

Era la comunità che sentiva l’esigenza di comunicare, una comunicazione attraverso la quale una comunità locale si presenta verso l’esterno, trasmette la propria immagine; l’identità che può essere rappresentata simbolicamente da un oggetto, da una maschera, da un prodotto tipico nel quale i membri si riconoscono immediatamente, e del quale gli estranei con altrettanta immediatezza riconoscono l’origine. Pensiamo oggi al significato simbolico per tutti i sardi in qualunque parte del mondo essi vivano della bandiera con i quattro mori, lo stesso significato avevano i prodotti locali che portava via con me la mia famiglia quando ci si allontanava dalla comunità originaria. A quel tempo per me questo era solo un momento triste, quello del ritorno in città e della fine dell’incantesimo.

Già dall’Ottocento gli storici hanno fotografato l’anima di questo territorio, che nella sua comunità accogliente, anarchica e riservata emerge fino ai nostri giorni. La relazione dello storico E. Costa, datata 1892, risulta essere assai esplicativa in quanto costituisce uno spaccato della vita e della situazione del territorio nel suddetto periodo. La popolazione dei Saltos de Joss contava all’epoca 1200 abitanti e viene classificata dal Costa, in base alla tipologia, in due parti:

«negli stazzi più vicini […] la popolazione conserva ancora il tipo logudorese, poiché le prime proprietà appartennero ai buddusoini, che in tempo non troppo antico ne presero possesso: un po’ con la consueta usurpazione, e un po’ per quello spirito, dirò così, d’intraprendenza, che li distingue nell’allevamento e commercio del bestiame […]. Nell’altra parte più lontana il tipo è prettamente gallurese; e di fatti vi si mantengono intatti i costumi, la lingua, l’intelligenza e il coraggio, e quella fierezza che distingue la forte razza dei corsi».

Dopo la descrizione demografica, Costa si sofferma in maniera piuttosto precisa, sulla descrizione del centro: le case sono ariose, circondate da vigne, orti e campi coltivati; la popolazione rispecchia tale ambiente: si tratta di

«una popolazione intelligente, svelta, piena di spirito e di buon senso, con non pochi proprietari agiati, ospitali, allevatori distinti di bestiame e produttori […] gli abitanti ballano di preferenza all’italiana, al suono degli organetti, e danno alle feste una nota di gaia allegria».

Successivamente Costa passa all’enunciazione di quelli che sono i veri problemi che affliggono il territorio, problemi, non di natura economica, bensì dovuti all’incuria del Comune e del Governo e alla penuria delle istituzioni sia civili che religiose.

«Non un rappresentante del Municipio; non carabinieri, non stato civile, non scuole, non strade di comunicazione, non posta, non chiesa, non prete, non medico, non medicine, non vaccinazione…Proprio nulla! Mille e duecento abitanti nel deserto, senza tutela!».

L’unica preoccupazione del Governo è quella di percepire da queste popolazioni le imposte per mezzo dei messi esattoriali, che si recano ai Salti una volta ogni bimestre. La stessa cosa vale per il Comune, che non fa altro che inviare i propri agenti per esigere il Dazio su tutti generi che la popolazione consuma. L’aver a che fare con le istituzioni per gli abitanti dei Saltos rappresenta un problema insormontabile; lo sanno molto bene coloro che devono registrare una nascita, piuttosto che la denuncia di un fatto delittuoso o il decesso di un congiunto;

 «quando nei Salti nasce un bambino, il padre di esso, o qualche pietoso incaricato, si mettono a cavallo e, percorrendo sette o dieci ore di strada, giungono all’ufficio municipale di Buddusò, per denunziarlo entro cinque giorni, con indicazioni non sempre esatte. A Padru […] non vi sono chiese ufficiate, né preti […]. Si aspettano pazientemente le feste di San Michele, di San Tomeo o di Sant’Elia, le quali ricorrono nel mese di Maggio».

Le parole di Costa nel suo resoconto evidenziano bene la situazione di queste comunità quasi ai primi del Novecento, isolate in un deserto privo di istituzioni di qualsiasi tipo, ma probabilmente anche per questo, unite e risolute, non ricche ma autosufficienti in maniera frugale, con un’etica e un rapporto costruito in equilibrio con l’ambiente circostante.

