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I riti di contestazione durante il confinamento pandemico

Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 00:25 In Cultura,Società | No Comments

copertinadialoghi sul negazionismo

 di Giovanni Gugg

 Introduzione: il pericolo invisibile

Una delle caratteristiche degli esseri umani è che fanno più del “registrare” il loro ambiente: non solo vedono, ascoltano, toccano, odorano, ma interpretano. Attraverso le esperienze corporee, gli esseri umani percepiscono l’ecosistema, ma soprattutto lo giudicano, lo sognano, lo immaginano, lo “producono”. Tutto ciò avviene in maniera pressoché spontanea, ma assume un carattere peculiare nel caso di stimoli invisibili come oggetti microscopici e fonti energetiche, di cui è possibile percepire solo i loro effetti e non la loro fisicità. In questo caso le reazioni all’invisibilità si collocano entro due estremi radicalmente opposti: da un lato un’invisibilità cognitiva che rende particolarmente difficoltoso rapportarsi ad una determinata minaccia della quale manca ogni esperienza corporea, come ad esempio la contaminazione nucleare citata da Gianluca Ligi tra i pastori Saami in Lapponia dopo la nube radioattiva di Chernobyl (Ligi 2009); dall’altro lato la costruzione di una rappresentazione che spieghi e dia coerenza all’inquietudine generata dalla mancanza di conoscenza esperita (Jedlowski 1994). Ma che tipo di rappresentazione?

Durante la pandemia in corso di Covid-19 siamo tutti esposti ad una sorta di continua oscillazione tra sensazioni, emozioni e conoscenze, e siccome nessun gruppo umano è un blocco sociale compatto e uniforme, ma stratificato ed eterogeneo, anche in un fenomeno così invasivo per l’umanità intera osserviamo letture e atteggiamenti diversi, talvolta “assurdi” ai nostri occhi o “incoerenti” per la sensibilità di altri. Tale indeterminatezza comporta il disorientamento che alcuni provano dinanzi a situazioni che «si sottraggono alla percezione, e sono localizzati nella sfera delle formule fisiche e chimiche» (Beck 2001: 28). In altre parole, dinanzi a rischi futuri ora solo probabili o ipotetici, ad onde radio impalpabili o a virus infinitesimali, le nostre reazioni non sono scontate, né prefissate, ma sono un campo aperto tra “catastrofisti”, “fiduciosi” e “fatalisti”, dice Mary Douglas (1996), a cui tuttavia ora bisogna aggiungere anche “minimizzatori”, “revisionisti”, “opportunisti”, “procrastinatori”, fino a “negazionisti” e via dicendo.

chiesa-coronavirus-3La socialità necessaria

Una delle reazioni collettive ai mesi di isolamento casalingo tra marzo e maggio 2020 è stata quella dei “riti in emergenza”, ossia pratiche laiche o religiose, di ritorno o completamente inedite, con cui abbiamo contribuito a mantenere viva la nostra socialità. Nel numero scorso di “Dialoghi Mediterranei” ne ho sottolineato l’importanza individuale e collettiva, perché utili all’elaborazione del trauma in caso di disastro o di perdita, nonché per sostenersi dinanzi alle proprie e altrui fragilità e solitudini o, ancora, per unire le generazioni e il senso delle cose nonostante la frattura della calamità avvenuta (Gugg 2020a). Quei riti, dunque, svolgono un ruolo essenziale per l’equilibrio di una comunità disastrata, ma non sono sempre spontanei e, soprattutto, non sono sempre sicuri per chi vi partecipa, dal momento che in alcuni casi possono aumentare l’esposizione al rischio sia perché rallentano i preparativi all’emergenza, sia perché abbassano la consapevolezza del rischio.

