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Fra ricerca etnomusicologica e performance. L’esperienza di Gemino Calà polistrumentista

etnomusicologia23di Mario Sarica 

L’etnomusicologia italiana, negli ultimi quarant’anni, ha conquistato sul campo titoli di merito di assoluto rilievo. Oltre a salvare dall’estinzione forme musicali di tradizione orale, che per secoli hanno plasmato i sentimenti di vita delle comunità rurali disseminate nel frastagliato territorio peninsulare ed insulare, in un varietà sorprendente di occasioni e funzioni d’uso, ha contestualmente aggiornato la mappa etnorganologica, fino agli settanta del secolo scorso pressoché inesistente. Una stagione di ricerca sul campo irripetibile, forse l’ultima dal carattere interrelato, perché svolta nel rispetto rigoroso dei canoni scientifici metodologici e in maniera sistematica su tutto il territorio italiano, e soprattutto con lo spirito romantico originario della riscoperta delle “piccole patrie”, che ha fatto emergere la trama fittissima di uno strumentario da suono e musicale, primario e secondario, per certi versi inaspettato ed insieme miracolosamente vitale, centrale da sempre nella comunicazione interpersonale e collettiva. Ampio poi lo spettro funzionale e semantico emerso (dal segnaletico al cognitivo, dal devozionale all’emozionale, dal trascendere al festivo) in una pluralità di fonosfere   interrelate, dall’ambito domestico a quello di lavoro, dai contesti cerimoniali sacri a quelli festivi profani, immersi in un paesaggio sonoro ormai perduto fra natura e cultura.

Gli effetti collaterali benefici di questa vasta rete di rilevamenti e della conseguente raccolta di preziosa documentazione, ai più invisibile, sono state le numerose antologie sonore edite prima in vinile e poi in CD, dedicate alla pluralità dei repertori strumentali e di canto monodici, polivocali della tradizione italiana; i tanti saggi tematici variamente connotati e ancora specifici e originali contributi anche multidisciplinari, come quelli relativi all’iconografia musicale e alla pratica di riscrittura dei repertori musicali di tradizione orale. Apporti di studio sempre più incisivi e maturi con chiavi di analisi e ed esiti interpretativi di assoluto rilievo scientifico, complici anche i fondamentali testi dei massimi specialisti stranieri della materia finalmente in quella ormai lontana stagione tradotti in italiano.

In più, negli stessi anni ci si è liberati della coltre di polvere depositata sulle collezioni dei beni demoetnoantropologici, e anche di quella dei negletti strumenti musicali popolari, rinnovando nel profondo il pensiero museografico, e dunque i criteri espositivi e di racconto etnografico, dando così voce ad artefatti e manufatti usciti dell’orizzonte di appartenenza delle comunità d’origine.

Un’azione culturale polifonica, che ha dato dignità e valore al bene demoetnoantropologico, nella doppia accezione materiale e immateriale, fino a farlo entrare a pieno titolo nel catalogo ministeriale, fianco a fianco con pari dignità alle opere artistiche maggiori, quelle che hanno da sempre fatto schizzare in alto il PIL culturale italiano agli occhi del mondo. E assieme al riconoscimento normativo statutario, la “riscoperta” delle testimonianze di origine agropastorali ha innescato un processo virtuoso, ben oltre gli steccati accademici, innervando con dignità e valore sociale, un dialogo fra passato, presente e futuro, riconoscendo al patrimonio demoetnoantropologico nella sua interezza un forte carattere culturale identitario per ogni territorio, esaltandone le singole ed esclusive specificità ambientali intimamente unite a quelle cerimoniale, festive ed artigianali. Parimenti si è avvertito il bisogno di sperimentare con orgoglio a volte sanamente campanilistico un approccio di conservazione ed esposizione museografica innovativi, facendo anche ricorso ai nuovi strumenti di comunicazione del contemporaneo.

etnomusicologia-italia-6296f18c-d29c-4698-9015-34e00a93b17cUn processo sottotraccia in direzione opposta alla globalizzazione, in grado di restituire dignità piena al microcosmo del territorio, dentro una cornice, come si usa dire, interattiva, facendo emergere una più diffusa e matura consapevolezza collettiva di riscoperta delle radici e di sentimenti comunitari di appartenenza, con ricadute benefiche anche sull’offerta di turismo culturale, come si usa dire ora, esperienziale e di prossimità.