In questo scenario ha origine l’associazione culturale Realtà Virtuose. L’associazione nasce inizialmente come pagina Internet con l’intento di diffondere e condividere tematiche ambientali legate alle nuove forme di aggregazione, a quello che gli Indios sud americani chiamano il buen vivir, la resilienza dei territori in via di spopolamento, le pratiche della nuova agricoltura ad impatto zero e la mutazione conseguente dei paesaggi, tutto attraverso la lente dell’antropologia e della sociologia orientate su un’area della Sardegna nord orientale, in particolare quella dove è situato il comune di Padru, sede dell’associazione. Vi risiedono circa duemila abitanti ed è formato da dodici frazioni, di cui la più lontana dal comune, Sa Pedra Bianca, dista 12 km e sorge su una collina di 600 metri circa che si affaccia sul parco di Tepilora, recentemente dichiarato patrimonio dell’Unesco. Attualmente ci vivono 60 abitanti ed è proprio qui che abbiamo voluto localizzare l’ associazione.

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Pagliaio nelle campagna di Padru

Nel 2016 dopo la partecipazione al primo festival dei piccoli paesi “Vieni a prendere un caffè ad Armungia”, viene fondata l’associazione culturale cui partecipa un nucleo di giovani eterogeneo formato fra gli altri da sociologi, archeologi, grafici, musicisti, operai forestali e che continua ad avere nella sua pagina Internet una finestra fondamentale per la promozione delle attività. Realtà Virtuose ha iniziato l’attività cercando di valorizzare un progetto partito dal basso grazie ad alcuni giovani del luogo che consisteva nel far rivivere le numerose fonti e risorgive del territorio.

Sa Pedra Bianca ha un territorio ricco di sorgenti, di fonti e di fiumi, la gente del posto tutt’oggi non acquista l’acqua in bottiglie di plastica come la maggioranza delle persone. Pur avendo l’acqua corrente, si reca nelle vicine fonti dove sgorgano acque purissime per riempire taniche e bottiglie per tutti gli usi, ritenendola notevolmente superiore sia a quella del rubinetto sia a quelle commercializzate.

È quasi un rito quello di recarsi alle fonti che accomuna persone che vengono dal circondario e da comuni più lontani, che ne riconoscono il valore qualitativo ma anche quello simbolico e affettivo, riabbracciando un contatto diretto con la natura, la fonte come un seno materno, che continua a saziarti. A volte la tradizione viene anche tramandata e i figli di questa comunità che magari non vi risiedono più, quando si recano a Sa Pedra Bianca, magari in occasione di visite a parenti o per altri motivi, sono soliti rifornirsi di acqua da portare a casa.

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Sorgente di Sa Tuitta, località San Enas

L’importanza delle fonti e dell’acqua in generale è stata al centro dell’attenzione di una iniziativa che ha coinvolto le generazioni più giovani di questa piccola comunità attraverso il recupero e il ripristino di un’antica sorgente. La fonte in questione si chiamava Sa Tuitta  da Sa Toa Pianta, in località Sas Enas.  I ricordi dei più anziani parlano di un luogo frequentato, immerso in un bosco di lecci secolari e rocce granitiche; l’acqua sgorgava direttamente dalla roccia, creando poco più a valle delle piscine, pojos, spesso in estate si andavano a fare dei pic-nic per godere del fresco del posto, dagli alberi non filtrava il sole e l’acqua sgorgava fresca; poco più a valle vi erano alcuni orti che venivano irrigati a caduta proprio dalla sorgente, l’irrigazione avveniva attraverso un canale scavato nella roccia che aveva il compito, come canale principale (sa cora manna), di portare l’acqua, dalla sorgente sulla sommità del pendìo a tutti gli appezzamenti sino alle pendici della valle, attraverso una serie di piccole canalizzazioni secondarie.

Le testimonianze raccolte ricordano i litigi per l’approvvigionamento dell’acqua quando qualcuno ne interrompeva il deflusso agli orti attigui o posti più in basso. L’acqua era una risorsa scarsa soprattutto per i frequenti e altalenanti periodi di siccità, orti fertilissimi con susine, meli, fichi ma utili anche per la coltivazione di fagioli e cipolle. Fino al 1960, le testimonianze raccontano che il rio che si formava dalla caduta a valle delle acque veniva frequentato anche per lavare i panni soprattutto nella stagione estiva.

