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I musei etnografici. Forme e pratiche di resilienza alpina

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2020 @ 00:11 In Cultura,Società | No Comments

 

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La Maison Bruil, di Introd (Aosta)

di Piercarlo Grimaldi, Davide Porporato [*]

Introduzione

Scopo del lavoro è di dar conto di un lungo percorso di riflessione e di ricerca riguardante uno specifico settore antropologico: i musei etnografici locali. Questo istituto folklorico di recente invenzione, e di ancor più recente diffusione, si connota al presente come una delle più radicate e diffuse realtà etnoantropologiche che occupano e definiscono i territori della modernità. Non esiste, infatti, oggi un tratto di cultura che si sia ancorato con più determinazione e concretezza nelle comunità, nei singoli territori. La ragione di questo radicamento sta nel fatto che i musei etnografici sono in grado di documentare, narrare e spiegare le specificità culturali che attengono alle frontiere visibili e invisibili che definiscono il locale.

A partire da queste considerazioni si è ritenuto necessario progettare e realizzare una base di conoscenza, che si fonda sulle più recenti tecnologie multimediali, al fine di rendere disponibile un patrimonio culturale a tutti coloro che, a vario titolo, sono interessati a conoscere e a interpretare criticamente la storia, la cultura, i mutamenti di una comunità, di un areale. I risultati di questo lavoro sono estremamente interessanti poiché permettono di condurre una lettura critica dei dati, utile per rileggere in forme talvolta originali il territorio e delineare prospettive di sviluppo per il futuro. Infine, se questi dati possono da un lato risultare preziosi, ad esempio per la costruzione di inediti orizzonti turistici, dall’altro sono indispensabili per sviluppare una nuova e più cogente didattica dei territori. Nel momento in cui i nuovi percorsi formativi richiedono alla scuola un più stretto legame con la cultura di prossimità e con i patrimoni che la comprendono, la base di conoscenza realizzata relativamente ai musei etnografici rappresenta senz’altro uno strumento utile, forse indispensabile, per il conseguimento di queste finalità di apprendimento e di progettazione didattica.

Il saggio intende percorrere sinteticamente il promettente percorso delineato, al fine di porre in evidenza i principali nodi teorici, metodologi e tecnici affrontati nel corso della ricerca.

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Museo civico etnografico del Pinerolese

I musei etnografici locali

La comunità, il paese, il luogo dove tutti conoscono tutti e tutto, sta vivendo una profonda trasformazione che determina la perdita dei fondamentali punti di ancoraggio spazio-temporali che definiscono il sostrato sociale più profondo e costitutivo del locale. In questi ultimi decenni, a partire dai paesi più marginali, le parrocchie di montagna maggiormente isolate sono sempre più sfornite di preti, i quali hanno oramai attestato i loro estremi presidi di evangelizzazione nelle più grandi comunità di fondo valle e gestiscono a scavalco lo scompaginato tempo liturgico delle abbandonate comunità. Allo stesso modo avviene con le poste, le farmacie, il medico, le osterie, e oggi anche con l’ultimo presidio indispensabile per la sopravvivenza biologica: il negozio di alimentari, che non solo provvede il pane fresco ma anche tutti i più diversi e disparati prodotti utili per la sopravvivenza delle poche anziane famiglie che non vogliono abbandonare il paese degli avi.

Nel preoccupante quadro di sopravvivenza comunitaria, dove muoiono gli ultimi presidi che non solo servono alla continuità della vita materiale, ma sono indispensabili anche per la continuità della memoria locale, i musei etnografici rappresentano una non attesa e imprevista filiera culturale che tende a sostituire le forme e le pratiche della tradizione. Nel corso degli ultimi decenni queste istituzioni si sono distribuite quasi organicamente sul territorio nazionale, evidenziando un modello espositivo povero che, però, ostinatamente coinvolge e impreziosisce tutto l’Occidente e non solo.

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Museo etnografico in Val di Susa

In questo contesto la nascita del museo va dunque intesa come nuovo e, nel contempo, ultimo baluardo di una rappresentazione della memoria attiva, quella che genera futuro, che un tempo era presidiata dalle persone, dalle attività produttive e commerciali e dalle istituzioni. I musei sono quindi presidi della memoria e pratica viva della vita sociale della comunità. Sono il luogo dove, da un lato, la gente conserva l’eredità materiale e immateriale consegnata dal passato, e dall’altro sono lo spazio privilegiato non solo di mediazione culturale tra la società locale tradizionale e la società moderna, ma anche tra etnie differenti che stanno costruendo sui territori la complessità multietnica.

