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Gli effetti (non) previsti del sistema CARA. Il caso di Mineo
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2015 @ 00:41 In Attualità,Migrazioni | No Comments
La cronaca delle ultime settimane testimonia come sia divenuta quanto mai urgente e necessaria una riflessione critica sui presupposti a partire dai quali è stato concepita la governance italiana della immigrazione. Come ha ben messo in luce l’inchiesta Mondo di Mezzo della Procura di Roma, le migrazioni internazionali hanno rappresentato il terreno fertile sul quale sono stati non soltanto alimentati ad arte fenomeni di xenofobia e di razzismo, ma sono anche proliferate ambigue relazioni tra la politica, la criminalità organizzata ed il Terzo Settore. La paradossale conseguenza di questo meccanismo è stata quella che Maurizio Ambrosini (2013:26), parafrasando Pierre Bourdieu, ha definito la “doppia mano destra” degli attori istituzionali: con una mano, essi hanno dichiarato di voler garantire i diritti umani dei richiedenti asilo, pur nella necessità di gestire il fenomeno migratorio in una situazione di “emergenza”; con la stessa mano, essi hanno esercitato forme di speculazione economica ed elettorale sugli arrivi non previsti dei migranti dal Sud del Mediterraneo, fino a configurare vere e proprie “holding dell’accoglienza” [1]. Il malcontento generale seguito al protrarsi dell’operazione Mare Nostrum, il diffondersi della cosiddetta “retorica dell’abuso” che etichetta i cittadini immigrati come parassiti dei Paesi riceventi (Schuster 2009) e le proteste che si sono verificate nel quartiere Tor Sapienza di Roma contro la presenza di un centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati possono dunque essere compresi meglio se si analizzano alla luce di questi recenti accadimenti storici.
Il contesto che gravita attorno al Cara di Mineo offre interessanti spunti di riflessione a questo proposito, consentendoci di fare chiarezza tanto sulle logiche di natura economica e politica che sottostanno al sistema di accoglienza dei migranti, quanto sulle trasformazioni sociali che esso ha concorso ad avviare. Le indagini su Luca Odevaine e sull’organizzazione mafiosa della quale egli è stato complice hanno già contribuito a rivelare il ruolo cruciale del centro siciliano nel raccogliere prima e nello smistare dopo il flusso di richiedenti asilo all’interno del territorio nazionale, mettendo ben in evidenza il nesso tra la gestione emergenziale del fenomeno migratorio e gli interessi economici ad essa sottesi. Ancora forte rimane, tuttavia, l’esigenza di riflettere analiticamente sugli effetti (in)attesi che questo sistema di governance ha prodotto sia all’interno che all’esterno della struttura, individuandone altresì le ricadute più significative che esso ha generato sulla vita delle sue vittime principali: i migranti titolari di protezione internazionale. Partendo da tale intento, nelle pagine che seguono proveremo a riprendere le fila dell’analisi avviata nel precedente numero della rivista (Castronovo 2014). Dopo una disanima degli elementi di criticità individuabili nella gestione interna al centro, il focus di indagine si sposterà sul contesto sociale esterno al fine di dedicare attenzione al “mercato della braccia” che gravita attorno al Cara più grande d’Europa. Il contributo sarà supportato dai risultati più significativi di alcune interviste in profondità realizzate tra i mesi di settembre e dicembre 2014 e rivolte a stakeholder impegnati a vario titolo nel campo dell’immigrazione, ad operatori sociali, a braccianti agricoli di origine straniera e, infine, a singoli cittadini residenti a Mineo.
Cronache dal CARA di Mineo: effetti (non) previsti e aspettative disattese
Fin dalla sua istituzione, il CARA di Mineo ha segnato un passaggio decisivo che ha inciso significativamente non soltanto sull’economia locale e sull’organizzazione politica, ma anche sull’assetto societario del contesto nel quale esso è sorto.
Il percorso storico che porta alla costituzione del centro per richiedenti asilo più grande d’Europa all’interno di una piccola realtà agricola della Sicilia orientale ha inizio nel mese di gennaio 2010, quando la Us Navy comunica ufficialmente alla Pizzarotti&Co S.p.A. – impresa edile proprietaria degli immobili – la volontà di non rinnovare il contratto che l’aveva vincolata per dieci anni alla locazione della struttura pensata e costruita appositamente per i marines americani di stanza nella Naval Air Station di Sigonella. A partire da questo momento, la presenza del Residence degli Aranci – che era stata mantenuta in una condizione di invisibilità sociale quando gli abitanti erano i cittadini statunitensi – comincia a divenire scomodamente visibile e ingombrante fino a condizionare le scelte politiche locali e i processi decisionali del governo nazionale. Con la conclusione della esperienza a stelle e strisce, la preoccupazione principale è quella di trovare nuovi acquirenti disposti ad acquistare o ad occupare a vario titolo le 404 unità abitative presenti all’interno dell’area. A fronte della necessità dichiarata di salvaguardare le sessanta posizioni occupazionali che la community militare americana aveva garantito fino ad allora, la volontà della ditta parmense Pizzarotti è in realtà quella di promuovere un progetto di riconversione dello spazio residenziale, allo scopo di individuare altre fonti di finanziamento in grado di mettere a frutto le cospicue somme di denaro pubblico e privato investite sul fondo immobiliare. Accantonata la proposta di un “nucleo sociale polifunzionale” in virtù del quale destinare l’intera struttura ad un programma di “edilizia residenziale locativa a canone calmierato” (Venticinque 2010; Mazzeo 2010), le rivoluzioni arabe ed il consequenziale incremento degli arrivi dei migranti sulle coste siciliane nei primi mesi del 2011 offrono alla impresa edile una soluzione ben più veloce e redditizia, sponsorizzata direttamente dal Ministero dell’Interno italiano sull’onda della “emergenza immigrazione”: quella di trasformare il Residence degli Aranci nel Villaggio della Solidarietà. È così che l’ex residenza per i soldati americani inizia ad assumere la funzione di CARA, configurandosi come uno dei più importanti Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo con i quali viene “contenuta” e fronteggiata la ripresa dei movimenti migratori dal Nord Africa dopo la breve pausa durata circa due anni.