E rivolgendo nuovamente l’orecchio alle forme della musica di tradizione, va segnalato che, grazie alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, si è fatta strada in maniera concentrica il pensiero, sempre più condiviso, di riconoscere proprio alla musica popolare italiana dei mille comuni, e ai suoi strumenti da suono e musicali spesso dalla memoria arcaica, nelle infinite declinazioni d’uso, la piena dignità di bene culturale primario, necessario per una lettura il più possibile completa ed interdisciplinare della storia del territorio e del paesaggio sonoro.

Un’esperienza di ricerca e studio anche di umanità davvero singolare e irripetibile, quella vissuta dal giovane gruppo di ricercatori degli anni Settanta e Ottanta del XX secolo, che hanno avuto in Roberto Leydi e Diego Carpitella – titolari delle due uniche cattedre universitarie di etnomusicologia attive in quegli anni, rispettivamente presso le università di Bologna e  Roma – le guide illuminate ed appassionate lungo gli itinerari di ricerca, a stretto contatto con donne e uomini dai saperi musicali antichi e dagli sguardi accoglienti e generosi.

222803A questi lunghi anni esaltanti di rilevamenti sul campo, occasione formidabile di formazione e crescita di ricercatori motivati ed appassionati, molti dei quali hanno intrapreso meritatamente e con successo la carriera universitaria, moltiplicando le cattedre di etnomusicologia in tutti gli atenei da nord a sud, ha fatto seguito una nuova generazione costituita in gran parte da musicisti-ricercatori e nuovi costruttori di strumenti musicali di tradizione. E così, gradualmente, mentre si sono sempre più rarefatti gli ambiti del fare musica tradizionale nei residui contesti funzionali originari, per la fatale scomparsa dei suonatori e cantori di tradizione e la  disgregazione delle cornici culturali comunitarie, – ambedue riferimenti di “verità” storico-culturale, riconosciuti come tratti distintivi della propria vicenda esistenziale collettiva – ecco affacciarsi sulla scena i nuovi interpreti delle forme musicali di tradizione che spesso per necessità o scelta, volendo semplificare al massimo, si sono fatti loro stessi suonatori e cantori di “nuova tradizione”, tentando d’insufflare un’anima popolare in alcuni casi perduta per sempre. In grado comunque quasi sempre di alimentare un legame virtuoso di trasmissione e scambio di saperi con gli ultimi suonatori e costruttori di tradizione autentica, custodi dei segreti musicali antichi.

Effetti collaterali, non proprio esemplari, su questo versante sono state molte fughe verso la reinterpretazione e la riscrittura musicale, a volte fin troppo disinvolta e autoreferenziale, della cultura popolare, fino in taluni casi a manipolarla secondo gli standard del consumo musicale onnivoro dei nostri giorni, inseguendo, magari, una vena ri-creativa artistica da autore in cerca di successo. Dunque, la lista dei ricercatori-musicisti si è fatta quanto mai numerosa e variegata nel giro degli ultimi quarant’anni.

