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I disturbi psichici dell’esclusione: dalle realtà manicomiali ai campi di alienazione

Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2019 @ 01:33 In Letture,Società | No Comments

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Enzo Umbaca, Ospedale Psichiatrico Paolo Pini

di Valeria Dell’Orzo

È ancora possibile visitare, a Palermo, la mostra “La condizione umana” allestita tra le suggestive scrostature delle sale di Palazzo Ajutamicristo, in occasione dei quarant’anni dall’entrata in vigore della legge Basaglia, la legge 13 maggio 1978, n. 180, in tema di “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, attuata nei pochi mesi che la separarono dall’entrata in vigore, il 23 Dicembre del 1978, del Servizio Sanitario Nazionale che, in materia, ne assorbì gli articoli previsti.

La legge Basaglia, delineata con l’intento di liberare da una condizione di inumana detenzione i malati psichiatrici, o coloro che per tali venivano assunti dal sistema socio-sanitario, non ha mai del tutto risolto il dramma di una condizione di sommaria e innaturale segregazione che si è poi trasformata, al fianco dei reparti di degenza psichiatrica ospedaliera, sino ai più recenti O.P.G. Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e R.E.M.S, Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, entro i quali si ripropone in chiave moderna un uguale esasperante modello di esclusione e invisibilità.

È un percorso doloroso quello che il visitatore di questa mostra si trova a compiere passando di sala in sala, circondato da fotografie di volti e corpi che hanno in sé la radice di un malessere tanto sordo quanto palpabile, infrangendo il proprio passo sulle lettere dei degenti, sui documenti di accettazione dei pazienti, schedati secondo tabelle e descrizioni limitanti e umilianti, sulle realizzazioni scultoree che della reclusione psichiatrica mostrano al tempo stesso la difformità nei confronti del pensiero, della visione comunemente riconosciuta del mondo, e la genialità di uno sguardo capace di piegarsi lungo le infinite increspature della percezione.

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da La condizione umana

La condizione umana interna allo spazio manicomiale traspare dai volti, dai corpi accartocciati dei degenti, dalle parole, sofferte e lucide di lettere nelle quali sono proprio la solitudine, il distacco dalla propria sfera familiare, l’emarginazione socio-affettiva che prendono forma attraverso l’inchiostro curvilineo che solca le pagine esposte.

La realtà di coloro che vengono separati dalla società che li circonda è disseminata di uomini, donne, bambini, anziani, segnati e stravolti dall’essere stati respinti per un loro disallinearsi rispetto ai canoni della società, dell’ordine pubblico, del parere popolare o di un giudizio clinico di alterazione, ritenuti non idonei al convivere e per questo esasperati nell’isolamento.

L’analisi congiunta di Kate Pickett e Richard Wilkinson (2012), docenti di epidemiologia sociale, mostra, esaminando cifre e dati durante un ampio arco di tempo e prendendo in considerazione alcuni dei più sviluppati Paesi del Primo mondo, il sussistere di un rapporto tra le diseguaglianze economiche e sociali e il tasso di malessere psichico comunitario; i disturbi psichici si mostrano in proporzione più frequenti al crescere di un sistema di disparità, di separazione tra coloro che possono o meno accedere a servizi, tutele sanitarie, e disponibilità monetaria. Al crescere della privazione del diritto a una vita egualitaria, in rapporto alla condizione media della società di riferimento, si accompagna in crescita l’insorgere di disturbi psichici, spesso sfocianti in forme depressive e autolesionistiche, dagli esiti drammatici. Con l’accelerare della globalizzazione, mostrano poi i ricercatori (Wilkinson, Pickett, 2012), anche all’interno delle fasce economicamente più solide, la pressione competitiva e produttiva che tende a svalutare e annichilire il singolo che non appare sufficientemente al passo, lo spinge verso un analogo percorso di insoddisfazione ammutolita e patologicamente esitante.

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Sala della mostra La condizione umana, Palazzo Ajutamicristo, Palermo

Cresce, al crescere dell’imporsi di modelli rigidamente definiti dalla società, quel senso di inquietudine, quel cedere delle sicurezze individuali, quella sfiducia che ammutolisce, isola e corrode l’individuo, che Bauman (2014) ha indagato in seno alla realtà globale contemporanea e che può essere traslata, al sussistere di affini condizioni, in diacronia e su differenti piani storici sincronici.