Gli esempi possono essere molteplici, dalla processione dell’11 giugno 1630, resa eterna dalla letteratura di Manzoni, che contribuì a diffondere la peste a Milano, alla tragedia dell’8 aprile 1906 a San Giuseppe Vesuviano, quando oltre 200 abitanti si riunirono in preghiera nell’oratorio del Santo Spirito per chiedere la cessazione dell’eruzione, ma il tetto crollò sotto il peso delle ceneri vulcaniche e morirono 105 persone. In quella drammatica occasione l’allora direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Mercalli, scrisse: «Si dice che la storia è la maestra della vita; eppure queste storie… pare che nulla avessero insegnato. Speriamo che almeno ora ne traggano qualche utile ammonimento» (Mercalli 1906). Ma la storia, ci ricorda Maria Conforti, è un “paese straniero”, «un luogo da visitare sapendo quanto è diverso dal nostro» (Conforti 2020), infatti dopo oltre un secolo continuiamo a sentir ripetere le parole di Mercalli in varie occasioni, sia perché l’approccio attuale è volto a considerare i disastri “non naturali”, ossia sempre antropici nei loro effetti e nelle loro entità, se non addirittura nelle loro cause, sia per alcune reazioni quali possono essere, appunto, i “riti in emergenza” che, evidentemente, hanno senso e sono sicuri solo se tengono conto del contesto: assembrarsi in processione durante un’epidemia è pericoloso, così come riunirsi in un luogo chiuso durante un evento tellurico o eruttivo.

Nell’emergenza sanitaria che stiamo attraversando, durante gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo alcuni riti – laici e religiosi – sono stati tra i principali e più preoccupanti focolai dell’epidemia di Covid-19 in certe zone d’Italia. Il 23 febbraio 2020, mentre nel lodigiano alcuni comuni erano già chiusi da qualche giorno per contenere la propagazione del coronavirus, ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino, 21 persone hanno partecipato ad una festa di carnevale in un locale al chiuso e sono poi risultate positive al virus. Come spiegato su “Il Mattino” da Gianni Colucci (2020), all’origine del contagio ci sarebbe un partecipante alla festa «giunto dalla Lombardia la sera prima». Dal 28 febbraio, invece, in un hotel di Atena Lucana, in provincia di Salerno, sul confine con la Basilicata, venti cattolici neocatecumenali e tre sacerdoti hanno fatto vita comunitaria per tre giorni, seguendo i princìpi del movimento, che tra le altre cose prevedono la celebrazione delle messe al di fuori delle chiese, la distribuzione del pane azzimo ai fedeli, la condivisione del calice.

Come ricostruito su “Internazionale” da Angelo Mastandrea (2020), il contagio potrebbe essere avvenuto con la condivisione del pane, spezzato e distribuito ai fedeli da un diacono di 76 anni, poi morto a causa del virus. Dopo qualche giorno, il 4 marzo, lo stesso gruppo di neocatecumenali, più altri cinque fedeli che non erano stati presenti al primo incontro, si è ridato appuntamento in una chiesa di Sala Consilina, una cittadina poco distante. Successivamente, dopo alcuni ulteriori ricoveri tra i partecipanti, tutte le persone che avevano preso parte al ritiro sono state rintracciate, messe in quarantena e testate: 16 erano positive. In seguito il numero dei contagiati è salito a 48 e tra costoro c’era anche Alessandro Brignone, di 46 anni, uno dei tre preti presenti al primo incontro. Conseguentemente, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha disposto la chiusura di cinque comuni campani in cui si sono sviluppati i focolai (Ariano Irpino, Sala Consilina, Polla, Atena Lucana e Caggiano), utilizzando le seguenti parole in conferenza stampa: «La decisione è la conseguenza di due iniziative messe in campo da un “predicatore” ed altri suoi collaboratori, in violazione a ordinanze già in essere. Si rimane davvero indignati di fronte a questa irresponsabilità che ha prodotto decine di contagi» (De Luca 2020).

Tutto ciò è avvenuto prima del confinamento nazionale, dal 9 marzo al 18 maggio, stabilito dal premier Giuseppe Conte con il Dpcm dell’8 marzo, e prima dei comunicati delle principali confessioni religiose. Il 5 marzo l’UCOII – l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia – invitava a «chiudere i centri islamici fino alla nuova comunicazione» perché «l’Islam considera il principio della tutela della vita umana prioritario rispetto al diritto alla preghiera collettiva» (UCOII 2020). L’8 marzo la CEI – la Conferenza Episcopale Italiana – preannunciava la sospensione a livello preventivo delle «cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri», e aggiungeva che «si tratta di un passaggio fortemente restrittivo, la cui accoglienza incontra sofferenze e difficoltà nei Pastori, nei sacerdoti e nei fedeli», tuttavia lo riteneva necessario «per contribuire alla tutela della salute pubblica» (CEI 2020). Il 10 marzo, infine, l’UCEI – l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – comunicava «la sospensione delle cerimonie religiose all’interno delle sinagoghe di Roma», sottolineando che «serve uno sforzo corale e grande responsabilità per combattere l’epidemia» (Kahn 2020).