Alla generazione di rigida formazione accademica, nutrita del sapere delle fonti di ricerca etnomusicologica ed etnorganologica, si sono aggiunte così altre figure a vario titolo interessate alla ricerca delle tradizioni perdute e performers di eterogenea estrazione culturale, con inclinazioni ed attitudini quanto mai diversificate, che, in molti casi, pur non rinnegando la tradizione, l’hanno inevitabilmente riplasmata nel segno della contaminazione e meticciato con altri linguaggi e storie musicali strumentali e vocali mediterranee ed extraeuropee, secondo lo spirito del tempo e i marcati relativismi del presente.

utriculus-1Specularmente, soprattutto nel vivace territorio dei musicisti-costruttori, c’è da annotare lungo lo scorrere veloce degli anni una sempre più matura e piena consapevolezza dei saperi etnorganologici della tradizione, grazie all’ampia bibliografia e discografia e materiali filmati di ricerca, e i contatti e scambi via web, e ancora a poche riviste specializzate,  quale ad esempio “Utriculus”, fondata e voluta dal Circolo della zampogna di Scapoli nelle belle Mainarde in Molise, fondato e animato da sempre dall’instancabile ed appassionata Antonietta Caccia. E in questa pluralità di incontri e scambi di saperi, si riscontrano spesso acuti sguardi retrospettivi anche sull’iconografia musicale, in grado di porre questioni cruciali sull’evoluzione organologica italiana attraverso i secoli XV, XVI e XVII, in riferimento soprattutto alla famiglia degli aerofoni a sacco di origine pastorale, a cominciare ovviamente dalla singolare e diversificata famiglia di zampogne italiane. Proprio da queste riflessioni sulle antiche carte ecco prendere forma al tornio varianti e riproposte filologiche organologiche di strumenti perduti o inventati, unite a rigenerazioni performative di repertori musicali strumentali di tradizione dimenticati.

Un interesse di studio dunque crescente e multiforme che pone l’Italia, e non solo in ambito europeo, tra le aree di primario interesse per la valorizzazione del patrimonio etnorganologico, che trova puntuale riscontro anche nella istituzione di cattedre dedicate nei conservatori italiani. E tra i più recenti esempi virtuosi su questo versante, va segnalato quello del conservatorio di musica di Catanzaro, che grazie all’etnomusicologo Danilo Gatto, ha indicato la strada da seguire agli altri, sollecitando, riuscendoci, l’attivazione di corsi triennali e magistrali per l’insegnamento dell’organetto diatonico, della chitarra battente della lira e della zampogna. A dare man forte a queste nuove e significative aperture nei confronti del ricco patrimonio etnorganologico italiano, bisogna aggiungere anche la prima cattedra di chitarra folk, di cui è titolare Micki Piperno, istituita l’anno scorso al Conservatorio de L’Aquila e a Teramo.

24La Sicilia, rispetto al più vasto orizzonte di ricerca e studio sul patrimonio etnomusicologico ed etnorganologico italiano, vanta com’è noto un posto di tutto rilievo per la singolare e virtuosa sinergia fra istituzioni universitarie e realtà di ricerca e museali sul territorio, fra l’altro di lungo periodo storico, che trovano nella cattedra di etnomusicologia di Palermo, di cui è titolare Sergio Bonanzinga, un riferimento di alto livello scientifico e propositivo. Altrettanto vasta, vivace e qualificata è poi la platea di musicisti e costruttori, nella stragrande maggioranza dei casi fedele, per così dire, agli insegnamenti dei padri; così come riferimenti imprescindibili rimangono le realtà museali demoetnoantropologiche impegnate in un processo di rigenerazione identitaria con il territorio. E tra queste spicca il Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso, a 16 km di Messina, sul versante tirrenico, che si segnala con caratteristiche uniche e distintive sul tema specifico musicale, perché conserva e valorizza anche sul versante performativo, con stretti legami con musicisti e costruttori del territorio di riferimento e non solo, tutta la famiglia di strumenti da suono e musicali della tradizione siciliana.

Meno interesse sul tema hanno mostrato finora invece i conservatori isolani, a parte quello palermitano, l’unico a promuovere, ormai parecchi anni fa grazie a Gigi Garofalo, un corso triennale straordinario sulle “Musiche del territorio”, e il “Corelli” di Messina con un recente ciclo laboratoriale incentrato sugli aerofoni pastorali peloritani. E allora ci si augura proprio che le istituzioni massime di formazione musicale si accorgano finalmente di vivere a contatto con un patrimonio etnomusicologico di assoluto valore, che peraltro nei secoli ha dialogato con le storiche cappelle musicali siciliane e tutta la letteratura musicale alta, a partire dalle forme pastorali, per offrire nuove opportunità di formazione e crescita alle nuove generazioni di musicisti, salvaguardando al contempo un patrimonio culturale e musicale identitario di inestimabile valore. 