Conservare un oggetto è anche un atto di resistenza nel senso partigiano del termine. Pietro Clemente riconosce negli attori della nascita dei musei etnografici l’impegno post-resistenziale di chi ha vissuto l’epica della libertà del Novecento [Clemente, Rossi, 1999: 25]. Se seguiamo questa indicazione di senso possiamo ragionevolmente sostenere che le generazioni che oggi generosamente continuano l’opera degli ideatori sono ancora profondamente ancorate a questo resistenziale ideale di fondazione. D’altra parte recuperare un oggetto, un sapere tradizionale della creatività artigiana della tradizione è anche un atto di resistenza verso la trionfante ikeizzazione delle forme, che si configura quale prodotto globale indifferenziato oppositivo a quello della tradizione, frutto invece di areali culturali, di sentire individuali, di slanci artistici poveri ma originali.

I musei etnografici, inoltre, possono essere anche intesi come luoghi dove sopravvivono e si conservano preziosi tratti di etnodiversità che altrimenti l’oblio da complessità avrebbe già stoltamente cancellato da lungo tempo. Ricostruire l’etnodiversità, d’altra parte, significa riconoscere e fare rivivere anche la biodiversità.

Alla luce di queste considerazioni appare ovvio che il museo etnografico di comunità non può più essere inteso come polveroso luogo dove si depositano i frammenti di una memoria, quasi uno spazio della pietas verso il sapere morente, del pianto funebre dove la lamentatrice è spesse volte l’antropologo stesso, ma il luogo dove, attraverso gli oggetti e i temi rappresentati, si forniscono indicazioni di senso per il futuro. Dove la cultura rappresentata delinea, nella sua saggezza che proviene dal passato mitico, i nuovi processi dello sviluppo locale che, quando sono virtuosi, possono comprendere e indirizzare anche quelli più generali.

L’oggetto etnografico va inteso come memoria lunga perché sopravvive alla labilità della narrazione fondata sulla parola. Una memoria concreta che va preservata perché tratto costitutivo dei saperi orali. La cucina della tradizione, ad esempio, molte volte non riesce più, al presente, a restituire i sapori del tempo perduto perché non più fabrilmente praticata con gli oggetti del passato. Possiamo pertanto sostenere che i musei etnografici rappresentano la più vasta e originale filiera espositiva che si conosca, prossima all’uomo, al territorio, alle specificità etniche, locali: più in generale un prodotto di filiera corta che consuma poca energia e ne dispensa molta, su cui occorre ragionare con innovativa e critica progettualità.

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Museo etnografico di Castelbeltrame (Novara)

Di particolare rilievo appare il caso piemontese. Terra di solide agricolture e di altrettante solide rivoluzioni industriali e post-industriali. Terra di confini visibili e invisibili che la rendono, nel contempo, centro e periferia, che ne definiscono spazi e tempi popolati di altrove immaginari e di concrete realtà. Terra di profonde esperienze sociali, culturali, economiche, in cui le tradizioni convivono e partecipano delle trasformazioni più ardite che definiscono il presente, il tempo della post-modernità, dove non solo sincreticamente i saperi orali e gestuali del passato si coniugano con quelli fondati sulla scrittura della modernità.

Nel quadro di questo innovativo laboratorio che è il Piemonte si può spiegare anche il recente, imprevedibile fenomeno della diffusione dei musei etnografici sul territorio regionale. Possiamo con più di qualche ragione sostenere che gli oltre trecento musei locali che costellano il territorio presidiano soprattutto comunità che hanno conosciuto l’abbandono, la diaspora delle piccole, ma essenziali attività produttive, culturali e religiose.

L’inatteso moltiplicarsi di musei è definito da nuovi indicatori di senso. Queste realtà, un tempo presenti solo in aree rurali, trovano ora ospitalità anche in aree urbane evidenziando la ragione, il sostrato più profondo della loro esistenza in quanto luoghi di conservazione di identità che attengono alla memoria e, nel contempo, produttori di nuove appartenenze e di affinità locali. Il museo nasce in funzione di ragioni soggettive, dall’impegno di persone che, in autonomia e a volte con pochi sostegni pubblici, si dedicano a una quotidiana lotta volta al recupero, alla conservazione, alla catalogazione e alla esposizione didattica e scientifica degli oggetti della tradizione [Bravo 2002, 2005; Clemente, Rossi, 1999; Grimaldi, 2002].