Da quel momento e fino al termine della quarantena nazionale, per oltre due mesi è stato formalmente impraticabile svolgere riti religiosi in presenza, per la semplice ragione che era vietato ogni tipo di assembramento. Nonostante ciò, però, i casi di violazione dei dispositivi di sicurezza sanitaria sono stati molteplici, sebbene diversi tra loro; è possibile infatti individuarne almeno quattro tipologie principali: i riti legati al ciclo della vita, quelli relativi al ciclo dell’anno, i riti non ufficiali e quelli effettuati (ma più spesso solo annunciati) per strumentalizzazione politica.

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Pescara, funerale di Mimmo Grosso al porto

Riti del ciclo della vita

Durante le settimane di chiusura nazionale, molti riti legati al ciclo della vita sono stati sospesi e rimandati, specie i matrimoni, mentre altri sono stati riformulati in maniera più intima o creativa, come ad esempio i compleanni, che sono stati festeggiati su Zoom e altre piattaforme telematiche, e le feste di laurea, che si sono svolte insieme ma a distanza. Tuttavia, considerando solo il caso italiano, la cronaca ha reso noto diverse violazioni delle disposizioni governative volte a contrastare l’epidemia. Se tra tali abusi non risultano celebrazioni nuziali, discorso diverso è per i battesimi, di cui c’è almeno un caso a San Gennaro Vesuviano (Napoli), dove il 19 marzo il prete, il padrino del bambino, il fotografo e i due genitori sono stati denunciati per aver effettuato il rito in una chiesa della zona.

L’infrazione più frequente, tuttavia, riguarda i funerali. Sebbene limitati o addirittura vietati, per tutto il periodo di quarantena si sono registrati casi in varie zone d’Italia, talvolta anche con conseguenze sanitarie nefaste. Tra i primi ce n’è uno a Torre Annunziata (Napoli) il 14 marzo, quando i carabinieri hanno denunciato un sacerdote che stava benedicendo una salma durante una funzione funebre non autorizzata, alla presenza di molte persone. La stessa cosa è accaduta il 23 marzo a Verona, dove il parroco si è giustificato dicendo che non si aspettava così tanta gente; il 6 aprile a Santa Maria a Vico (Caserta), dove 30 persone e il parroco hanno avuto una multa di 280 euro; il 10 aprile a Pescara, dove l’auto che trasportava il feretro di Mimmo Grosso, storico rappresentante della marineria locale, si è fermata al porto per rendergli omaggio con sirene di pescherecci, ma ciò ha determinato la multa di almeno 100 persone; l’11 aprile si sono avute polemiche a Messina per il corteo funebre del fratello di un ex boss mafioso e a Roma per quello di un ex brigatista rosso, con momenti di tensione tra i partecipanti e le forze dell’ordine. Ulteriori casi sono quello del 18 aprile a Saviano (Napoli), dove una gran folla ha dato l’ultimo saluto al sindaco Carmine Sommese, morto proprio a causa del virus, e che ha costretto la Regione a dichiarare l’indomani la città “zona rossa”, e quello del 30 aprile a Campobasso, dove un funerale della comunità rom è all’origine di un grosso focolaio che ha causato un forte aumento del numero di contagi in Molise, una delle regioni italiane meno colpite dal patogeno fino ad allora.

Il rito di commiato da un essere umano non è rinviabile, il tempo è scaduto e non si può procrastinare l’addio. È alquanto comprensibile, dunque, che proprio questo tipo di rituale rappresenti una delle voci più cospicue tra le violazioni del periodo di quarantena: il “pianto confinato” può trasformarsi in un “lutto culturale” in cui il non poter dare un senso alla morte riproduce la distanza tra sapere e comprendere, tra spiegare e sentire, perché «l’impossibilità di seppellire i defunti, di praticare i riti funebri e di elaborare il lutto può rendere la morte un habitus che alimenta se stesso» (Gugg, Valitutto 2020).