Negli anni ‘80 vennero effettuati dei lavori in maniera maldestra per cercare di incanalare l’acqua in un deposito che avrebbe dovuto servire le case a quel tempo ancora sprovviste di acqua corrente. Il risultato fu disastroso. Oltre  allo scempio con estirpazione di piante secolari e scavi nella roccia, l’acqua scomparve e la fonte si prosciugò; stessa sorte subirono gli orti poco più in basso che a causa della mancanza d’acqua perirono progressivamente. Quello che era un posto rimasto intatto per migliaia di anni e che aveva dissetato uomini, animali e piante, nel giro di poco tempo era diventato una piccola cava arida. Con il passare degli anni per fortuna, anche se i segni dell’imperizia e della violenza dell’uomo rimangono ben visibili, l’acqua, pochissima, ha iniziato a sgorgare nuovamente, come fosse consapevole della nostra coscienza mutata, ci volesse dare una seconda possibilità.

Alcuni giovani della comunità hanno pensato quindi che sarebbe stato bello ritornare a riassaporare l’acqua di Sa Tuitta e non certo perché mancassero altre fonti, bensì come una sorta di omaggio al territorio e alla sua comunità, come a volere chiedere scusa per non essere stati in grado di difenderla in passato. Si sono raccolte così piccole somme di denaro attraverso una colletta cui hanno contribuito le persone della comunità per acquistare il materiale necessario a raccogliere l’acqua in un tubo che l’ha trasferita più a valle creando una seconda fonte alimentata dalla stessa acqua, ora disponibile per tutti, ripulendo il luogo e donandole nuova vita con tavoli in granito e una piccola area di sosta sempre frequentata da coloro che vogliono dissetarsi di questa antica acqua. La forza insieme all’importanza che la comunità locale attribuisce anche oggi all’acqua che facilmente raggiunge le nostre case e che può essere comprata in qualunque negozio, sembra la stessa del passato dove questa non era così scontata e quindi consapevolmente rispettata e benedetta. Inoltre il luogo originario della fonte lasciato a se stesso è diventato un esempio di  quello che oggi prende il nome Terzo Paesaggio dove l’arretramento dell’uomo lascia spazio alla natura che cerca di ricucire alcune ferite e liberamente decide il suo destino.

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In cammino verso la fonte Sa Tuitta

Il primo progetto autonomo dell’associazione ha avuto come obiettivo quello di riscoprire le antiche vie di comunicazione fra i borghi della zona, in alcuni casi completamente abbandonati agli inizi del Novecento, attraverso un iniziativa denominata I sentieri della memoria. Per intraprendere queste passeggiate culturali lungo gli antichi sentieri ricchi di storia ci siamo avvalsi metodologicamente di interviste a campione alle persone più anziane che avevano vissuto in particolare in uno di questi borghi abbandonati denominato Giuscherreddu. Ciò ha consentito di comparare i dati e di verificare l’affidabilità della memoria condivisa. L’evento che si è tenuto il 16 ottobre scorso ha avuto una partecipazione inaspettata, giovani e anziani hanno voluto ripercorrere insieme a noi queste vie dimenticate proiettandole verso un futuro nuovo. Piacevolmente sorpresi abbiamo arricchito le nostre conoscenze  attraverso i racconti delle persone che durante il percorso si fermavano per ricordare l’importanza di quel singolo posto, raccontandone aneddoti ed episodi, ricordi di giornate di festa, di danze dopo un raccolto incredibilmente accumunati ad una descrizione di festa presente nel libro Il paesaggio fragile di Antonella Tarpino, ben lontano dalla Sardegna,

 «faceva sognare la fisarmonica e le danze di chi partecipava alle danze. Trasgressioni, unico modo per uscire dal ferreo controllo famigliare ma anche dell’intera comunità ci raccontavano gli anziani del luogo. Contemporaneamente  in un’altra parte della penisola, faceva sognare il piffero, la musica suscitava passioni, suggellava amori o più prosaicamente contratti matrimoniali, assecondava trasgressioni. Nelle danze sulle dure e sconnesse aie contadine, rinsaldando ogni volta i legami comunitari: al di là dei crinali, della rete dei fiumi e delle montagne a scavallo».