I musei etnografici locali, di piccole o grandi dimensioni, rurali e urbani, non sono l’espressione di una progettualità artistica unica ma, al contrario, espongono oggetti impiegati nella vita quotidiana, manufatti che in molti casi conservano il ricordo e la fabrilità artistica di chi li ha costruiti e usati. Il progetto espositivo rinvia sempre a precisi, specifici contesti sociali, produttivi e culturali.

Sono generati da beni materiali raccolti sul territorio circostante, talvolta sono realtà private molto piccole che espongono in una sola stanza gli oggetti appartenuti a poche famiglie. Le testimonianze materiali rimandano inevitabilmente a saperi, tecniche, consuetudini e storie di vita che sono a loro volta preziosi beni immateriali non solo per la comunità che cerca di preservarli dall’oblio. Questi archivi mostrano e ci parlano soprattutto delle fatiche del lavoro preindustriale dei contadini e degli artigiani. Da una parte, gli oggetti contribuiscono a misurare il progresso economico compiuto, dall’altra, sono una straordinaria occasione di riflessione su quello che Alberto Mario Cirese [1977] ha chiamato il «prezzo pagato dai nostri padri», in termini di emigrazione, sradicamento e perdita del rapporto diretto con gli oggetti e dei saperi che ad essi erano collegati.

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Museo di Val Cenischia (Torino)

La base di conoscenza

La base di conoscenza è il frutto di un progetto volto alla documentazione dei musei etnografici piemontesi che ha avuto inizio nel 1978 e che è stato reiterato più volte al fine di monitorare da vicino l’inedito sviluppo di questo modello culturale.

Quando nel 1978 Gian Luigi Bravo dirige, su incarico della Regione Piemonte, la prima indagine volta a valutare la consistenza quali-quantitativa dei musei etnografici presenti sul territorio regionale, ne censisce 28 [Bravo, 1979]. Una successiva indagine, condotta nel 1997, mette in luce la rapida crescita dei musei etnografici in Italia: il Piemonte ne registra 70 [Togni, Forni, Pisani, 1997]. Nel 2000, a poco più di vent’anni dalla prima ricerca, Bravo effettua una nuova e analitica indagine che mette in evidenza una crescita esponenziale di questi luoghi della memoria contadina. I musei etnografici rilevati sono 221, di cui 106 di massimo interesse e 115 di discreto interesse [Grimaldi, 2002: 61-78].

Un nuovo monitoraggio è stato effettuato nel 2007 e ha evidenziato un dato sorprendente. In sette anni i musei della tradizione sono cresciuti di circa cento unità: 316 musei di cui 145 di massimo interesse e 171 di discreto interesse. Infine, l’ultimo censimento condotto nel 2009 ha confermato la progressiva crescita registrando 328 realtà di carattere etnografico, considerando anche i centri di documentazione e alcuni ecomusei.

Sulla base di questi valori possiamo sostenere che la crescita in circa trent’anni è stata rapida e molto significativa. Se alla fine degli anni Settanta vi era un museo ogni 43 comuni, oggi alla luce delle ultime indagini condotte registriamo un museo ogni 5 comuni. Va anche sottolineato che la distribuzione sul territorio della regione si concentra nella provincia di Torino, una delle zone più urbanizzate e industrializzate dell’intero Paese. A partire dai dati raccolti nelle diverse rilevazioni è stata realizzata una banca dati che, se da un lato, contiene le informazioni raccolte nelle indagini effettuate, dall’altro, si è andata via via arricchendo con ulteriori variabili che risultano fondamentali per leggere il museo etnografico in una più ampia e complessa sistemica prospettiva.

Fig. 1 – Variabili presenti nell’archivio dei musei etnografici piemontesi

La base di conoscenza che si è venuta a costruire a partire da questo modello di raccolta delle informazioni è dunque il risultato di un dialogo critico tra le più consolidate categorie etnoantropologiche con altri universi di dati. L’incrocio fra queste diverse informazioni restituisce, talvolta, risultati inediti che consentono non solo di formulare liste di conoscenza ma di fornire analisi che permettono di risolvere anche complesse ipotesi di ricerca.

