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I Grattacieli. The Will to Believe
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 00:17 In Cultura,Società | No Comments
di Flavia Schiavo [*]
Storia e Trasformazione
“Storia” e “trasformazione”, binomio pertinente alle città del mondo occidentale tra il XIX e gli inizi del XX secolo può rappresentare la tensione insita nel passaggio di stato relativo alla Rivoluzione industriale.
Se è impossibile esaminare in toto le ragioni della trasformazione rispetto alla storia, è possibile riferire queste a temi generali di ordine: politico (la crisi della monarchia assoluta), sociale (la perdita del legame comunitario e la moltiplicazione delle categorie sociali), materiale, concettuale e simbolico (la perdita dei confini, la modificazione del senso attribuito al termine “città”), economico (la perdita dell’autonomia individuale nei processi di produzione, la trasformazione dei rapporti di lavoro, lo sfruttamento degli operai e la nascita del Capitalismo), culturale (la diffusione della stampa, la produzione e la circolazione e l’interscambio dell’informazione).
Si tratta di dinamiche espresse da ogni città in modo specifico, con sfumature interne e differenze. Spesso – e da questo punto di vista NYC fu ed è un esempio rappresentativo – a una perdita del legame comunitario, così come inteso prima della Rivoluzione industriale, corrisponde un differente recupero del legame con un’articolazione interna che declina il termine “comunità” in altro modo; così come a una modificazione dei processi di produzione corrisponde un mantenimento dell’organizzazione individuale del lavoro stesso.
(…)
NYC, esplicitamente, dichiarò un’alleanza stretta con lo sviluppo, insito in quella fase storica e dichiarò guerra ad alcuni modi e ad alcune procedure attraverso cui si attuava lo sviluppo, soprattutto in quegli anni e in Europa, come l’uso di uno strumento urbanistico normativo; la definizione di aree funzionali nette; la distribuzione delle classi sociali in contesti più definiti, spesso determinati dalla presenza della fabbrica.
La natura contraddittoria e sovversiva, in divenire, fu, di contro, uno dei punti di forza di NY, per un equilibrio in moto, per un’innovazione perenne, per la gestione del conflitto, radice di ogni trasformazione urbana. Le ragioni di tale vitalità risiedono in un’enorme quantità di convergenze, che si alimentano anche dei vantaggi geografici, condizioni date e, pertanto, sovra-storiche. Tra le convergenze storiche l’assenza di un Piano prescrittivo e normativo che limitasse le altezze [1] o stabilisse le destinazioni d’uso degli edifici, la gestione economica del suolo e la formazione della compagine umana: i cittadini di NYC erano tutti migranti.
In un certo senso gli Edifici e le Persone sono i veri primi attori della scena urbana. Individui ed entità collettive, nel contempo, sia le cose che le persone – chi più chi meno, tutti e ognuno di essi – nella città, miravano a una “rappresentazione”, esperivano un’appartenenza, cercavano le proprie radici traslate in un altrove, attivavano un sistema di contatti, istituivano un mondo intriso di ottimismo (non ingenuo, ma fideistico) tra dissidi e adesione con la comunità o i gruppi di origine. Per le persone, un alveo rassicurante, meta-familiare, coattivo, che proteggeva e istituiva – nell’umana moltitudine di una folla, indifferenziata solo a un esame quantitativo e superficiale – che costruiva una rete di relazioni umane e attivava grandi fughe da quella comunità rassicurante. Per gli edifici un milieu evolutivo e veloce, in cui era necessario competere e collaborare, emergere, apparire, conquistare spazio, fondare “luogo” (e ciò fu fatto e continua a essere fatto anche attraverso i grattacieli).
Il network tanto forte e determinante che favorì lo sviluppo newyorchese, in parte, deriva da tali fenomeni coniugati all’attitudine verso l’azione individuale. La “folla”, costituita da oggetti urbani e individui, niente affatto straniati, disponeva di un enorme carnet di possibilità. Su questo si costruì la retorica dell’American dream, la “natura” di NYC e su questo si edificò la città, capitale dell’Antropocene.
