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Giuseppe Giovanni Battaglia: un poeta corsaro
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2017 @ 00:03 In Cultura,Letture | No Comments
di Francesco Virga [*]
La storia mi sembra che abbia superato l’antica divisione del mondo tra laici e chierici; anche per questo parole come laicità e religiosità oggi non hanno più il senso che avevano un tempo. Tant’è che, ai nostri giorni, è possibile incontrare laici più chierici dei chierici d’una volta e uomini religiosi più laici di tanti presunti tali. Pertanto parlerò del poeta di Aliminusa al di fuori dello schema proposto dal titolo del Convegno che potrebbe generare equivoci e malintesi.
Sono sempre più convinto che il sentimento della meraviglia, come avevano già intuito gli antichi greci, sia il principio non solo della filosofia ma anche della poesia. Da questo sentimento germina, infatti, la poesia anche nel giovanissimo Battaglia. Chi si accosta a Giuseppe Giovanni Battaglia (1951-1995) non tarda a comprendere che la fonte prima della sua originalissima poesia, più che sui libri, va ricercata, specialmente per quanto riguarda il periodo giovanile, nella vita, nei volti e nelle parole degli uomini e delle donne del suo piccolo paese natale, Aliminusa. Non è un caso che uno dei suoi primi libri s’intitoli La piccola valle di Alì, dove Alì non è altro che l’abbreviazione del nome del paese termitano, particolarmente amato dal poeta, protagonista assoluto dei suoi primi versi.
La recente raccolta in un unico volume di tutte le poesie in lingua italiana del Battaglia [1] – curata da Vincenzo Ognibene e resa possibile dall’impegno comune della famiglia del poeta, del Comune di Aliminusa e del Parco Letterario intestato al poeta – – è un’occasione per rileggere con occhi nuovi l’intera sua opera e verificare la possibilità di un suo radicale ripensamento. Purtroppo questo bellissimo libro di poesia è stato, pressoché, ignorato da gran parte dell’industria culturale nazionale. Eppure i versi di Giuseppe Battaglia, spentosi a soli 44 anni, reggono benissimo al confronto con i più grandi autori del ’900. E, prima o poi, il tempo gli dovrà rendere giustizia.
Fin dagli anni ottanta, Salvatore Silvano Nigro [2], nel presentare una raccolta di versi dialettali del Battaglia, esortava a non considerarlo un semplice epigono di Ignazio Buttitta. E lo stesso Battaglia [3], nel 1988, ricordando di avere smesso di scrivere in lingua siciliana dieci anni prima, protestava contro coloro che s’attardavano a considerarlo un provinciale poeta dialettale.
I primi versi di Battaglia nell’antica lingua di Aliminusa
A 18 anni Giuseppe Giovanni Battaglia pubblica, insieme a Tano Gullo, il suo primo libro di versi intitolato La terra vascia.Non è casuale che il libro abbia per titolo una delle prime composizioni del poeta. La terra vascia è un testo chiave per comprendere Battaglia; qui si trova, infatti, quella che Donatella La Monaca, nel bel saggio introduttivo all’ultima edizione di tutti i versi italiani del poeta, ha felicemente definito «cellula originaria» [4] della sua opera creativa. Rivediamolo allora subito questo brevissimo testo:
Eccolo il «dialetto integrale e lontano», colto immediatamente da Leonardo Sciascia che non mancò di incoraggiare il giovanissimo autore con parole memorabili:
Sciascia riconosce al giovane Battaglia il merito di aver saputo sfuggire al rischio della maniera, l’artificiosa ricerca di parole desuete e dismesse, e di essere rimasto invece ancorato al linguaggio di ogni giorno, «alla pena che ad ogni giorno basta», e di essere stato capace di esprimere i sentimenti più intimi dei luoghi e delle cose.
