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I confini della vita, i confini del lavoro. Marginalizzazione e pervasività in un contesto operaio siciliano
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2016 @ 00:23 In Cultura,Società | No Comments
di Tommaso India
Ore 5,30 di un mattino di maggio. Io e Culo di Gallina ci mettiamo in auto, attraversiamo i vicoli del centro storico di Palermo e imbocchiamo l’autostrada Palermo-Catania, lasciandoci alle spalle la città, le nostre famiglie e quella che un tempo era la nostra quotidianità. Il cielo si tinge con i colori del nuovo giorno e ogni lunedì non posso fare a meno di pensare: «Ecco l’aurora dalle dita di rosa». Dopo circa quaranta minuti di auto ci fermiamo alla stazione di servizio di Scillato, dove ci riforniamo di carburante, andiamo in bagno e prendiamo un caffè prima di imboccare una salita piena di curve e strettoie che porta a Polizzi Generosa. Ripartiamo e dopo un paio di chilometri siamo costretti ad uscire allo svincolo di Scillato a causa del crollo del viadotto Himera. Il tragitto è tortuoso e pieno di curve e punti in cui la strada si restringe pericolosamente, costringendo i veicoli a transitare uno per volta. Attraversato il paese, cominciamo la discesa anche questa costellata da molte curve pericolose e da un paesaggio mozzafiato sulle valli delle Madonie. Campi di grano ancora verdi e uniformi come mantelli distesi, vecchie case coloniche abbandonate e bagli cadenti, qualche gregge di pecore e mandrie di mucche al pascolo sono la cornice di questo tratto di viaggio. Dopo cinquanta minuti riprendiamo l’autostrada allo svincolo di Tremonzelli e poi è un unico e continuo viaggio fino alla zona industriale Nord di Catania. Centoventi chilometri senza interruzione con il sole che, davanti a noi, si alza possente.
Alle 8,10 circa arriviamo al magazzino, un capannone di circa 5000 m2 nella zona industriale più importante di Sicilia, per affrontare la nostra settimana di lavoro. Si tratta di un luogo che si sviluppa nella parte sud della città etnea dove, senza soluzione di continuità, convivono aree selvagge e aree ipertecnologizzate, dove il tempo e lo spazio acquisiscono una dimensione particolare, diversa rispetto a quella della città, del suo centro che, nelle nostre condizioni, hanno la lontananza e la diversità di una città di un altro continente.
Il nostro magazzino si trova al centro di una palude, dove le zanzare trovano un ambiente favorevole alla crescita e alla diffusione. Il terreno è anche un ottimo luogo dove conigli e topi possono costruire le loro tane. A causa della presenza di questi mammiferi non è raro vedere poiane e falchi pellegrini, provenienti dalla vicina oasi del Simeto, venire a cacciare in queste zone. Oltre il recinto del magazzino, in direzione nord, un capannone industriale di trattamento e vulcanizzazione di pneumatici, un altro di costruzione e vendita di pallet e poi, un po’ più a sinistra, a circa due chilometri di distanza in linea d’aria, una fabbrica dove si producono i mangimi per animali ottenuti con le carcasse di altri animali morti che vengono macinate e triturate in attesa di essere cotte e trasformate. È da qui che, spinto dal vento, a volte arriva il tanfo di morte che invade il magazzino costringendoci a respirare il meno possibile.
Alle 13,00 facciamo una pausa pranzo di circa un’ora e mezza; a volte, quando il lavoro lo permette, ci fermiamo anche per due ore. Durante le prime settimane di lavoro a Catania l’unica zona di ristorazione a noi conosciuta era il self service del vicino stabilimento Ikea. Il nostro cibo qui era costituito da hot dog pesanti da digerire, patatine fritte servite nei cuoppi di calia e simenza e pizzette al sapore di truciolato. Alla fine del pasto scherzavamo offrendoci vicendevolmente i caffè scroccati all’Ikea. Dopo ci disperdevamo per il negozio. Qualcuno girava fra i mobili e le ricostruzioni di ambienti casalinghi e alcuni compravano attrezzi da cucina per le mogli; altri, stravaccati sui divani dell’ingresso, cercavano un po’ di riposo addormentandosi sotto gli occhi increduli dei passanti.