Città, Campagna, Natura
Come nota R. Williams (1973), tra lo sviluppo urbano, soprattutto in Inghilterra e lo sviluppo agrario, esiste un profondo legame d’interdipendenza, condizione che Williams legge attraverso un ampio canovaccio di testi letterari, da cui emerge quanto in Europa le modificazioni e lo strappo, anche se progressivo, con il passato, fecero della campagna un Eden perduto e una sorta di Arcadia. Un Mito persistente nella memoria che, in alcuni casi, indusse rappresentazioni critiche rispetto alle modificazioni urbane e territoriali del XIX secolo, lette come negativi stravolgimenti. Anche in tal modo – e non solo per le oggettive condizioni sociali di uno status umano sfuggente – si produceva un’immagine mostruosa della città, luogo dell’alienazione marxiana e freudiana, di cui è piena la narrazione tardo ottocentesca e quella dei primi del Novecento. Un’imago urbis europocentrica.
La coscienza letteraria “fabbricata” da autori come H. James (americano pentito) e soprattutto C. Dickens che vedeva la città europea come drammatico fatto sociale e come tragico paesaggio umano, ha in parte modellato la comprensione di ciò che il XIX secolo – il secolo dell’urbanizzazione, del consumo di suolo e di risorse non rinnovabili, il secolo delle ferrovie, dell’Imperialismo Capitalista, della vita domestica segnata dalla trasformazione del mondo del lavoro, dalla mutazione della condizione femminile, delle (proto) avanguardie culturali, delle Utopie, dal lavoro minorile come condizione diffusa, della fabbrica, del commercio, delle grandi migrazioni e soprattutto dell’esplosione della povertà – avrebbe rappresentato, forse livellando altre sfumature che emergono dai dettagli o dall’indagine “antropologica” dei contesti.
Tale habitus proprio di quegli autori, portatori di una posizione che potrebbe essere definita antiurbana (lo furono, in parte, alcuni Trascendentalisti americani) [2], fortemente critica, descriveva la città come il luogo disorientante da contrapporre alla Campagna o alla Natura (per gli americani), entrambe intese come nostalgico punto di fuga di una stagione temporalmente accelerata.
Tra gli innumerevoli frammenti letterari che hanno disegnato tale nuova coscienza – una coscienza di scissioni e d’inquietudine – due esprimono sia la critica al presente quale portatore di sconvolgimento, sia l’opposta visione che celebra il presente, svincolandolo dal legame con il passato.
La prima del 1887 (in The Life of Thomas Hardy) del britannico Thomas Hardy, racconta Londra come una città che «appears not to see it self. Each individual is sconscious of himself, but nobody conscious of them selves collectively». La seconda del poeta americano Carl Sandburg, che in Prayers of Steel del 1918, con spirito visionario incarna la pulsione verso il futuro insita in molte città americane, una per tutte New York: «Lay me on an anvil, O God. Beat me and hammer me into a crowbar. Let me pry loose old walls. Let me lift and loosen old foundations. Lay me on an anvil, O God. Beat me and hammer me into a steel spike. Drive me into the girders that hold a sky scraper together. Take red-hot rivets and fasten me into the central girders. Let me be the great nail holding a sky scraper through blue nights into white stars».
Senza voler attribuire a questa circoscritta comparazione un valore paradigmatico, consapevoli del suo uso “strumentale” finalizzato a riflettere sulla trasformazione di NYC – tra il XIX e gli inizi del XX secolo – e sulla diversa relazione che le città europee e quelle americane ebbero con la storia, può dirsi che tale relazione – la cui rottura rappresentò un trauma per le città europee e per i suoi abitanti – non fu vissuta con il medesimo sentimento in America.
La lacerazione con il pregresso, compiuta attraverso il genocidio culturale dei Nativi, (…) cancellò i valori dell’eredità culturale locale, determinando, con una poderosa discontinuità, lo start di un patrimonio globale di nuova formazione che non considerò affatto, se non strumentalmente e solo in fase successiva, quel pregresso, con il quale s’intrattenne unicamente un rapporto d’uso.
La relazione con le trasformazioni della Rivoluzione industriale fu esperita, quindi, secondo altri modelli, rispetto a quelli europei: pur sussistendo una grande massa di lavoratori sfruttati, essendo assai carenti le forze riformiste e non esistendo, soprattutto in fase iniziale, strutture che garantissero e proteggessero i workers, l’articolazione del mondo del lavoro si manifestò, in America, e soprattutto nelle città [3], secondo differenti modalità: meno rigida, meno gravata dalla burocrazia, non organizzata unicamente sulla Fabbrica, nelle sue molteplici declinazioni (tra cui, la miniera; la costruzione delle ferrovie; l’edilizia), l’oggetto duro e pesante da cui era impossibile evadere.