Inizialmente uniti e decisi a fronteggiare con qualunque mezzo l’istituzione della mega struttura per migranti, gli attori politici locali cominciano repentinamente a differenziare le proprie posizioni quando dai vertici delle Istituzioni giunge un chiaro messaggio: le realtà locali disposte a dare il proprio contributo nello sforzo collettivo di “accogliere” i nuovi arrivati saranno generosamente ricompensati. A ciò si aggiunge anche una forte pressione proveniente dalle parti imprenditoriali allettati dai facili guadagni derivanti dagli investimenti a garanzia statale, oltre che una prospettiva di sviluppo economico e di rilancio del mercato occupazionale che un centro di accoglienza come quello di Mineo sembrerebbe lasciar intravedere in tutto il contesto territoriale calatino. Da quel momento, i rappresentanti politici conoscono una profonda scissione che, al di là degli orientamenti ideologici e valoriali di ciascuno di essi, porta alla formazione di due diversi schieramenti: chi è favorevole e chi rimane invece risolutamente contrario alla istituzione del CARA. Sullo sfondo, si colloca una definizione del concetto di “accoglienza” che assume caratteri assai ambivalenti. Alla schiera di coloro che considerano il centro di Mineo il fiore all’occhiello del reception system europeo per richiedenti asilo si contrappongono due posizioni politiche che, pur essendo antitetiche, finiscono con il convivere e con il portare avanti la medesima battaglia. Per questa via, la necessità di superare il “sistema Cara” viene ribadita tanto da coloro che auspicano maggiore tutele dei diritti umani e processi più inclusivi di inserimento sociale dei migranti; quanto da coloro che, invece, alimentano posizioni contrarie alla accoglienza tout court dei cittadini stranieri. Il dibattito sul Cara di Mineo diviene così il laboratorio nel quale vengono sperimentate pratiche di governo ed esercizi di potere che si ripercuotono visibilmente sull’opinione pubblica.
L’avvio dei primi trasferimenti dei cittadini di origine tunisina rappresenta il campo di prova nel quale si confrontano atteggiamenti e visioni della migrazione assai diversi tra loro. Nonostante le rassicurazioni dei rappresentanti istituzionali e il loro impegno formale ad offrire garanzie ai cittadini sottoscrivendo un documento noto come patto di sicurezza [2], in questa prima fase prevalgono i sentimenti di paura collettiva e di “ansia da invasione” che contribuiscono ad instaurare un clima di profonda tensione sociale. Stando alle parole dei testimoni privilegiati, a spaventare in modo particolare sono i liberi spostamenti di numerosi gruppi di migranti, non abbastanza “grati” del luogo scelto per loro da volere persino raggiungere il centro abitato di Mineo, distante ben undici chilometri:
La marginalizzazione spaziale e il sovraffollamento della struttura – che, a fronte di una capienza prevista di circa duemila unità, ospita al suo interno più di quattromila richiedenti asilo – costituiscono soltanto alcuni degli elementi che concorrono a far esplodere la bomba sociale, con il risultato di contrapporre la popolazione locale a quella straniera in un conflitto permanente che vede gli ultimi arrivati come i principali responsabili della precarietà economica e della disoccupazione. Al panico generalizzato si mescola, inoltre, il timore da parte dei piccoli proprietari terrieri locali che la presenza del centro di accoglienza nel mezzo della distesa agrumicola possa provocare effetti dannosi sui propri possedimenti agricoli. A questo proposito, emblematica è la testimonianza di Sebastiano Sinatra, pensionato, ex sindacalista CGIL e attento osservatore delle dinamiche sociali locali:
Se i sentimenti di paura collettiva e le trasformazioni del tessuto produttivo contribuiscono a spiegare le ragioni della tensione sociale che ha accompagnato la prima fase di vita del Cara di Mineo, le modalità con le quali sono state distribuite le risorse occupazionali derivanti dalla istituzione della struttura all’interno del contesto territoriale calatino chiariscono, invece, il perché il clima si sia successivamente pacato fino a configurare atteggiamenti di tacita “accettazione” del centro di Contrada Cucinella:
Riprendendo l’efficace immagine della shock economy proposta ormai qualche anno fa da Naomi Klein (Klein 2008), è pertanto verosimile ipotizzare che l’allarmismo politico con il quale è stata inaugurata la stagione degli arrivi dei migranti sin dal 2011, unita ad un business della emergenza tale da alimentare forme di distribuzione clientelare delle posizioni di impiego, abbia concorso a trasformare il “politicamente impossibile” in “politicamente inevitabile” (ivi), fino a costruire da zero un’utopia: quella del Cara di Mineo.