Museo Musica popolare

Museo di Cultura e Musica popolare, Gesso (Messina)

E su questi territori musicali di confine, dove forte e stimolante è il confronto con la tradizione e le sue tante declinazioni vocali e strumentali, nel tentativo di continuare a dialogare e raccontare di un orizzonte di sentimenti, emozioni e vissuti esistenziali perduti, tra le tante esperienze dei nostri giorni di musicisti-ricercatori e magari di costruttori, quella di Gemino Calà emerge tra le più emblematiche e singolari. Cresciuto a Tortorici, sui Nebrodi, si è nutrito fin da ragazzino di musica, prima quella della banda, dove inizia a suonare il clarinetto, che lo guiderà poi al diploma conseguito al conservatorio “Corelli” di Messina con il massimo dei voti. Ma lui, a differenza di altri suoi compagni musicali, non riesce a rimanere indifferente ai suoni pastorali e ai repertori vocali della tradizione, che lo avvolgono quotidianamente, plasmando in sé una sensibilità e un’attitudine unica per la pratica strumentale. La sua innata versatilità musicale e la sua spiccata curiosità per la scoperta degli strumenti musicali, lo guidano a muoversi con disinvoltura e divertimento, come gioia nel fare musica sempre e comunque, dalla tastiera del pianoforte a quella della fisarmonica, per passare con naturalezza a suonare con facilità tutta la famiglia degli aerofoni pastorali, dal flauto diritto alla zampogna a paro, passando per il doppio flauto.  Strumenti quest’ultimi, il cui uso è attestato peraltro significativamente proprio a Tortorici, ben nota anche per la quasi millenaria pratica di fusione di campane, compresa quella che risuona a Palermo per i Vespri siciliani.

Figlio del suo tempo, Calà si nutre di tutti i generi musicali, con un’innata attitudine alla riscrittura musicale performativa paritaria fra colto e popolare, affinando una cifra stilistica che esalta le sue non comuni qualità virtuosistiche ed interpretative. Sente poi il bisogno di confrontarsi con la vasta ricerca etnomusicologica siciliana, firmando il primo metodo didattico d’uso del flauto diritto di canna, per poi soffermarsi sul flauto doppio e la zampogna a paro. Mette a frutto anche le sue capacità di manipolare la materia, non solo canna, ma anche legno e perfino tubi di plastica, per costruire flauti secondo gli impianti organologici musicali tradizionali, fino ad inventare e brevettare la prima chiave applicata al flauto, necessaria ad ampliare la tessitura musicale delle scale intonate.

marranzano-9-png-copertina-fronteAffascinato dal jazz, approfondisce la conoscenza di questo rivoluzionario genere musicale conseguendo un diploma specifico al Conservatorio “Corelli” di Messina, avendo poi il privilegio di studiare a Roma con il grande Tony Scott, figura carismatica jazz, peraltro di origini siciliane. Questa singolare e vasta conoscenza di generi musicali e pratica strumentale, consente a Gemino di essere protagonista in tante formazioni crossover, musicalmente parlando, ma anche di consegnare alle nuove generazioni, in particolare ai suoi giovanissimi allievi nelle scuole medie, un sapere musicale singolare animato da un legame profondo con le forme musicali della tradizione, con la formazione di ensemble strumentali-vocali che non passano inosservate a livello nazionale. Cospicua poi la sua produzione discografica lungo un percorso coerente di riscoperta degli strumenti musicali della tradizione a contatto con tutti i generi, dalla classica al jazz. Non possiamo non annotare infine nella sua vasta produzione discografica il bel disco dedicato al flauto intitolato Zufolomania, tra performance virtuosistiche mirabolanti e inaspettati incontri con altri linguaggi musicali del Novecento, soprattutto con il suo amato jazz.

