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Fotografare emozioni in tempo di crisi

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2020 @ 00:29 In Cultura,Società | No Comments

dialoghi oltre il virus

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Endotico (ph. Licia Taverna)

di Stefano Montes

Sono nei paraggi dell’ospedale. Sono solo. Un mio parente è in attesa di essere ricoverato. Si trova al pronto soccorso al momento. Non è niente di grave. Non è niente. Voglio sperarlo. Me lo auguro. Ma i medici preferiscono tenerlo sotto controllo per precauzione. Si prospetta un’appendicite. Si prospetta una appendicite che potrebbe essere però curata con antibiotici adatti. E tutto si risolverebbe nel migliore dei modi. Io ho accompagnato, in auto, lui e l’altro parente che si prenderà cura di lui durante la degenza. Non dico chi sono i miei parenti, non importa. Attendo di avere notizie. La cosa va per le lunghe. Sono un po’ in ansia mentre il tempo passa con lentezza, a volte in modo snervante a volte no. Attesa e variazioni emotive sono un tutt’uno in questi casi: più che dall’agire in sé, il soggetto è preso, nel giro di poco tempo, dal vortice delle alterazioni di stato d’animo, dal susseguirsi di forme di apprensioni e ragionamenti strettamente intrecciati: per me, in attesa, è così.

L’attendere, come sottolinea Greimas, ha una funzione più vasta di quel che si possa comunemente pensare: è solitamente quello stato d’animo d’ordine sintattico che anticipa, potenzialmente, nel caso studiato dal semiologo, la frustrazione e conduce verso lo scontento e la collera, con conseguente possibilità di perdono o vendetta (Greimas 1985). L’attesa, ma anche la collera di cui parla Greimas nello stesso volume, per essere meglio comprese devono – anche – essere viste in sequenza, come un’organizzazione di stati d’animo collegati tra loro da una vera e propria sintassi configurante culture, organizzazioni sociali e persino specificazioni individuali. A proposito di collera, come suggerimento per un’esplorazione in ambito occidentale della questione, Bodei scrive che si dovrebbe tenere un vero e proprio diario in cui si appuntano, di volta in volta, azioni e reazioni: «Se si potesse tracciare una storia documentata (magari attraverso un diario) delle manifestazioni d’ira di una persona, si sarebbe in grado di ricostruire alcuni tratti fondamentali della società in cui si vive» (Bodei 2010: 18). Questo suggerimento di Bodei, naturalmente, potrebbe valere per qualsiasi emozione e stato d’animo. Più in generale, approfondire le diverse configurazioni sintagmatiche e paradigmatiche dell’attendere e di altri stati d’animo – non soltanto la collera o l’attesa, ma anche il disagio o l’agitazione nel mio caso particolare – può essere utile per meglio studiare le relazioni che ci legano alle diverse situazioni esistenziali e alle interazioni con noi stessi e con gli altri individui.

Come già scrivevano Lutz e Abu-Lughod qualche tempo fa, in un bel volume sulle emozioni prodotto in ambito antropologico, si tratta di spostare l’accento teorico considerando le emozioni non tanto stati d’animo interiori, in qualche modo insondabili dall’esterno, quanto aspetti integrati della vita sociale manifestati discorsivamente: «emotion and discourse should not be treated as separate variables, the one pertaining to the private world of individual consciousness and the other to the public social world» (Lutz, Abu-Lughod 1990: 11). A mio parere, in sintonia con quanto dicono Bodei e gli etnopsicologi, si deve pure spostare l’accento dalle analisi delle emozioni in ambito esotizzante – le emozioni di culture lontane – a quelle delle società occidentali mantenendo lo stesso presupposto antropologico secondo cui discorso ed emozioni, azioni e reazioni, sono strettamente associati. Si tratterebbe, insomma, di fare un’etnopsicologia delle nostre società, eventualmente legata all’ordinario e al quotidiano, connessa a ciò che Perec definiva l’endotico (Perec 1973). Inoltre, porre l’accento sulle organizzazioni discorsive delle emozioni nelle società occidentali è proficuo, di ritorno, per una più utile comparazione di ‘noi’ e degli ‘altri’, dei nostri ritagli culturali e dei loro. Il confronto tra le etnopsicologie di culture lontane e quelle occidentali può essere fruttuoso per molti e diversi aspetti, più direttamente connessi al conoscere e alle sue strategie:

«Le versioni dell’emozione che gli etnopsicologi aggiungono alle nostre non soltanto possono riattivare quelle che le nostre pratiche scientifiche trascuravano o articolavano con più difficoltà, ma inducono nuove esigenze in coloro che le praticano, e impongono nuove modalità di interrogare e di tradurre le versioni: impegnano le pratiche a definire in un altro modo cosa possano essere le nostre versioni della ‘conoscenza’ e le nostre versioni della conoscenza della passione» (Despret 2002: 31).
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Reflexvive (ph. Licia Taverna)

Io penso e ripenso alle emozioni, al loro intersecarsi in questo momento di tensione per me; richiamo alla mente il potenziale valore dell’auto-etnografia per una riflessione più approfondita sulla questione: se non altro, se dovessi fallire nel raccontare un frammento di me stesso, della mia vita, so bene che il «reflexive I of the ethnographer subverts the idea of the observer as impersonal machine» (Okely 1992: 24) e, così facendo, aiuta a inquadrare meglio ciò che si prova interiormente e il modo in cui si interagisce con gli altri e con il mondo in momenti di malessere. La situazione si presterebbe. Io me ne potrei addirittura servire non soltanto per fini scientifici, ma anche come valvola di scarico dell’agitazione che percepisco in me, con alti e bassi, nello scorrere del tempo. L’osservazione-partecipante e la scrittura possono avere una funzione catartica. Sono d’altronde consapevole che questa mia attesa configura un doppio transito: il responso che dovrebbe arrivare a breve sulla condizione del mio parente ricoverato e la situazione più generale in cui versiamo tutti quanti, da tempo, a causa del virus. So pure che alcuni miei atti, proprio per questo aspetto relativo alla duplice tensione, hanno il valore rituale di scongiurare il peggio, potenzialmente di riaggregarmi alla normalità. L’intrecciarsi di emozioni e ragionamenti, in questo momento cruciale, non andrebbe vista in sé – in quanto dimensione autonoma dell’essere, del mio modo di essere ipoteticamente cristallizzato nel tempo con una propria identità – ma, soprattutto, come strategia posta in atto al fine di produrre effetti sullo stato fisico e mentale, oltre che sociale. Non sono scoraggiato, soltanto consapevole. Non temo per la mia identità: qualsiasi identità è in divenire. In ogni caso, persino nei momenti di transito imprevisto, si «spalancano talvolta nuovi modi di comprendere il nostro essere nel mondo» (Jackson 2009: XI-XII).