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Palermo, vampa di san Giuseppe, 19 marzo 2020

Riti del ciclo dell’anno

Nella seconda tipologia rientrano i riti collettivi relativi al periodo dell’anno in cui si è tenuto il confinamento, cioè tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. Vi sono, cioè, alcune festività patronali, ma soprattutto i riti pasquali della prima metà di aprile, senza dimenticare determinati riti laici prettamente italiani. Il primo caso è della sera del 18 marzo, quando tradizionalmente in varie zone del Sud si accendono dei fuochi (delle “vampe”) in onore a san Giuseppe, venerato il giorno dopo. Così, a Taranto l’assessore comunale alla polizia locale ha stigmatizzato chi aveva intenzione di accendere i falò, sostenendo che «in tempi di Covid-19 è da delinquenti»; a Bari si è colta l’occasione per gettare rifiuti e vecchi mobili tra le fiamme, per cui alcuni giornali hanno parlato di «sporcaccioni» che violano i divieti; a Palermo sono stati spenti sette roghi tradizionali in città e ad Ariano Irpino (in provincia di Avellino, centro già dichiarato “zona rossa” dalla Regione Campania) ci sono stati «tanti piccoli falò contro il coronavirus», allo slogan di «Covid-19: T’appicciamo».

Se in questi casi l’uso del fuoco assume un chiaro significato catartico (Buttitta 2002), nei riti della Settimana Santa cristiana si possono scorgere altri potenti elementi simbolici. La Domenica delle Palme, il 5 aprile, per alcuni è stata l’occasione per una diffusa violazione dei dispositivi governativi, quasi come una prima uscita dopo un mese di isolamento, partecipando a messe cattoliche insieme a decine di fedeli: a Filadelfia (Vibo Valentia), ad Ammeto (frazione di Marsciano, Perugia), a Ponte Valleceppi (Perugia), a Sulmona (L’Aquila), a Frascati (Roma) e nella capitale stessa, dove nel quartiere di Centocelle molte persone si sono radunate fuori dalla chiesa per benedire palme mentre il prete era sul campanile. Altra occasione rituale è stata quella della sera del Venerdì Santo, il 10 aprile, quando si sono svolte varie processioni per il Cristo Morto, sebbene in modalità molto ridotte rispetto alla tradizione.

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San Marco in Lamis, Venerdì santo, 2020

Un carattere interessante di tali cortei è che frequentemente hanno avuto luogo alla presenza di sindaci e forze dell’ordine e – novità alquanto indicativa – spesso in diretta sui social-network. Tra i tanti casi, segnalo quelli di Vico Equense (Napoli), con la partecipazione del sindaco; di Rovato (Brescia), una delle zone più colpite dal virus, dove particolarmente emozionanti sono stati i commenti degli utenti sul web (a titolo esemplificativo: «Un pianto dall’inizio… vi sento vicino con la preghiera… ho appena perso la mia mamma ed io sto ancora lottando contro questo virus…»); di Chieti, dove il vescovo era seguito da due carabinieri in alta uniforme; di Barletta, dove il rito è stato triplice, nel senso che è stato ciclico, in emergenza e di commemorazione, perché ha rappresentato anche il rinnovo di un antico voto, quello che la comunità pronunciò nel 1656 per allontanare il flagello della peste, quando – ha riferito lo speaker di una televisione locale – «le cronache raccontano che nella notte tra Giovedì e Venerdì Santo nevicò improvvisamente e l’epidemia finì» (Tele Sveva 2020). A San Marco in Lamis (Foggia), oltre 200 persone si sono ritrovate in strada, tra cui il sindaco, mentre il parroco ha ringraziato le forze dell’ordine «che hanno tollerato, questa sera». Invece a Pievetta, frazione di Priola (Cuneo), il sindaco si è rivolto al vescovo per chiedergli di fermare il parroco che aveva invitato i paesani alla Via Crucis. Infine, un caso singolare è avvenuto a Sorrento (Napoli), dove un confratello di una delle congreghe religiose che organizzano il corteo funebre di Cristo ha girato in completa solitudine per alcune stradine indossando la tunica e lo scapolare, e portando il lampione cerimoniale mentre da un balcone veniva diffusa la registrazione del coro del “Miserere”.