Una storia, dunque, musicalmente parlando davvero emblematica quella di Gemino Calà, che non ha mai separato la ricerca sugli strumenti musicali tradizionali siciliani dall’uso degli stessi sulla scena musicale “contaminata” dei nostri giorni, che lo vede protagonista assoluto nel ruolo di solista polistrumentista nelle più variegate formazioni, dai complessi d’archi da camera classici alle band più “spregiudicate”, quelle etno-rock-pop, passando per i quartetti o quintetti d’ottone, agli organici bandistici, fino ai gruppi jazz. La sua ampia versatilità musicale, da leggersi come approfondita competenza nei diversi generi musicali storici e contemporanei fino all’espressione jazz, frequentata quest’ultima prevalentemente con il clarinetto, mette in mostra una solida formazione musicale da conservatorio, e non solo.

1La sua “naturalezza” strumentale e la spiccata vocazione per l’improvvisazione, che spesso sconfina nel virtuosismo puro, senza essere tuttavia narcisismo musicale, ne fanno un interprete unico e di cifra superiore di tutta la famiglia di fiati pastorali siciliani, dai flauti e clarinetti di canna, semplici e doppi, alle pifare o bifire (oboi popolari), alle zampogne ‘a paro’. Sul versante della ricerca etno-organologica, che ha dato, a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, esiti di valore assoluto, confermando il territorio siciliano tra i più ricchi giacimenti di musica di tradizione orale dell’intero bacino del Mediterraneo, Gemino Calà si è ritagliato uno spazio tutto suo. E così,  facendo riferimento ai titoli più autorevoli delle fonti etnomusicologiche siciliane, dagli autori classici ottocenteschi fino ai nostri giorni, il musicista di Tortorici, con rigore ed umiltà si è accostato, ormai parecchi anni fa, prima al flauto diritto di canna semplice, e poi a quello doppio, e alla zampogna “a paro” disvelandone i caratteri organologici e le qualità musicali,  coniugando così il rispetto nei confronti dei contenuti della ricerca anche con  finalità didattiche e di trasmissione di conoscenze e competenze musicali.

9E lungo questo singolare itinerario musicale, davvero paradigmatico della nostra contemporaneità “multiverso”, giunge l’incontro inaspettato per certi versi di Gemino Calà con un singolare strumento ‘minore” siciliano, con l’iconico e insieme oleografico scacciapensieri o marranzano, che emerge luminoso più che mai in un disco, unendo questo suono misterioso ed arcaico a contesti musicali impensati, dalla grande bellezza.

Una scelta quanto mai felice, che s’inserisce, peraltro, in un più vasto movimento isolano che, ormai da parecchi anni, tende a rivitalizzare l’umile idiofono a pizzico, grazie anche e soprattutto alla rassegna promossa dal catanese suonatore Luca Recupero. Mosso dal desiderio di riscattarlo dal suo ruolo di strumento minore, dalla “cattiva reputazione”, visto che le fonti demologiche lo associano anche a contesti malavitosi, con la finalità di distrarre con il suo suono i malcapitati da derubare, Gemino Calà amplia subito il suo orizzonte, riconoscendo molto opportunamente allo strumento, da lui definito organologicamente “aero-idiofono a pizzico a suono determinato”, un’appartenenza a quasi tutte le culture musicali tradizionali del mondo. Non più, dunque, mariòlu o ngannalarruni, che per estensione semantica lo associa ai borsaioli, né solo pittorescamente compagno dei carrettieri, ma strumento musicale che, nelle mani di Calà, acquista una nuova e impensabile dignità confrontandosi alla pari, anzi nel ruolo di splendido solista, con altri più nobili strumenti musicali, e nei più disparati generi.