Pur esistendo un gravame figlio di quel tempo, esso non fu mai, del tutto, una zavorra: il mondo del lavoro, soprattutto a NY, era diversificato e mutevole, non fondato unicamente sulle grandi industrie monocomparto o sulla produzione di massa (nata in epoca leggermente successiva), quanto su una pluralità di settori e sull’emersione costante di campi innovativi, che ponevano i lavoratori davanti a un maggior numero di opzioni.
L’universo urbano viveva di repentini cambiamenti in ognuno dei campi possibili: tecnologico; relazionale; culturale; materiale; politico; simbolico; percettivo. In questo spazio degli incendi, delle demolizioni e costruzioni continue, in questo luogo dell’impermanenza, l’assenza di regole, per certi versi pericolosa, produceva una sorta di autoregolazione, non del tutto anarchica, che metteva insieme spazio e persone, in una contesa a tratti dura, ma convergente verso il Mito dello sviluppo. Ovvero il Mito del Futuro e della “felicità” futura per tutti (come recita la Costituzione), in altre parole: un’utopia concreta, irrealizzabile come tutte le Utopie, ma estremamente seducente.
Non esistendo un “prima”, ed essendo concepibile solo il “futuro”, il grado zero dell’inizio, quasi senza passato, fu l’essenza dell’anima di New York. Un mondo quasi senza storia, un laboratorio empirico sperimentale, dove contavano poco le teorie e molto i fatti e le persone.
In America, inoltre, non esisteva un’aristocrazia terriera, non esisteva il concetto, né l’oggetto “campagna” storica, né spazi sacri sospesi (di matrice classica) e di non-azione urbana, come il pomerio: in tal senso il ruolo dell’agricoltura, pur essendo importante [4] – come quello del commercio o dell’industria, nell’espansione urbana a partire dal XVII secolo – fu contestuale alla crescita e attrezzo pragmatico del Capitale.
Non furono riconosciuti i “segni”, né il linguaggio territoriale preesistente all’arrivo dei coloni, i quali fondarono le città cresciute in fretta e senza Piani che avessero una qualche affinità con quelli europei, né ottocenteschi, né pre-ottocenteschi, con poche eccezioni, tra cui Savannah, in Georgia, costruita nel 1733, Washington D.C. pianificata nel 1792 in aderenza con i desideri di Thomas Jefferson, e Chicago con il suo monumentale Piano del 1909, redatto da Daniel H.Burnham. La Parola chiave di tali Piani era: controllo.
I Piani europei si misuravano, sempre, con l’incombenza storica di una città e di una campagna (tranne alcune eccezioni, come San Pietroburgo, che non fu una città industriale), percettivamente distinte ed entrambe strutturate sul livello del paesaggio e su quello economico.
Se la città era diventata la sede della produzione, la campagna veniva relegata a una posizione secondaria rispetto alla concentrazione della ricchezza e del Capitale, divenendo, semmai, un topos nostalgico carico di valori perduti (in Europa). La sua “cancellazione”, il suo allontanamento, cambiava la percezione della città, prima concepita come organismo intero proprio attraverso la campagna, alterava la nozione di “bordo”, introducendo il tema della rarefazione e della diffusione dell’insediamento sul territorio che, anche per tali ragioni, doveva essere diversamente governato.
In certi casi (fu così per le città americane), la campagna, fu alimento diretto del Capitale urbano, anche per quanto attiene la dinamica della “frontiera” [5] e il rapporto tra urbanizzazione e conquista dei territori del Continente, a ovest. Il bellissimo e insidioso termine conquista, abusato nel lessico di chi abbia scritto dell’America, meriterebbe un intero volume.
Negli States il contraltare alla città era, come si legge nei lavori di alcuni tra i Trascendentalisti, come Emerson e Thoreau, la Natura incontaminata, i boschi entro cui camminare: “I went to the woods because I wished to live deliberately, to front only the essential facts of life, and see if I could not learn what it had to teach, and not, when I came to die, discover that I had not lived”, non la “seconda natura” o il mondo pastorale e agricolo, che ebbe maggior peso – traslato – nell’America delle piantagioni di cotone, o nelle praterie dove si allevava il bestiame, come quelle prossime a Chicago, non unicamente come modello letterario, ma come ulteriore e altra forma di capitalismo.