Il sussistere, all’interno della società in cui viene agito il proprio vivere quotidiano, di un forte squilibrio di diritti e possibilità, tradotto in un continuo stato di privazione e accesso negato a tutti quegli strumenti che contribuiscono alla costruzione del nostro io sociale, sfocia nella frustrazione continua dell’inadeguatezza, di fronte alla quale l’individuo, sentendosi inutile al proprio nucleo comunitario e a se stesso, cede allo svilimento.

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da La condizione umana

La realtà dell’esclusione, che le strutture manicomiali hanno eretto mattone su mattone, tra le sale di contenzione e i cortili murati come scatole a cielo aperto, ha mostrato anno dopo anno non solo l’ingiustizia, insita in un trattamento che non può essere di sostegno psichico ma solo di sprone alla disperazione, ma anche il controproducente riflesso che riverberava tra le maglie di una società esterna depauperata di quelle note umane che ne esaltavano un’espressione poliedrica e percettivamente arricchente.

All’interno degli storici manicomi e delle attuali strutture, variamente preposte a sorvegliare l’individuo in un continuo il cui termine potrebbe non sopraggiungere, si ripropone quell’esasperante privazione del controllo di sé, si vive la continua esposizione a una forma di osservazione, vincolante e snervante come il Panopticon, progettato nel 1791 dal giurista Jeremy Bentham, di cui ci parla Focault (2014). La continua privazione, indifferentemente reale o supposta, della possibilità di sottrarsi a un controllo e a una valutazione esterni, si somma all’asfittica mancanza di libertà, e esita nel crescendo di una coralità che coinvolge gli ospiti della struttura di contenzione, in un acuirsi di dolore in grado di trascinare l’individuo verso il suo degradarsi psichico.

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da La condizione umana

Risiede nella esclusione, nella emarginazione sociale e nella privazione dello spazio personale, una delle profonde radici dell’alienazione umana. Spinti a credere che l’emarginazione si instauri a partire da un’alterità, si è, nella storia, troppe volte caduti nel tranello di creare le condizioni di un’esclusione foriera solo di alterazioni relazionali e disperazione del singolo.

La distonia che dall’introspezione di un malessere deforma il vivere, fisico, corporeo, dell’individuo viene troppo spesso accentuata dalla realtà respingente che la società, sempre più conformata al canone della norma assunta quale omologante, applica al singolo, indifferentemente a chiunque si trovi posizionato in uno spazio sociale che si preferisce estromettere sulla base di paure e politiche distorte.

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da La condizione umana

Molti sono i casi di degenze forzate, stabilite spesso sommariamente e capaci invece nella loro attuazione di innescare dei reali disturbi psichici. Se allarghiamo lo sguardo sulla realtà più vasta e complessa della segregazione marginalizzante, non possiamo che imbatterci nell’abominio contemporaneo dei centri, dei campi di detenzione destinati, in varie parti del mondo, ai migranti. All’interno di questi spazi opprimenti, al bagaglio personale che, su un ampio spettro esperienziale, segna la vita di ogni individuo, si aggiunge la condivisione costante di un trauma collettivo, l’esasperazione dell’immobilità, della fissità dello spazio e dell’agire, il riproporsi di una realtà asfittica che spesso ha già rappresentato una tappa fortemente incisiva del percorso migratorio e di riformulazione dell’io attraverso un viaggio sofferto. Molti sono i casi che palesano un acuirsi della disperazione, gli episodi di autolesionismo e di suicidio, lo sviluppo di disturbi relazionali, l’instillarsi nelle menti di un sistema di alterazione che altro non è che il riflesso intimo di una perversa distorsione esterna, inflitta con sorda continuità su coloro che non possono sottrarvisi se non con gesti estremi, violenti e sofferti.

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da La condizione umana

Disseminati lungo i contemporanei confini di una geografia inumana, sorgono campi di accoglienza, di reclusione, di stallo senza tempo spesso nel recinto ancora più emblematico di un’isola; luoghi di sospensione di un futuro che sembra non arrivare mai e marcisce in un continuo presente di attesa. La realtà migratoria si tinge di tinte cupe e alienanti, le vite di uomini, donne, infanti o i pochi anziani rimangono a languire tra una snervante aspettativa e una costante disillusione. Sviliti dall’invisibilità con la quale la società esterna li ammanta, separandoli da sé, ripudiandoli in un recinto avulso dal vivere comunitario, i problemi psichici dimostrano di svilupparsi all’interno di questi centri come su dischi di coltura, i gesti di autolesionismo, le espressioni frutto di disturbi depressivi sono attestate dal centro di Moria sull’isola di Lesbo a quello di Manus a largo dell’Australia, dall’isola di Nauru al limbo di Ceuta e Melilla, e ancora  lungo il confine tra gli Stati Uniti e il Messico passando attraverso le tante strutture preposte a immobilizzare il fluire naturale delle migrazioni.