4Un fascinoso viaggio musicale attorno al mondo, quello proposto del musicista siciliano, ripercorrendo idealmente le infinite vie seguite dallo scacciapensieri nel corso della sua lunga e avventurosa storia, che sembra abbia avuto origini in terre asiatiche in tempi remoti. Dai suoni arcaici del “Didjeridoo”, ovvero dal brano di apertura, fino alla “New Ciuri-Ciuri Jazz Orchestra” di Santi Scarcella, passando per l’”Epitaffio di Sicilo”, al “Coro Ouverture” diretto da Giovanni Mirabile, al “Morrison’s Jig”, con Sabrina e Simona Palazzolo alle arpe celtiche, e in tante altre inaspettate escursioni musicali, è tutto uno sfavillìo sonoro dai colori trasparenti, seducente e irresistibile. Un distillato di suoni armonici che Gemino Calà fa sgorgare con sapienza – seguendo originali disegni musicali dai temi dati –, ora dagli scacciapensieri austriaci, omaggio ad una terra che ha eletto questo strumento ad espressione colta, ora a quelli vietnamiti e a quello di bamboo, sempre di provenienza orientale. Un’esperienza dunque di ricerca esemplare, riversata a piene mani nella riscrittura e arrangiamenti, per offrirsi all’ascolto che esalta le qualità segrete dello scacciapensieri, sorprendente e fascinoso.

E allora non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione per incontrarlo e per approfondire la sua singolare esperienza, rivolgendo la nostra attenzione a questo specifico contributo etnorganologico e musicale che interagisce con ricerca e performance.

Allora Gemino, come presentare ai neofiti la tua opera discografica, summa esemplare e specchio fedele del tuo modo di vivere la musica? 

«Debbo preliminarmente dire che Marranzanumania, questo il titolo del CD è una raccolta di 16 brani eseguiti con il marranzano ovvero lo scacciapensieri, registrati con diverse formazioni musicali nel corso di diversi periodi della mia esperienza musicale, che come hai detto ha sempre coniugato con una mia personale cifra interpretativa il vasto giacimento di musiche tradizionali e non solo, al quale ho fatto riferimento. In particolare gli strumenti che ho utilizzato sono stati quelli della tradizione austriaca di Schuartz (maultrommel), quelli siciliani e ancora quelli vietnamiti (dan moi) anche in canna di bambòo».   

5A questo punto credo sia utile approfondire la conoscenza organologica di questo arcaico strumento presente in quasi tutte le culture musicali del mondo, conosciuta come arpa degli ebrei. 

Il marranzano siciliano, più comunemente noto in Italia col nome di scacciapensieri, è uno strumento a percussione a suono determinato, appartenente alla famiglia degli idiofoni a pizzico; erroneamente viene considerato anche un aerofono perché riproduce un effetto acustico il cui timbro, grazie all’emissione del fiato, consente di elevarne l’intensità del suono, di ottenere effetti particolari, che consistono soprattutto nella riproduzione degli accenti espirati ed inspirati.

6Le fauci fanno da naturale cassa di risonanza, ma, variando aperture e chiusure, dimensioni e forma della bocca, i movimenti della lingua, si possono ottenere altre note, dette armoniche o armonici, oltre quella unica, fondamentale. Comunque, nel marranzano, anche se non è un aerofono, il fiato ricopre un ruolo di fondamentale importanza, ed organologicamente si può classificare sia tra gli aerofoni sia tra gli idiofoni a pizzico a suono determinato. Secondo me è un “aero-idiofono a pizzico a suono determinato. 