Anche l’Arcadia americana, paradossalmente, era un luogo proiettivo identificabile nell’immagine del futuro, non rievocando alcun passato, inesistente, sfibrato e privo di energia simbolica per cecità, per barbaro spirito di conquista e per assenza di paradigmi accreditati che consentissero di rispettare la cultura materiale di quei territori che esprimevano la propria cultura, pre colonizzazione europea.
Imprinting e archetipo, l’inscindibile legame tra luogo e la memoria di esso, è tra ciò che influenza (anche inconsa- pevolmente) l’immaginario progettuale delle persone. La città riflette tale interrelazione sottile tra lo spazio com’è, com’era, come potrebbe essere, e chi decide di abitarlo, trasformandolo. Uno spazio di cui non si riconosce il passato (quello delle città americane) sprigiona enormi gradi di libertà dell’immaginario, individuale e collettivo, entrambi sussistenti nel milieu newyorkese. Il “vuoto” è, nell’immaginazione umana, e nella cultura occidentale, l’oggetto che sollecita l’azione. E il “vuoto” di quel territorio, poi NYC, fu riempito in una fase in cui molti erano gli strumenti a disposizione e in cui tali strumenti incrementavano rapidamente la propria efficienza, nell’accelerazione del Secolo breve: l’oggetto precipuo di quegli anni era la “materia”. Le strade, le case, gli edifici, erano il “progetto”.
Niente di virtuale, né di smaterializzato; nulla di teorico o di “mistico”, tranne che per gli effetti prodotti che inaugurarono, anticipandolo, una forma nuova di Capitale senza corpo, fatto d’idee, di flussi d’informazione e danaro (unici oggetti “mistici”), fatto di ciò che riempiva e motivava la nascita di “alcuni” tra gli oggetti (gli attori economici dentro gli edifici che saranno poi i “grattacieli”) e ciò che rendeva possibile realizzarli (la pulsione individuale; il real estate; la tecnica; l’innovazione). In questo spazio di flussi e in questa corrente frenetica verso la materialità della città fisica, NYC produsse la smaterializzazione dei processi, divenendo la prima città dell’Informazione.
La trasformazione fisica del territorio, dunque, assunse con metodi assai fluidi, tratti differenti che in Europa e, in aggiunta alle variabili conosciute, relative agli strumenti comparsi durante la fase di sviluppo urbano del XIX secolo, rese NY il luogo precipuo dove il cambiamento si espresse rapidamente, adottando “sostituzione” e “saturazione” tra gli strumenti dell’azione urbana, a differenza di quanto accaduto nelle città europee dove l’addizione, l’espansione, l’ampliamento, persino lo sventramento e la modificazione erano sempre coniugati con un vago e oscuro senso di colpa e con il mantenimento di alcune tra le tracce storiche, mai del tutto abrase. Pur nello sventramento condotto a Parigi, a Napoli e alla “rettifica” delle mura civiche a Vienna, per ognuna di tali cancellazioni era necessario o un atto d’imperio, o una giustificazione che ricostituisse l’interezza urbana e agisse come circostanza attenuante. I Piani ottocenteschi, com’è noto, affrontarono con maggiore difficoltà la riforma della città esistente, considerata azione onerosa, più complessa e meno utile. Oltre alla tecnica e alla necessità di dotare le città di spazio abitabile per le differenti categorie sociali, nel Vecchio Mondo, il passato, pur riformato che fosse, conservava i crismi della storia, la sacralità della memoria, con cui rapportarsi. In altre parole, nessuna città europea per quanto avesse un primo insediamento di ridotte dimensioni appesantito da superfetazioni, fu rasa al suolo intenzionalmente – o abbandonata – per far spazio a una nuova città di fondazione, nessuna città scelse di edificare “altrove” un nuovo insediamento [6]. Il Ring di Vienna, il Piano Haussmann, il Piano Beruto a Milano, il Piano Cerdà a Barcellona, il Piano Poggi per Firenze, il Piano Giarrusso a Palermo, il Risanamento a Napoli, si rapportarono sempre e comunque con la città esistente, secondo una dinamica d’intermediazione, avvicendamento, influenza, condizionamento, in cui la negazione totale non era, in fondo, contemplata. E in cui, molto spesso, il “linguaggio urbano” precedente diveniva suggestione e riferimento, da confermare o negare parzialmente, per il presente.
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