L’esasperazione di chi vive per mesi o anni questa sospensione è descritta con dolorosa partecipazione diretta nell’ultimo lavoro di Behrouz Boochani (2018), giornalista kurdo che da quasi sei anni attende sull’isola di Manus che l’Australia e, seguendo gli accordi internazionali, il resto del mondo, permetta a lui e ai suoi compagni di interrompere questa attesa per essere riammessi alla vita fuori dalle recinzioni del campo. Nel suo libro trovano spazio non solo le disamine sociopolitiche sottese a questa condizione, ma si profilano anche i continui episodi di scompensi psichici, i suicidi e gli atti autolesionistici, il delirio, le allucinazioni e il tormento del trauma collettivo che affligge i reclusi, i respinti.

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da La condizione umana

Sradicato dalla sfera del convivere e del coesistere, del partecipare attivo e dello scambio fluido, vincolato da argini spaziali, eretti come muri divisori entro la realtà sociale, l’individuo costretto alla staticità di un campo per migranti sperimenta l’innaturale condizione dell’isolamento e dell’incomunicabilità all’interno di quello spazio che aveva auspicato rappresentasse la propria salvezza; lo fa portando in sé il carico di un percorso di vita spesso drammatico, affastellato di traumi, piagato dalle torture e dai ricordi di un passato di violenze e paura.

Una condizione d’insieme simile non può essere sminuita, al palesarsi di un corale malessere psicofisico, sul mero piano del passato, ignorando le responsabilità della condizione presente e gli effetti psicologici della vita all’interno di un centro senza tempo; occorre invece farsi carico della responsabilità che ogni Stato di arrivo ha in merito al presente dei migranti, riconoscere la propria parte, la propria colpa, nel percorso che porta non solo gli adulti in un vortice di avvizzimento, ma anche dei bambini a rifiutare il gioco, il cibo, a tentare e sperimentare, attuare il suicidio, immersi già dalla più tenera età in quella sottrazione dei diritti umani entro i quali releghiamo chi ci spaventa per la sua ricca diversità.

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da La condizione umana

Quello che storicamente è avvenuto e avviene in seno alla condizione manicomiale assunta ormai come una bruttura verso la dignità umana, si ripropone ancora oggi espandendosi a tutte le realtà umane che spinte fuori dal coesistere vengono relegate allo spazio dell’alienazione.

Il lavoro congiunto di antropologi, sociologi, psicologi e psichiatri andrebbe posto al fianco di coloro che per mera attuazione di burocrazie e accordi politici, economici e internazionali deliberano su chi si trova a sperimentare la propria vita attraverso la migrazione, per tenere conto non solo delle specifiche esigenze del singolo, dei personali percorsi di vita e delle realtà culturali sottese a ciascuno di noi, ma anche per arginare il degradarsi di una società diffusa impoverita e svilita, nell’alienazione dei recinti fisici e delle pressioni produttive e economiche, intrappolati tra le maglie di quelle frontiere, recintate o simboliche, lungo le quali Beneduce (2018) rintraccia lo sgretolarsi e il ricostruirsi della realtà dei migranti costretti nei tanti centri di confine.

Secondo quell’urgenza di intervento già spiegata da Frantz Fanon (2007), comprendere il percorso che ha formato il singolo fino al suo divenire un migrante, dannato tra i dannati, immobilizzato nell’attesa in un campo, comprendere gli effetti del vivere immersi in un continuo trauma collettivo, circondati dal dolore altrui e incistati nel proprio, permetterebbe di restituire la propria dignità a coloro che, costretti da questo inumano sistema di pressione e controllo, rischiano di vedere la propria vita spegnersi a poco a poco.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, marzo 2019
Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2014.
R. Beneduce, Frontiere dell’identità e della memoria. Etnopsichiatria e migrazioni in un mondo creolo, Franco Angeli, Milano, 2018.
B. Boochani, No Friend But the Mountains: Writing from Manus Prison, Picador, Sydney, 2018.
F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 2007.
M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2014
R. Wilkinson, K. Pickett, La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici, Feltrinelli, Milano, 2012.
Sitografia
http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_normativa_888_allegato.pdf
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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