Uno strumento dunque davvero singolare, che richiede una grande abilità costruttiva, realizzato in ferro battuto, peraltro nomade, che richiede una tecnica d’uso che può raggiungere livelli performativi alti ed inaspettati, da sciamani… 

«È proprio cosi, per ottenere il suono da questo strumento, costituito da un telaio e una linguetta vibrante, il cosiddetto ronzio del marranzanu, è necessario applicare una tecnica molto attenta: si porta lo strumento tra i denti oppure tra le labbra se si tratta di uno strumento vietnamita; si fa vibrare la linguetta detta anche ancia, lamella o lametta, pizzicandola solitamente con l’indice della mano destra, ma se è necessario si può utilizzare anche il medio. Per i mancini si impugna con la mano destra e si pizzica con l’indice sinistro. Infine dalla bocca, la quale per l’occasione funge da cassa armonica, si ottiene il tipico suono ronzante, arcaico, fondamentalmente ipnotico dello scacciapensieri. La linguetta, lasciata vibrare liberamente, produce un’unica nota detta anche “fondamentale”, che è quella che determina la tonalità dello strumento; l’esecutore, come dicevo pocanzi, può comunque svilupparne altre, grazie alla riproduzione dei suoni armonici rispetto alla nota fondamentale come segue: variando la forma della cavità orale, pronunciando vocali, consonanti, suoni gutturali, ecc… Inoltre può avvalersi anche dell’uso del fiato coordinato dal diaframma ed emesso contemporaneamente durante la vibrazione della linguetta in modo da poter gestire l’altezza dei suoni con più facilità e fluidità, e la riproduzione degli accenti. Dunque combinando gli armonici si possono sviluppare linee melodiche di grande fascinazione sonora. Certamente, facendo interagire gli armonici si produce un sound molto particolare e singolare, sia per quanto riguarda la ritmica sia per quanto riguarda la melodia. La serie degli armonici generata dallo scacciapensieri è come quella prodotta dalla tromba».

Ed ora Gemino vediamo, se possibile, di individuare le misteriose origini di questo strumento da suono apparentemente elementare nel produrre suoni… 

«In merito alle possibili origini geografiche di questo strumento si può abbracciare in toto il risultato della ricerca condotta dallo studioso Davide Riccio, che ha smontato l’opinione diffusa della sua origine meridionale. Lo strumento, in diversa forma, potrebbe aver avuto origine nelle aree culturali-pastorali arabe. Lo ritroviamo in uso in moltissimi Paesi di tutti i continenti In Nuova Guinea lo scacciapensieri è addirittura considerato sacro ed è utilizzato come strumento cerimoniale, suonato esclusivamente dagli uomini nel corso di eventi religiosi.  In Siberia e in Mongolia, è stato utilizzato addirittura per stimolare la trance e per guarire i malati. Attestato nelle diverse regioni prende nomi diversi: in Sicilia si identifica, l’abbiamo detto, come mariolu, ngannalarruni e marranzanu; malarruni e zingarola in Calabria; Sa Trunfa e Trumba in Sardegna; Ribebba in Piemonte; Grillone e Bebola in Toscana; Garalvoun in Romagna; Biabò in Emilia; Piambè in Veneto; Tintine in Friuli». 

E infine soffermiamoci sul tuo esemplare lavoro discografico Marranzanumania dedicato allo scacciapensieri: cosa è necessario aggiungere a quanto detto finora… 

«Intanto la scelta del titolo, che non è affatto casuale, anzi serve a sottolineare la mia “Mania” nello studiare questo strumento dalla memoria arcaica, per farlo apprendere, sotto una luce diversa, più completa di quanto non sia stato fatto prima d’oggi; così sono riuscito ad inserirlo in circuiti di innovazione e sperimentazione in campo jazzistico, della musica celtica, della disco-music e quant’altro. Per prima cosa voglio semplicemente esaltare questo strumento, staccandolo finalmente da quella tendenza che l’ha voluto relegare all’atmosfera sinistra, tipica negli anni passati, della malavita locale siciliana (anche per l’accostamento fatto nell’ambito di alcuni film molto noti), e questa fama ha portato a svilire il vero valore culturale dello strumento. Così per dare corpo ai miei studi ed esperimenti nasce questa raccolta, intitolata Marranzanumania comprensiva di brani di diverso genere che portano l’ascoltatore in mondi musicali diversificati di grande fascino sonoro».
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).

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