La bellissima lettera di Leonardo Sciascia al giovanissimo autore diventerà Prefazione del secondo libro di Pino Battaglia, La piccola valle di Alì, pubblicato da Flaccovio nel 1972, che raccoglie tutti i suoi primi versi dialettali. E sarà proprio questo libro ad arrivare sul tavolo di Pier Paolo Pasolini e a condurre quest’ultimo, l’anno successivo, a citarlo come un caso unico nel panorama nazionale. Lo dimostra l’intervista che lo scrittore corsaro rilascia a Enzo Golino nel dicembre 1973. Infatti, al giornalista che gli chiede: «È possibile oggi una poesia dialettale? I giovani scrivono ancora versi in dialetto?», Pasolini risponde: «Ignazio Buttitta per la Sicilia, Albino Pierro per la Lucania, Tonino Guerra per la Romagna sono i primi nomi che mi vengono in mente, ma non sono giovani e da tempo hanno descritto un mondo ora scomparso. Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia» [7]. Il ragazzo palermitano di cui Pasolini non ricorda il nome è proprio Pino Battaglia.
In una conferenza tenuta nella Sala Picta di Termini Imerese, sei mesi fa, ho documentato analiticamente quanto Bat- taglia deve a Pasolini. E rimando al testo in corso di stampa, intitolato Pasolini nell’opera poetica di G.G. Battaglia, che offre una più ampia documentazione circa tale rapporto. In questa sede mi limiterò a mostrare solo alcuni dei fili che legano il poeta di Aliminusa ad uno dei più grandi autori del nostro ’900.
Finora, comunque, tra i tanti che hanno scritto su Battaglia, soltanto Vincenzo Ognibene ha indicato Pasolini come suo principale «amico e méntore»:
Dialetti e universo contadino
Le prime poesie di Battaglia risentono parecchio, dal punto di vista tematico, dell’influenza di Ignazio Buttitta. I temi principali sono la denuncia delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali, l’inno alla libertà e all’amore in tutte le sue forme. Ma, fin dal principio, i versi di Battaglia, rispetto a quelli di Buttitta, si distinguono per la loro maggiore essenzialità. Basta ricordarne solo alcuni:
Battaglia, fin da giovane, apprende ad usare con parsimonia le parole. È fortemente attratto dal modo di parlare dei contadini (li viddani) del suo paese che sanno usare poche essenziali parole, che riescono a colpire sempre per la loro durezza e aderenza alle cose.
Il 1972 è l’anno in cui vede la luce anche la prima edizione del libro di Ignazio Buttitta Io faccio il poeta, introdotto dello stesso Sciascia. Lo scrittore di Racalmuto è stato il trait d’union tra Battaglia, Buttitta e Pasolini. Nei primi anni settanta, i rapporti tra Battaglia e Buttitta sono molto stretti. Battaglia accompagna spesso il poeta di Bagheria alle Feste dell’Unità della provincia di Palermo, dove vengono letti i loro versi. Entrambi riescono a dare dignità di lingua al dialetto siciliano che, nelle loro mani, diventa anche uno strumento di lotta per una società più libera e giusta.
L’introduzione di Leonardo Sciascia al libro di Buttitta si conclude con un rimando alla poesia U rancuri e un polemico riferimento a Neruda. Ma il nocciolo dell’analisi sciasciana va ricercato nel passo in cui, da un lato, si riconosce la radice popolare e contadina della poesia di Buttitta, dall’altro, con un’apparente contraddizione, si afferma che quelle indiscutibili radici non fanno di lui un poeta popolare.