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Fujenti nel santuario della Madonna dell’Arco, 13 aprile 2020

Ulteriori “riti” controversi si sono avuti il giorno di Pasqua: il 12 aprile, ad esempio a Meta (Napoli), quando il sindaco e il parroco sono usciti con un’auto dei vigili urbani per benedire il paese e i concittadini affacciati ai balconi, oppure a Scafati (Salerno), dove la sera prima i carabinieri hanno trovato 30 fedeli appartenenti al gruppo dei neocatecumenali, lo stesso del ritiro spirituale di Atena Lucana di fine febbraio, in preghiera nella chiesa della piazza principale della città. In provincia di Napoli il periodo pasquale si conclude il Lunedì in Albis, con una delle feste popolari religiose più frequentate, ossia il pellegrinaggio al santuario della Madonna dell’Arco, nel comune di Sant’Anastasia: il 13 aprile, nonostante i divieti delle autorità civili e religiose, alcune decine di “fujenti” sono stati segnalati per tutto il giorno in direzione della chiesa.

Legati al ciclo dell’anno, infine, sono anche alcune cerimonie laiche, come la festa della Liberazione il 25 aprile e quella dei Lavoratori il 1° maggio. In entrambi i casi si sono segnalati assembramenti e cortei in varie zone d’Italia, come a Bologna, a Roma e a Milano, talvolta con scontri tra manifestanti e polizia, e con strascichi polemici tra politici. Entrambe le occasioni sono state promosse soprattutto da persone di sinistra, ma un caso di colore politico opposto è quello della cosiddetta “marcia su Roma” indetta da un gruppo che, organizzandosi attraverso una chat su Telegram e un gruppo su Facebook, ha dato appuntamento in piazza San Giovanni a Roma per «protestare contro il governo»; tuttavia questa iniziativa si è rivelata un “flop” (Vigneri 2020).

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Napoli, ingresso della moschea

Riti clandestini

Alla terza tipologia di “riti di contestazione” si riferiscono svariate celebrazioni non legate a occasioni canoniche e che, a rigore, possono essere considerati riti prettamente emergenziali perché motivati esplicitamente dall’urgenza sanitaria dovuta al nuovo coronavirus. Si tratta di riti formalmente molto diversi tra loro, ma che si sono ripetuti con regolarità durante l’intero periodo di quarantena, soprattutto nel primo mese, dunque fino a Pasqua. L’11 marzo a Laconi (Oristano) si è tenuta una processione «per evitare l’arrivo del coronavirus» (Pintori 2020) e nello stesso giorno a Palermo molti fedeli italiani e stranieri hanno invocato santa Rosalia presso il suo santuario: «Liberaci tu dalla nuova peste come sconfiggesti l’epidemia del 1600» (Anello 2020). Il 13 marzo a Sassuolo il sindaco e le parrocchie hanno tenuto «un momento di affidamento e preghiera alla Vergine Maria per affidare alla sua protezione la città» e, in seguito alle polemiche per l’assembramento, il primo cittadino ha specificato che «si è trattato di un solo istante, per il bene di tutti noi» (Repubblica Bologna 2020). Dopo qualche giorno, il 16 marzo, poco distante, a Maranello, è avvenuta la stessa cosa: una preghiera collettiva senza rispettare le distanze, per cui 23 persone sono state denunciate. A Napoli, invece, sempre quel giorno sono state scoperte decine di musulmani in preghiera in un garage, che ha dato motivo a qualche protesta da parte dei residenti nel quartiere: «Vi abbiamo accettato, quando vi incontriamo vi salutiamo, vi aiutiamo se avete bisogno e voi ci mettete la vergogna in faccia» (Di Giacomo 2020). Un caso simile è avvenuto il 20 marzo a Settimo Torinese, dove la polizia locale ha sgomberato un magazzino con 30 cattolici riuniti a pregare, i quali si sono giustificati dicendo che «hanno chiuso le chiese, qui ritroviamo Dio» (Bucci 2020). Gli esempi possono proseguire a lungo, come il 21 marzo a Nocera Inferiore (Salerno) per una preghiera collettiva clandestina in canonica, o come il 22 marzo a Rocca Priora (alle porte di Roma) per la celebrazione di una messa per la quale il parroco si è giustificato dicendo che «le regole vanno rispettate, però anche la preghiera è un bisogno che aiuta le persone a vivere meglio» (HuffPost 2020).