I primi esiti di questa lettura sono promettenti, e indicano che la strada intrapresa può riservare interpretazioni utili per comprendere meglio l’universo dei musei etnografici, rimasto fino ad ora un progetto culturale per molti versi intraducibile o comunque letto in modo superficiale.

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Museo della borgata Bigiardi, Bruzolo (Torino)

In questo quadro di riferimento esaminiamo alcuni risultati cui siamo pervenuti. Se incrociamo i 328 musei piemontesi censiti nel 2009 con l’altitudine dei rispettivi comuni risulta che fino agli 800 metri s.l.m. sono presenti 270 musei. Tenendo conto che vi sono numerosi paesi che denunciano più di una realtà etnografica, risulta che queste si distribuiscono in 196 comuni. È interessante anche osservare il dato che emerge se si rapporta il numero dei comuni piemontesi, suddiviso nelle tre fasce d’altitudine, con il numero dei paesi che presentano almeno un museo. L’ultima colonna della tabella 1 evidenzia che questo valore decresce significativamente all’aumentare dell’altitudine e, in particolare, nelle 107 municipalità situate oltre gli 800 metri (s.l.m.) riscontriamo la presenza di ben 46 musei: il rapporto indica circa un museo ogni due comuni.

altitudine (m s.l.m.) comuni v.a. musei v.a. comuni con un museo rapporto comuni/musei
0-500 869 200 138 6.29
501-800 230 70 58 3,96
oltre 800 107 58 46 2,32
totale 1206 328 242  
Tab. 1 – Distribuzione dei musei per altitudine

Questo primo risultato, seppur interessante, non dice però nulla sulla distribuzione territoriale di queste realtà. Potrebbero, ad esempio, far riferimento a uno specifico areale, oppure essere distribuite in modo uniforme sul territorio regionale oltre gli 800 metri di altitudine. Per superare queste incertezze è necessario incrociare altre variabili presenti nella struttura d’archivio realizzata. Associando, infatti, i 46 comuni con le rispettive coordinate geografiche (latitudine e longitudine) è possibile, da un lato, identificare l’univoca posizione sulla superficie regionale di ogni singolo museo, dall’altro, per meglio interpretare il risultato, produrre la rappresentazione cartografica dei dati mediante la realizzazione di una specifica mappa. Per ottenere questa elaborazione è stato utilizzato Google Maps, un potente sistema cartografico accessibile tramite web.

 

Fig. 2 – Distribuzione dei musei etnografici piemontesi oltre gli 800 metri s.l.m.

L’esito di questa ricerca può arricchirsi ancor più di significato se rapportato anche al numero degli abitanti. L’interrogazione al motore di ricerca è stata effettuata suddividendo i 46 comuni osservati in tre gruppi, in base alla popolazione residente (Tab. 2), e ha prodotto le rispettive mappe cartografiche.

range abitanti comuni/musei
fino a 300 25
da 301 a 600 10
oltre i 600 11
totale
46
Tab. 2 – Comuni con museo sopra gli 800 m (s.l.m.) per range di abitanti
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Museo della Maschera di Rocca Grimalda (Alessandria)

Conclusioni

Alla luce dei risultati raggiunti possiamo sostenere che il modello di conoscenza elaborato a partire dal museo etnografico quale omogeneo patrimonio diffuso sul territorio piemontese può essere esportato nei diversi territori dell’Europa post-moderna, anch’essi segnati da questa fioritura museografica. Una conoscenza che, a una prima lettura dei dati, permette di generare inedite, inattese considerazioni critiche: ad esempio, come abbiamo già visto, di evidenziare le informazioni etnografiche che attengono ai paesi di montagna. Le comunità poste oltre gli 800 metri di quota sono interessate da un museo ogni due, dato che evidenzia il bisogno delle terre alte di attestare e di conservare la loro memoria collettiva, tratto che non troviamo nelle fonti che fanno riferimento alla pianura e alla collina. Si tratta di una informazione importante perché sottolinea il bisogno della comunità di attivarsi per la sopravvivenza, riconoscendo al museo etnografico la funzione di ultimo baluardo alla dissoluzione del paese. Queste informazioni permettono di verificare l’ipotesi di partenza che nella costruzione museografica della memoria locale vede un sostituto all’ultimo negozio di prossimità, alla panetteria che chiude, al parroco che abbandona la chiesa, al deserto di ogni pratica di socialità.