È singolare che due anni dopo Pasolini, nel recensire questo stesso libro di Buttitta, riprenda le osservazioni critiche di Sciascia. E non mi sembra casuale il fatto che questa recensione venga ripresa nei suoi Scritti corsari [11] che Battaglia mostra di conoscere perfettamente. Questa recensione è importante anche per la ricostruzione della biografia intellettuale dello scrittore corsaro. In essa, infatti, tra l’altro, Pasolini spiega la ragione per cui, proprio negli anni 1973-75, torna a scrivere versi in friulano:
Ho voluto riprendere per esteso questo passo della riflessione pasoliniana per evidenziare come in essa si trovino fusi tra loro, come spesso accade nei suoi testi, i livelli del pensiero astratto con i sentimenti e le emozioni derivanti dalla vita vissuta. E questo, come vedremo più avanti, è uno dei tratti distintivi comuni al modo di pensare e di essere sia di Pasolini che di Battaglia. Pasolini nella sua lettura di Buttitta va ben oltre Sciascia e, forse, offre una chiave per comprendere meglio le ragioni per cui Battaglia prenderà successivamente le distanze dal poeta di Bagheria:
Pasolini, con il suo rigore critico, in questa sua pagina, non concede nulla a populismi e buoni sentimenti:
Siamo qui di fronte a un punto alto di riflessione dello scrittore corsaro, che Battaglia riprenderà in molte sue poesie e negli articoli che, tra il 1979 e il 1980, pubblicherà in un periodico della Camera del Lavoro di Palermo. Su questo punto credo che Salvatore Silvano Nigro abbia visto meglio di Tullio De Mauro che, nel 1977, introducendo una nuova raccolta di versi dialettali di Battaglia intitolata Campa padrone che l’erba cresce, «fraintende Sciascia e tradisce la vera poesia di Battaglia», non riuscendo a cogliere l’originalità di quest’ultima rispetto a quella di Buttitta [15]. In realtà un’eco del pensiero e dello stesso lessico pasoliniano si avverte già nelle poesie scritte nel biennio 1976-1977, intitolate Le strade delle mutazioni, che segnano un primo cambiamento nei contenuti e nello stile di Battaglia. Basti pensare a due brevissime composizioni di questa raccolta:
Ma la svolta vera si ha nel 1979/1981, quando scrive e pubblica i suoi primi versi in lingua italiana raccogliendoli in un libretto intitolato I luoghi degli elementi che, non a caso, si apre con una citazione in esergo di M. Heidegger («Incamminati, / e mancanza e domanda sopporta / lungo il tuo solo sentiero») [17] e una metaforica Apologia della chiocciola in cui il poeta si paragona alla lumaca che «sul fradicio cammina / e, pur se lenta, arriva / […] / e la direzione mantiene, / lo scopo afferma »[18]. Non può non colpire la citazione heideggeriana fatta da un giovane marxista, per quanto eretico, qual’era ancora nel 1979 Battaglia. Si può cogliere in essa un chiaro e netto rifiuto di ogni chiusura dogmatica insieme ad una aperta e laica volontà di muoversi senza certezze precostituite.
Sia Pasolini che Battaglia hanno avuto chiara consapevolezza che l’universo contadino, da entrambi, forse, un po’ idealizzato, fosse condannato a scomparire. Eppure, così come Pasolini non avrebbe scambiato una lucciola per tutta la Montedison, Battaglia considerava più prezioso un piccolo albero d’ulivo che l’intero stabilimento della FIAT di Termini Imerese. Le ragioni del cuore, cui si richiama esplicitamente Pino Battaglia in una importante nota introduttiva ai suoi ultimi versi scritti nella «lingua della madre» [19], sono state sempre anteposte dai due poeti alle ragioni della storia.
Una spia dei profondi mutamenti sociali in corso, Battaglia li avverte già nella metà degli anni ’70, quando, ancora studente universitario ospite del Pensionato palermitano di S. Saverio, tornando al suo paese non si sente più riconosciuto dai vecchi contadini. Scriverà più tardi: Unni nascivu ‘un mi canuscinu chiù (dove sono nato non mi riconoscono più). Proverà, infatti, sgomento davanti alla piazza vuota del suo paese [20].
Verso la fine degli anni ’70 Battaglia comincia a scrivere anche in prosa. Ma in tutto quello che scrive si trova sempre un fondo di poesia. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai pezzi che pubblica su un periodico palermitano nel biennio 1979/1980. A differenza di Pasolini, infatti, Battaglia scrive questi articoli su un modesto periodico della Camera del Lavoro di Palermo, intitolato SINDACATO, che pochi leggevano. A spingerlo a scrivere e a pubblicare su questa testata sarà lo stesso direttore del periodico, Aurelio Colletta, che, conosciuto Pino quand’era ancora un suo alunno dell’Istituto Tecnico Commerciale di Termini Imerese, ed avendo letto con simpatia i suoi primi versi, gli affida, senza alcuna esitazione, l’autogestione di una pagina della rivista, oltre alla cura di alcune originali inchieste, pur sapendo quanto fosse imprevedibile e poco addomesticabile il poeta.