Dopo qualche settimana di questa vita da clochard o, come più spesso dicevamo noi, da scappati i casa, qualcuno, come un vero e proprio pioniere, ha scovato a qualche chilometro di distanza una mensa per lavoratori che serve una buona varietà di pasti ad un prezzo accettabile. In massa ci siamo spostati qui per acquistare e consumare il nostro pranzo. Sempre più vicina all’oasi del Simeto, questa nuova mensa si trova su un largo stradone, fra edifici industriali, uffici spedizionieri e ampie zone di campagna incolta. Sulla destra dell’ingresso si trova un’officina per mezzi pesanti rumorosa e sporca. Alla sinistra un ufficio postale e, subito dopo una rientranza, un tabaccaio dove è possibile comprare sigarette, gratta e vinci e giocare alle slot, tutte cose che per la gran parte dei miei colleghi si configurano come i loro passatempi preferiti.
Dopo pranzo rientriamo in magazzino percorrendo strade dissestate dai mezzi pesanti e tagliando la campagna incolta. Lavoriamo fino a sera inoltrata per poi tornare in appartamenti che condividiamo fra colleghi per attutire i costi. Spesso, per giorni, non parliamo con nessuno che non appartenga al nostro piccolo gruppo di operai, non frequentiamo nessuno al di fuori di quella cerchia e non andiamo in nessun posto che non sia il magazzino e la zona industriale: un posto di confine della città post-moderna.
La condotta di questo stile di vita ci porta lontano da quelli che sono i ritmi della vita all’interno della città. Da queste parti ciò che conta veramente è arrivare in tempo per timbrare il cartellino, lavorare quanto basta e cercare di riposare tutto il tempo che riesci, anche se in realtà il riposo è davvero poco.
Il fatto di stare lontano dalle famiglie e dagli affetti più cari ha creato dinamiche interne al gruppo che si sviluppano in un contesto in cui il proprio interesse (sia nei confronti del guadagno, sia in quello del risparmio) sono centrali ed evidenti in qualsiasi rapporto instaurato. Questa dimensione di assoluta lontananza da tutto ciò che esula dall’ambito lavorativo pone me e il gruppo di lavoratori di cui faccio parte ai margini della vita sociale configurando il gruppo stesso come una entità ristretta ma quasi totalizzante. Rimaniamo ai confini della città etnea, e frequentiamo abitualmente le zone del tessuto urbano periferiche, lontane e selvagge in cui convivono l’incontestabile antropizzazione tecnologica delle fabbriche e le zone di natura rigogliosa e possente dell’oasi del Simeto.
Quando fra il mio gruppo di appartenenza e la città si instaura una relazione, questa è generalmente avvertita come una fastidiosa e complessa necessità cui ottemperare in tempi brevi per ridurre al minimo il danno economico causato dall’allontanamento dal posto di lavoro e, soprattutto, dal fatto che la città di Catania è avvertita dalla maggior parte dei miei colleghi, tutti originari di Palermo e mai allontanatisi da questa città, come un luogo troppo estraneo e difficilmente comprensibile. Tutto questo configura il rapporto fra città e gruppo come una relazione di subalternità del secondo elemento nei confronti del primo, dando vita ad un fenomeno di marginalizzazione e quasi di auto-esclusione già messo in luce da Ferdinando Fava a proposito del quartiere ZEN di Palermo. Scrive Fava:
Tenendo presente le differenze dei contesti e soprattutto ridimensionando gli effetti e le cause sociali che coinvolgono gli abitanti del quartiere palermitano, è utile notare come il gruppo di lavoratori qui in oggetto si auto-percepisca radicalmente fuori dal nuovo contesto urbano frequentando quasi esclusivamente luoghi in cui le relazioni sociali sono contingenti, momentanee e labili. Le uniche relazioni stabili e durature, ma inevitabilmente conflittuali, sono quelle che si perpetuano all’interno del gruppo e, in modo particolarmente forte, all’interno di quei sotto-gruppi di lavoratori che condividono gli spazi abitativi.