In questi casi le ragioni addotte dalle persone coinvolte sono molto indicative, tra invocazioni di protezione al divino, minimizzazioni sul numero dei partecipanti o giustificazioni relative al bisogno spirituale. Argomenti simili sono stati avanzati anche da altre personalità, tanto da parroci di piccole parrocchie, come don Rino Pittarello a Padova («Divieti? Il mio capo è Dio, non certo Conte») e don Gianni Sini a Olbia («C’è lo zampino del diavolo, sta godendo per questa pandemia che ha portato a chiudere le chiese»), quanto da vari intellettuali cattolici sui principali giornali nazionali, come lo storico Franco Cardini («Un tempo contro le epidemie si pregava, oggi si chiudono le chiese»; cit. in Galeazzi 2020), il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi («Giusto evitare gli affollati funerali. Ma non si capisce, perché siano interdetti culto e preghiere, se celebrati in sicurezza»; Riccardi 2020) e lo scrittore Davide Rondoni («Non lasciate che la Messa sia equiparata a un concerto. È pane, vino, ne abbiamo fame»; Rondoni 2020).

174Strumentalizzazioni politiche del sacro

Come ha documentato la giornalista Flavia Amabile (2020), alla fine di aprile in una parrocchia di Roma un sacerdote ha incitato alla rivolta durante una sua omelia, quando dall’altare, celebrando la messa davanti ad un ristretto numero di fedeli, ha invitato a ribellarsi alle restrizioni ancora in vigore contro il diritto di culto: «Uscite dalle catacombe e chiedete l’apertura delle chiese. Tutti i credenti devono uscire come sono usciti i miei connazionali [polacchi] nella dittatura [comunista] per chiedere l’apertura al culto». Questa argomentazione è stata usata anche per motivare i “riti di contestazione” che ho classificato in una quarta tipologia, ossia quelli con minori ragioni religiose, ma ampiamente sfruttati per fini politici, avanzati soprattutto da partiti e movimenti di estrema destra, con particolare insistenza nei giorni antecedenti la Pasqua.

Il 6 aprile i militanti di Forza Nuova hanno annunciato una processione per la domenica successiva, quella di Pasqua, «contro gli arresti di massa, contro la quarantena, contro i divieti. Una mobilitazione per la libertà, per tornare a lavorare, per tornare a Messa, per tornare a vivere». In tutto il comunicato non c’è alcun riferimento alla Resurrezione di Cristo, ma l’unico riferimento al sacro è nella necessità di tornare a messa, mentre tutte le altre ragioni sono espressamente politiche. Nonostante gli inviti alla Prefettura e alla Questura di Roma, da parte di vari democratici, per impedire la mobilitazione, il leader romano dei neofascisti, Giuliano Castellino, non ha moderato i toni ma, anzi, ha ribadito che lui e i suoi non si sarebbero fermati perché il «nostro grido di libertà non può essere soffocato da nessun provvedimento o decreto, da nessuna quarantena o dittatura, presente e futura». Il proclama, poi, ha deviato su un ventaglio cospirazionista (Tassinari 2020) che si sarebbe svelato ancor più ampiamente nei mesi successivi, in varie manifestazioni cosiddette “no-mask” e “anti-5G”, specie ai primi di settembre (Gugg 2020b). Tuttavia, per restare alla cronaca della “processione” dei forzanovisti, poi questa ha radunato pochissime persone, sei delle quali identificate e multate (Ruggiero 2020).

Negli stessi giorni anche la Lega di Matteo Salvini ha chiesto la riapertura delle chiese per Pasqua e, anzi, il capogruppo di quel partito al comune di Cecina, Lorenzo Gasperini, si è spinto in proposte dettagliate, perché in un post su Facebook ha chiesto «una speciale deroga, ma solo agli uomini», anzi ai «capifamiglia» (Marchina 2020). Nella stessa area politica, tuttavia, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha preso le distanze da tali iniziative, dicendo che il rischio di vanificare gli sforzi della quarantena sarebbe stato troppo alto, per cui era preferibile assistere alle celebrazioni in streaming (La Mattina 2020).