Accettazione e rifiuto dei richiedenti asilo a Mineo
L’ambigua tensione tra l’accettazione e il rifiuto del centro per richiedenti asilo di Mineo appare ancora più evidente se dall’analisi delle dinamiche sociali passiamo a quella della dimensione produttiva locale. La presenza del Cara in un contesto territoriale a forte vocazione agricola ha contribuito ad alterare gli antichi equilibri societari, rimettendo in discussione i presupposti sui quali si sono fondate nel tempo le forme di convivenza tra autoctoni e immigrati, per un verso, e tra immigrati stessi, per altro verso.
Al pari di altre realtà votate al settore primario, nell’area del Calatino le possibilità di impiego in agricoltura si sono dimostrate fin dagli anni ‘90 un importante fattore di attrazione e di richiamo per i gruppi di origine straniera, con conseguenze significative sui processi di segmentazione del mercato del lavoro e di differenziazione etnica dei salari. Alla presenza di lavoratori maghrerebini, a partire dal 2007 si è aggiunto l’arrivo di uomini e di donne dall’Est Europa che, inserendosi nel medesimo comparto occupazionale, hanno contribuito ad accentuare una concorrenza al ribasso con gli altri braccianti agricoli.
L’istituzione del Cara di Mineo nel 2011 ha agito sull’economia agricola del Calatino con un impatto ancora più evidente che ha condizionato non soltanto i meccanismi di produzione, ma anche i processi di reclutamento lavorativo. Gli abitanti del luogo hanno ben messo in evidenza come esista un rapporto assai contraddittorio tra i coltivatori locali e i richiedenti asilo. La struttura, collocandosi nel mezzo della Piana di Catania, ha infatti innescato una situazione altamente conflittuale tra le parti interessate. Da un lato, la posizione del Cara ha suscitato numerose proteste da parte dei proprietari terrieri che hanno visto il proprio fondo agricolo “deprezzato” a causa della vicinanza con il centro e derubato da alcune “razzie” dei richiedenti asilo, di passaggio nelle campagne per raggiungere i contesti urbani vicini. Dall’altro lato, la strategica collocazione del Centro ha prodotto la disponibilità di una manodopera precaria e a basso costo, da adattare alle esigenze momentanee del settore agricolo. Ciò è risultato ancora più utile in una fase storica nella quale la forte competizione con i mercati internazionali e la prospettiva di guadagni limitati dalla stagione agrumicola hanno spinto i piccoli produttori locali a lasciare sugli alberi i frutti per poi procedere successivamente alla raccolta degli agrumi da indirizzare alle industrie di trasformazione. Questo tipo di lavorazione – che, come hanno documentato i sindacalisti e gli agricoltori ascoltati nel corso dell’indagine, richiede il ricorso ad operai scarsamente qualificati – ha incentivato meccanismi di reclutamento lavorativo dei migranti inseriti nel circuito dell’accoglienza, con paghe giornaliere che hanno raggiunti livelli ancora più bassi rispetto a quelli stabilizzatisi con l’arrivo dei braccianti provenienti dall’Est Europa:
Il bisogno dei piccoli imprenditori agricoli di abbattere il costo del lavoro ha finito quindi con il convergere con l’esigenza dei richiedenti asilo di guadagnare piccole somme di denaro da inviare alle famiglie rimaste nei Paesi d’origine, oppure da accumulare per programmare la propria vita una volta ottenuto il titolo di soggiorno:
Al mattino, lo spettacolo che si offre ad un osservatore attento è degno di rilievo: numerose auto e furgoncini posteggiati a breve distanza dall’ingresso principale della struttura attendono che i migranti vi salgano su per poi scomparire nelle campagne circostanti. Il lavoro dei richiedenti asilo è al tempo stesso illegale e irregolare. Gli ospiti del Cara, infatti, sono in possesso di un documento di soggiorno che non consente loro di svolgere alcuna attività lavorativa. Questa condizione li conduce all’interno di un limbo giuridico e sociale che, costringendoli all’irregolarità, finisce con l’alimentare episodi di sfruttamento lavorativo.
Il risultato si traduce in un anomalo rapporto tra protezione e speculazione dei migranti che, in una dialettica tra push and pull factors, rende il Cara di Mineo uno dei luoghi di osservazione privilegiati dai quali interpretare in chiave critica fatti come quelli legati all’inchiesta Mafia Capitale.
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