Battaglia dimostra la sua autonomia e indipendenza di giudizio, la sua profonda laicità, appunto, fin dal suo primo pezzo, intitolato Corsivo, pubblicato nell’aprile del 1979. Qui, infatti, insieme ad alcuni brani (allora inediti) de L’ordine di viaggio, vede la luce un testo polemico, intitolato DAI PRIMI ANNI 50, in cui si rappresenta un dirigente sindacale che rivolge a dei giovani compagni questa domanda:
Lo stesso Battaglia, caustico, risponde:
Come si vede, pur scrivendo su un foglio della CGIL, Battaglia non teme di criticare l’operato di tanti sindacalisti del tempo, dimostrando, ancora una volta, quanto laico fosse il suo punto di vista in anni in cui i furori ideologici e lo spirito di appartenenza prevalevano nettamente sullo spirito critico. Un mese dopo intervista il poeta cileno Herman Castellano Giron e, successivamente, pubblica un lungo resoconto dell’incontro che il cileno ha con gli operai di una fabbrica palermitana [22].
In un graffiante articolo del giugno 1979, intitolato Sindonia di anime morte, prendendo spunto dalle notizie relative alle famigerate imprese del banchiere Michele Sindona, sferra un duro attacco al sistema di potere democristiano con un esplicito richiamo al famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole di Pasolini. Ne riprendiamo di seguito l’amaro e sarcastico passo finale:
Sarcasmo a parte, Battaglia nel 1979 mostra ancora di avere fiducia nella storia, non si spiegherebbe altrimenti il rimando alla battuta finale, mutuata dal compagno contadino.
Ma il pezzo che mostra, inequivocabilmente, quanto il poeta di Aliminusa avesse assimilato in profondità lo stile dello scrittore corsaro, capace di scandalizzare i benpensanti di destra e di sinistra, viene pubblicato nel novembre del 1979. L’articolo, intitolato Note ai margini di un funerale, è dedicato ad uno dei tanti “funerali di Stato” celebratisi a Palermo in onore dei rappresentanti delle Istituzioni caduti sul fronte dell’antimafia. Battaglia ricorda che l’espressione Càrinu comu li pira viene usata a Palermo per indicare i morti ammazzati dalla mafia. Il poeta è colpito, soprattutto, dall’indifferenza che traspare già da questo modo di dire. Ma, a differenza di tanti altri, prova a darne una spiegazione non moralistica, avvalendosi, oltre che di Rousseau, di una antica metafora contadina:
Particolarmente tagliente la stoccata finale contro la retorica dei “funerali di Stato”:
Sacralità della poesia e della vita
G. G. Battaglia, come Pasolini, non ha mai smesso di svolgere quello che riteneva essere il “primo dovere di un intellettuale”, ossia «esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti» [26]. Nell’ultima intervista rilasciata a Furio Colombo, proprio qualche giorno prima d’essere trucidato, Pasolini aveva lanciato un allarme:
In questa intervista si trova, a parer mio, una delle più intelligenti definizioni del concetto di potere che io conosca:
Una rappresentazione simile del potere si trova anche in Battaglia, particolarmente nei suoi testi teatrali dei primi anni Ottanta, che mi riservo di analizzare puntualmente in un’altra occasione. Qui basta ricordare il rapporto stretto che si stabilì, in quegli anni, tra Pino, Lina Prosa e Michele Perriera. Lina Prosa ha saputo fare una bella, per quanto sommaria, ricostruzione di quella creativa stagione di Battaglia nella Presentazione dei testi raccolti in un bel volume [29].
Mentre Francesco Muzzioli, nel saggio introduttivo al Dramma-farsa G. III dello stesso Battaglia, oltre a richiamare un passo centrale dell’opera (Il potere è figlio di ignoti […]. In qualsiasi modo lo amministri, dilani, squarti. E sia secondo ragione e sia secondo follia) [30] ne evidenzia la “vischiosità” da cui è difficile districarsi: il potere è come il ventre materno, vischioso come l’umidità che respiro. Il potere somiglia all’acqua: Mai fidarsi dell’acqua! Diabolica, senza forma ne assume mille! [31].