Il museo rappresenta dunque l’ultima moderna forma resistenziale che una popolazione mette in atto quando vede minacciata la sua sopravvivenza: una memoria attiva, un percorso didattico indispensabile per la conoscenza e la formazione delle nuove generazioni, un bene culturale che diventa prezioso e indispensabile quando la scuola del territorio minaccia di chiusura e i saperi materiali e immateriali del museo diventano dunque l’unico patrimonio organizzato, olistico, critico, tale da continuare a narrare il paese. Nella misura in cui i vecchi muoiono e i saperi della tradizione non vengono più tramandati, il museo diventa l’archivio sostitutivo del patrimonio comunitario che veniva trasmesso da una generazione all’altra attraverso il gesto e la parola, e che tale non è più nei paesi minacciati dal nuovo che avanza.

La scuola locale, ultimo presidio di conoscenza, trova nel lessico etnografico del museo, negli oggetti che lo rappresentano, le ragioni di una nuova didattica che permette alle giovani generazioni di conoscere e riconoscersi nel territorio dove sono nate.

Dialoghi Mediterranei, n.41, gennaio 2020
[*] Il testo riprende un contributo scritto per gli Atti del convegno Didamatica,  AICA, 2012
Riferimenti bibliografici
Bravo G. L. (a cura di), I Musei del mondo contadino in Piemonte, Regione Piemonte – Assessorato Beni Culturali, Torino, 1979.
Bravo G. L., I musei etnografici e locali nel loro contesto socio-culturale, in Il Patrimonio Museale Antropologico. Itinerari nelle regioni italiane: riflessioni e prospettive, AdnKronos cultura, Roma, 2002: 39-48.
Cirese A. M., Oggetti, segni, musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, Torino, 1977.
Clemente P., Rossi E., Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Roma, Carocci, 1999.
Grimaldi P., Regione Piemonte e Regione Valle d’Aosta, in Il Patrimonio Museale Antropologico. Itinerari nelle regioni italiane: riflessioni e prospettive, AdnKronos cultura, Roma, 2002: 61-78.
Togni R., Forni G., Pisani F., Guida ai musei etnografici italiani: agricoltura, pesca, alimentazione e artigianato, Olschki, Firenze, 1997.

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Piercarlo Grimaldi, già professore ordinario di Antropologia culturale all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche (Pollenzo-Bra), Ateneo di cui è stato anche Rettore. Ha insegnato anche presso l’Università di Torino e l’Università del Piemonte Orientale. È autore di numerosi studi tra i quali: Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale (1993), Tempi grassi, tempi magri. Percorsi etnografici (1996), Cibo e rito. Il gesto e la parola nell’alimentazione tradizionale (2012). Ha curato diverse opere, tra le quali si segnalano: Rivoltare il tempo. Percorsi di etno-antropologia (1997), Il corpo e la festa. Forme, pratiche, saperi della sessualità popolare (2004), Parlandone da vivo. Per una storia degli studi delle tradizioni popolari (2007), Il teatro della vita. Le feste tradizionali in Piemonte (2009), Popoli senza frontiere. Cibi e riti delle minoranze linguistiche storiche d’Italia (2016). Ha inoltre documentato la memoria delle culture orali, conducendo indagini di antropologia visiva e realizzando archivi multimediali (www.atlantefestepiemonte.it e www.granaidellamemoria.it.
Davide Porporato, docente di Etnologia all’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Ha lavorato alla creazione di archivi informatici multimediali finalizzati alla gestione del patrimonio etnoantropologico. In questo ambito è responsabile scientifico, con Piercarlo Grimaldi, dei “Granai della Memoria” (www.granaidellamemoria.it). Tra le pubblicazioni recenti: Sentieri della memoria. Studi offerti a Piercarlo Grimaldi in occasione del LXX compleanno, (Slow Food, 2015; di cui è curatore con Gianpaolo Fassino), I santi della transumanza in Valsesia: una lettura etnografica (Gallo edizioni, 2015), Il cibo rituale nelle valli occitane (Slow Food, 2016).

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