Certo, la fonosfera non era più la stessa, non si sentiva più il rumore dei carri carichi trainati dai buoi che scendevano e salivano lungo questi pendii accompagnati dal vociare delle genti, ma come ci ha raccontato un anziano pastore emozionato, sorpreso lungo il cammino da questa processione, era per lui una felicità immensa vedere che qualcuno ritornava a percorrere queste strade frequentate ormai solo dagli animali e dove la natura sta lentamente riappropriandosi dello spazio che nei secoli scorsi l’uomo le ha levato.

4Arrivati al borgo disabitato di Giuscherreddu che in passato ospitava circa 70 persone, abbiamo condiviso le storie raccontate dagli anziani in particolare quella leggendaria de Su Mascadore,  un folletto che si dice una volta catturato, pur di riacquistare la libertà era in grado di elargire beni e di soddisfare qualsiasi richiesta. Fra gli anziani intervistati, tutti hanno confermato di avere avuto a che fare personalmente con Su Mascadore o almeno di averne sentito parlare dai racconti degli avi; in particolare una persona che a suo tempo aveva abitato il borgo ha raccontato con tanto di minuziosi dettagli sia la cattura del folletto sia la richiesta per la liberazione. L’anziano voleva possedere tante mucche  e il folletto Mascadore, dal racconto, pare abbia indicato un formicaio lì vicino e improvvisamente ogni formica che ne usciva si tramutava in bovino, tant’è che ancora oggi esiste solo nel territorio una razza di bovini denominata Mascadore, originata dal folletto. Il nome Mascadore deriva da un fungo presente nella zona che una volta essiccato, nel periodo carnevalesco veniva utilizzato per colorare il viso come si fa con il carbone in altre parti della Sardegna; una delle tesi non avvalorata comunque da nessuna prova scientifica è che il fungo avesse proprietà allucinogene e quindi inducesse negli individui visioni e stati di alterazione riscontrati anche in altre popolazioni che ne fanno uso nei rituali. Verità o leggenda quella de Su Mascadore è una memoria come tante altre che rischiava di essere dimenticata e che iniziative come questa mirano a conservarla riattualizzandola.

Il progetto in corso e forse quello più complesso di Realtà Virtuose, ancora in fase di elaborazione, è la creazione di una mappa sonora del territorio. Attraverso l’utilizzo di una tecnologia specifica e della professionalità di un sociologo e musicista, membro fondatore dell’associazione, e di un tecnico grafico, andremo nei posti più significativi per registrarne i suoni. In particolare ci dedicheremo ai suoni dell’acqua, registrando i fiumi, le sorgenti e le cascate numerose nella zona, ma anche al rumore delle rocce nelle giornate di vento, ai suoni dei borghi abbandonati e di quelli ancora abitati. Suoni e rumori delle botteghe artigiane, degli armenti al pascolo, delle api nei pressi dei loro alveari e suoni e voci di questi borghi ascoltati in lontananza. Metteremo tutto in rete e chi avrà l’occasione potrà finalmente avvalersi della possibilità di sentire i suoni di un territorio e cercare di immaginarne il paesaggio e la storia. Inoltre questo tipo di suoni ultimamente sono molto ricercati dai musicisti che vogliono arricchire le composizioni musicali, e ci aspettiamo si possa creare musica grazie ai suoni che sono il respiro profondo del paesaggio proiettandolo in altri paesaggi immaginari e rendendolo vivo anche in un’altra dimensione.

Inizialmente l’associazione ha dovuto affrontare sia la diffidenza, ma soprattutto l’indifferenza dei locali e delle amministrazioni alle attività dei “ritornati” e di esterni, ma con piacere e anche con sorpresa, possiamo affermare che siamo riusciti a smuovere qualcosa e soprattutto ad essere accettati e riconosciuti. Molto spesso l’accusa è quella che i cosiddetti ritornanti o aspiranti tali non abbiano diritto di interferire sulle dinamiche dei  nativi, auspicando una improbabile e spesso deleteria autodeterminazione.