Ma è, soprattutto, in alcuni versi raccolti nei suoi ultimi libri di poesie in lingua italiana che si ritrova espressi, con forza, il senso del vuoto avvertito e la sua opposizione radicale ad un mondo in cui non era più possibile riconoscersi:
Questa opposizione, infatti, raggiunge il suo apice in una delle sue ultime composizioni che ha per titolo L’ira del pastore:
Pasolini amava ripetere che tutto è sacro e, in una lunga intervista a J. Halliday, risalente alla fine degli anni 60, ha precisato meglio il suo pensiero:
Lo stesso Pasolini, in un’altra famosa intervista a Enzo Biagi, che gli domanda, sorpreso, come mai un pensatore marxista mostrasse tanto interesse per il Vangelo di Cristo, afferma:
Una visione del mondo simile a questa si trova in tutta l’opera poetica di Pino Battaglia. Essa trova una prima forte espressione nei versi che scrive, nel biennio 1984-1985, a seguito di una sua personalissima rilettura della Bibbia. Questi versi vengono raccolti in un libretto, intitolato Genesi e Requiem che, tradotti in tedesco da Bruna Dal Lago e Elmar Locher e musicati da Heinrich Unterhofer, saranno pubblicati nel 1986 in un prezioso volume [36].
Fin dalle prime righe, in un linguaggio ermetico che gli è familiare, Battaglia enuncia il suo programma:
Gli elementi contraddittori ( i contrari ) presenti in apertura della sua Genesi tornano in tutti i sei giorni successivi. In forme diverse le coppie dei contrari s’inseguono tra loro ( maschio e femmina, sapienza e mancamento, perdita e allontanamento, limpido e torbido, generazione e corruzione, umido e secco) e sembra che trovino pace solo nel settimo giorno, quando il poeta sembra aver raggiunto, seppure in forma vaga, la consapevolezza dialettica che tutto l’universo è pervaso da contrari:
settimo giorno
Ancora più drammatici appaiono i versi del suo singolare Requiem, sotto titolato preghiere di un morto per i morti, che si apre così:
anthipona ad introitum
Questo tema torna nel suo dies irae:
Ma raggiunge il suo apice nell’ offertorium:
Traspare chiaramente da questi versi straordinari un vago senso di colpa e un presentimento della prossima malattia che lo condurrà ad una prematura morte.
Battaglia nei suoi ultimi anni di vita è stanco ma – a differenza di Pasolini, a cui pur non mancava il senso religioso della vita – è sostenuto da una fede potente. Si avverte, soprattutto nei suoi ultimi versi, una personale rilettura dei Salmi e del libro di Giobbe dell’Antico Testamento. Non a caso, tra le ultime cose che ha scritto, si possono leggere preghiere come queste:
Pino Battaglia sa che il suo viaggio sta per volgere al termine, egli ha ormai preso distanza da tutte le cose amate nel corso della sua breve ma intensa vita. Non gli costa nulla, ora, riconoscere d’essere stanco e si rivolge così al suo unico Signore:
Oltre che dalla sua solida fede e dalla sua poesia, negli ultimi giorni della sua vita, Pino è stato sostenuto dai suoi amici più cari, dalle sorelle e dalla madre. Alla madre aveva dedicato questi versi quando aveva solo 18 anni:
Sarebbe facile qui ricordare cosa ha rappresentato la madre per Pasolini. Ed evito quindi di farlo. Ma va ricordato che il poeta di Aliminusa, nel 1992, in una breve nota introduttiva alle sue ultime raccolte di versi dialettali Fantàsima (1991) e Discesa ai morti (1992), scrive:
Fino alla fine, pertanto, Battaglia rimane fedele sia alle ragioni del cuore che alla lingua della madre con la quale scrive alcuni dei suoi versi più belli:
Battaglia ha vissuto le gioie, i dolori e i misteri della vita «con teneri occhi di bimbo» [47]. Ha conservato fino all’ultimo il suo stupore infantile, non ha mai tradito le cose in cui credeva; anche per questo, nei primi incendi che hanno bruciato i boschi dell’isola, ha visto bruciare il cuore stesso delle nostre infelici città:
La poesia degli ultimi mesi di vita di Battaglia diventa allora “la formica” che si assume , appunto, “l’onere della conservazione”. E sta tutta qui, secondo me, il suo carattere “sacrale” [49]. Lo stesso Battaglia, peraltro, si è mostrato consapevole fino all’ultimo della sua segreta forza:
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