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Corteo negazionisti a Roma

Conclusioni: una contestazione contraddittoria

L’articolarsi di tutte queste celebrazioni – improvvisate, forzate, clandestine, interrotte – concorrono a esporre uno stato d’animo che, pur con tanti diversi a priori e con altrettante varie finalità, è riconoscibile in milioni di altre persone che, tuttavia, sono riuscite a tenere sotto controllo le proprie inquietudini e necessità. In altre parole, ciascun rituale che ha violato le disposizioni sanitarie e governative durante il periodo della quarantena ha espresso un momento altamente emotivo, ma che tuttavia sembra fortemente egoriferito. I partecipanti alla gran parte dei riti religiosi esposti in questo contributo sembrano preoccupati innanzitutto del proprio corpo e della propria anima: partecipano soli, al massimo in famiglia o in piccoli gruppi spirituali particolarmente coesi, perché è il proprio microcosmo l’unico orizzonte di riferimento. La difficoltà a “sentire” una comunità più grande – cittadina, nazionale o addirittura planetaria – che, in un tempo straordinario, chiede attenzione reciproca ai propri membri è il segno di una concezione del mondo incentrata sull’io, incapace di connettere le nozioni e di costruire una prospettiva.

Il rito è presenza, partecipazione, corpi che si avvicinano e uniscono, condivisione di esperienze, dice Adriano Favole, il quale fa un’osservazione molto pertinente: «L’incapacità di elaborare rituali condivisi, che siano di ordine più individuale (passaggi di età per esempio) o collettivo (riti della memoria), è forse un altro aspetto di una società arrogante, supponente, convinta di poter affidare tutto a una razionalità tentacolare, convinta di incarnare l’unica forma possibile di umanità contemporanea» (Favole 2020: 174).

Come osserva Pino Schirripa, ogni epidemia, «insinuandosi nelle maglie del sociale, tra le altre cose può mettere in crisi la legittimità e l’autorità del potere, comunque questo si strutturi e si presenti» (Schirripa 2020). Dunque un livello di contestazione è chiaramente presente anche nei riti elencati in questo articolo, sebbene sembrino poco affini al folklore come “cultura di contestazione” a cui ha fatto riferimento Luigi Maria Lombardi Satriani fin dal 1966: se in alcune delle pratiche religiose “abusive” di questo 2020 è possibile individuare una forma di contrapposizione alle classi egemoni o al “potere” genericamente inteso, meno evidente sembra invece la portata contestativa o di ribellione allo status quo. Tra contraddizioni e ambivalenze, queste particolari forme culturali oppositive messe in pratica durante la pandemia di Covid-19 non sembrano inquadrabili come rivoluzionarie, bensì come fattori reazionari e funzionali ad una politica emozionale che si muove in base a sentimenti e non a visioni.

Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia Culturale e docente a contratto di Antropologia Urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli, attualmente è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris Nanterre. Un suo progetto di ricerca intitolato “Covid-19 and Viral Violence” è finanziato dalla University of Colorado ed è chércheur associé presso il LAPCOS (Laboratoire d’Anthropologie et de Psychologie Cognitives et Sociales) dell’Université Côte d’Azur di Nizza. I suoi studi riguardano la relazione tra le comunità umane e il loro ambiente, specie quando si tratta di territori a rischio. In particolare, ha condotto una lunga etnografia nella zona rossa del vulcano Vesuvio e ha studiato le risposte culturali dopo i terremoti nel Centro Italia (2016) e sull’isola d’Ischia (2017); inoltre ha osservato e documentato i mutamenti sociali e urbani della città di Nizza dopo l’attacco terroristico del 14 luglio 2016. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Inquietudini vesuviane. Etnografa del fatalismo (2020), Disasters in popular cultures (2019), Anthropology of the Vesuvius Emergency Plan (2019), The Missing ex-voto. Anthropology and Approach to Devotional Practices during the 1631 Eruption of Vesuvius (2018), Vies magmatiques autour du Vésuve (2017).

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