Lo spazio, quindi, ha assunto un valore nettamente diverso rispetto a quello del mondo circostante della città lontana, un valore in cui la centralità urbana è divelta, trasformata e incarnata da una periferia dove l’iper-tecnologico e il selvaggio convivono senza soluzione di continuità. In questa vita ai margini, nel luogo in cui il gruppo si muove abitualmente lontano da tutto ciò che non è gruppo, il rapporto fra il centro urbano e la periferia si ribalta. La vita sociale nell’esperienza di questi lavoratori trasferitisi dal palermitano [2] nella città etnea ha intrapreso un improvviso processo di marginalizzazione dei rapporti sociali non solo all’esterno del gruppo di lavoratori [3], ma anche al suo interno. In questo caso, la coabitazione coatta ha generato tensioni all’interno dei vari gruppi, i cui componenti però non sono in grado di dare un corso definitivo rimanendo indissolubilmente legati fra loro [4].
La marginalizzazione del gruppo di lavoratori consiste nell’auto-resclusione all’interno di quelli che gli antropologi della scuola di Chicago indicavano con i termini di interstizi sociali [5], che, nel caso qui esposto, si configurano attraverso la frequentazione di uno spazio estraneo rispetto a quello della passata quotidianità e l’elaborazione di tempi e ritmi di vita che impediscono l’inserimento all’interno del nuovo tessuto sociale. Fra la realtà lavorativa e quella urbana, in altre parole, si è frapposto uno spazio simbolico, costituito da relazioni sociali spesso non volute ma necessarie e tempi lavorativi stranianti, e uno spazio fisico, costituito da capannoni industriali e aree selvagge, che contribuisce non poco all’allontanamento del gruppo di lavoratori da una vita costituita da relazioni sociali che esulino dal solo ambito lavorativo.
La vicenda di questo gruppo di lavoratori dimostra chiaramente, e aggiungerei, ancora una volta, come l’economia di stampo neocapitalista sia in grado di strappare gli individui dalla condizione di persone socialmente integrate per relegarle all’ambito degli interstizi sociali, ai margini della vita urbana, sociale e familiare. Tale processo di marginalizzazione è ancora più evidente durante un periodo di crisi economica, come quello appena attraversato, in cui, al di là dei dettami dei pensatori neoliberisti dei centri economici più importanti, le aree periferiche della produzione economica si arroccano su vecchie posizioni e strategie economiche (i continui trasferimenti delle sedi aziendali, l’aumento dell’orario di lavoro, il disinteresse nei confronti di ciò che riguarda la vita dei lavoratori oltre il mero ambito lavorativo). Tutto ciò è ottenuto, all’interno di questo quadro economico, attraverso la pervasività del sistema economico neocapitalista già intuita da Michel Foucault in riferimento alla nozione di governamentalità [6] e recentemente riattualizzata e approfondita da Federico Chicchi, secondo cui:
Nel caso analizzato in questo scritto, le tecniche di controllo neocapitaliste hanno agito ben oltre il mero ambito relazionale. Esse si sono imposte nelle vite dei lavoratori dandone un corso nuovo e attivando un nuovo e radicale processo di antropopoiesi sui soggetti coinvolti dalla marginalizzazione, portando quei lavoratori a ridefinire il loro interno ambito socio-culturale [8]. Come è facile intuire, si tratta di un’antropopoiesi coatta e dettata da ordini economici contro cui le piccole comunità spesso poco o nulla possono.
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