Un’importante ricerca di un sociologo americano su una cittadina che sorgeva ai margini di un lago, frequentata  soprattutto in estate da numerosi  turisti con seconde case, metteva in luce  il contrasto fra “nativi” e  residenti temporanei. Contrasto che si presentava principalmente nel momento in cui dovevano essere prese decisioni sulle nuove opere ma anche sull’ordinaria amministrazione del territorio. I nativi arrogavano a sé il diritto di pesare di più nelle assemblee quasi per diritto di nascita. Giusto per citare uno dei tanti profili emersi dalla ricerca, i locali nonostante i dati evidenziassero, ad esempio, la necessità di tutelare maggiormente la fauna locale in via d’estinzione in particolare del cervo, si opponevano fortemente alla restrizione alla caccia dell’animale, nonostante buona parte degli introiti del turismo arrivasse dai visitatori che venivano per fotografarlo e ammirarlo in quel contesto e non appeso sopra i banconi dei locali pubblici come trofeo. Lo stesso dicasi per una maggiore attenzione per la raccolta differenziata dei rifiuti, ostacolata dai residenti fissi e auspicata dai villeggianti, a tal punto che molti di questi ultimi trasferivano la propria residenza pur di avere voce in capitolo, aprendo un vivace dibattito culturale nella comunità.

Tutto questo a dimostrazione che spesso  la mancanza di visione dei nativi può arrivare a mettere in pericolo il futuro della comunità stessa  adottando politiche miopi e di chiusura verso l’esterno. Pierre Bourdieu  parla di capitale culturale che spesso arriva dall’esterno e produce un fenomeno che Pietro Clemente ha chiamato “gentrificazione felice”, laddove i nuovi abitanti, i villeggianti con seconde case, i ritornanti ma anche gli esterni con nuove idee e progetti culturali costituiscono una risorsa fondamentale e strategica, tant’è che i paesi a rischio senza entrate di capitale culturale nella maggior parte dei casi tendono più all’implosione che allo sviluppo, e spesso sono logorati da interessi corporativi e conflitti locali.

Pensiamo che spetti anche alle parole della memoria riparare il paesaggio fragile e, come nell’immaginario romantico spesso si vedeva nella solitudine della montagna l’unico rifugio possibile per chi ha infranto l’ordine, oggi la montagna e i territori marginali, attraverso un nuovo sguardo olistico, diventano rifugio anche per i nuovi eretici, giovani che ritornano per rimodellare il paesaggio e per far rivivere i borghi con un approccio altro. Un incontro sincretico che contempla e mischia le conoscenze dei vecchi contadini che hanno resistito in quei luoghi e a quei luoghi e le conoscenze e i nuovi stili di vita di coloro che saranno l’avanguardia probabile di una nuova società di cui la green economy è solo una piccola anche se non trascurabile parte.

Per esorcizzare la paura dell’abbandono, dello spopolamento e della perdita della memoria prendiamo a prestito le parole della poesia di S. Ottanelli, poeta occitano che declama la sua paura in questi versi.

«Quando la neve sui vicoli luccicherà senza nessuna orma, quando nessuna voce, nessuna preghiera fiorirà sulla soglia nodosa delle case, quando il vento spalancherà le finestre e nessuna mano pietosa le tratterrà, mi nasconderò e avrò paura».

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
Riferimenti bibliografici
CLEMENTE P., 2016, Il centro in periferia, in Testimonianze”, Rivista fondata da Ernesto Balducci, L’Italia dei piccoli centri: 507-508.
COSTA E., 1892, Salti di Gioss, 13 settembre 1832. Relazione.
TARPINO A. , 2016, Il Paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi Torino
La poesia di S. Ottanelli è contenuta in TARPINO 2016: 49.
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Corradino Seddaiu, nato a Sassari, laureato in Sociologia a La Sapienza di Roma con una tesi dal titolo “Paesaggi culturali. L’esempio dei Saltos de Joss nella Sardegna nord orientale”, è Presidente dell’Associazione culturale Realtà Virtuose, che opera nel nord Sardegna, con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo e la valorizzazione dei piccoli borghi con un’attenzione particolare alle tematiche ambientali e sociali locali orientate verso il cambiamento dei paradigmi in agricoltura e nel turismo. Attualmente collabora con sociologi della musica e tecnici del suono per la realizzazione di una mappa sonora dei territori (fiumi, risorgive, borghi abbandonati, chiese, botteghe artigiane) al fine di creare un archivio sonoro a disposizione della collettività e di artisti che ne vogliano rielaborare i suoni e i rumori dando vita a musica e forme d’arte.

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