Io attendo inizialmente fuori, in auto, lasciando correre i pensieri in libertà; poi, mi piazzo su un muretto basso, in prossimità della strada, dove mi metto a prendere appunti tanto per ingannare il tempo e a guardare le rare persone che passano; infine, decido di andare a fare qualche foto nei paraggi per tenere a bada l’agitazione. Non ci sono molte persone in giro, l’epidemia ha ancora il suo corso pieno e molti preferiscono stare a casa, senza mescolarsi gli uni con gli altri. Tenere la distanza è il consiglio. Stare lontani è opportuno. Mentre passeggio, mi torna continuamente in mente la severa – e giusta – procedura di ammissione al pronto soccorso di poc’anzi. Due infermieri hanno controllato, all’esterno, che non avessimo la febbre; poi, ci hanno fatto qualche domanda per capire se eravamo venuti in contatto con persone infette. Alla fine, ci hanno comunicato che soltanto una persona avrebbe potuto accompagnare il degente dentro, in pronto soccorso. Dei due parenti, io sono quello che ha preferito attendere fuori. Ma non so cosa fare. Non so come ingannare il tempo. Sono indeciso. Sono agitato. Ho portato con me un libro, come al solito, come faccio sempre quando si prevede una lunga attesa. Il libro lo prendo, lo guardo e non lo apro nemmeno. La copertina è invitante e l’argomento, effettivamente, è uno dei miei preferiti. Guardo ancora una volta la copertina e decido definitivamente di non mettermi a leggere, di dedicarmi ad altro. Decido di rilassarmi e di lasciare scorrere il pensiero in modalità più fluida, in libertà, quasi caoticamente. Mi calma. Mi fa sentire meno responsabile rispetto alle situazioni che vivo. Se il pensiero ha una sua autonomia, allora posso pure dire a me stesso – ribadirlo – che non tutto dipende dalle mie azioni. Prendo maggiore consapevolezza del fatto che sono un soggetto debole: non sono un centro di decisioni e iniziative autonome. Dipendo dagli altri. Dipendo da eventi esterni al mio volere. Dipendo anche dal manifestarsi di coincidenze possibili da me non pianificate.

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Coincidenze possibili (ph. Licia Taverna)

Il flusso di pensieri mi attraversa intanto, adesso. Mi distende. Allenta le tensioni. Poi, improvvisamente, forse per il cambio d’umore, arrivo alla decisione di volere andare in giro a fare foto. L’intenzione è di fare qualche foto che testimoni del momento che sto vivendo, che tutti stiamo vivendo da qualche tempo: la scoraggiante diffusione dell’epidemia dovuta al coronavirus. Che tipo di foto rappresenta meglio questo periodo? Come rappresentare la crisi? Qualsiasi crisi si presenta con dei forti tratti di discontinuità temporale e forse pure spaziale. Il problema, a mio parere, è coglierne la specificità non soltanto la schematicità: gli umori, le tensioni, i capovolgimenti emotivi, le difficoltà di interazioni interpersonali, la spinta alla solidarietà e l’impulso latente alla chiusura sociale. Mi consola il fatto che ogni tipo di linguaggio, inevitabilmente, è una forma di traduzione imperfetta della realtà. Ciò mi spinge a osare, a tentare di enunciare e rappresentare attraverso un testo scritto e alcune immagini ciò che sto vivendo. Nei giorni scorsi, ho scattato diverse foto la notte. È più semplice fotografare la rarefazione del vivere, la notte, se non altro perché colpisce subito l’assenza di persone e veicoli. È straniante fotografare la città vuota, senza passanti, bici o auto. Sembra di vivere in un altro mondo, in un’altra epoca. Di tanto in tanto, si vedono alcuni motorini sgusciare a tutta velocità: sono quelli che si occupano delle consegne, i cosiddetti riders. Oppure, più spesso, nel silenzio assordante della notte, si sente una voce bassa che risuona in lungo e largo per la città, a distanza. Sono coloro i quali portano a passeggio i cani e ne approfittano per farsi una tranquilla chiacchierata con qualche amico. Come li invidio! Io posso uscire soltanto se sono giustificato: per comprare del pane o per andare a fare la spesa. Non posso nemmeno fare due passi con mio figlio di dieci anni che avrebbe tanta voglia di fare un giro in bici. Li guardo con stizza quindi. Ma c’è altro che mi attira in loro. Di solito, in tempi normali, il loro chiacchierare in pubblico è coperto dai suoni vari delle auto e dal chiasso delle persone. Tant’è che non li noto nemmeno! In questo caso, invece, si sente il rimbombo quasi sibilante delle loro voci di strada in strada.

Cani e padroni hanno invaso i marciapiedi solitari. I riders, da parte loro, irrompono a gran velocità per le strade. Strano? D’altronde, non mi era mai successo di vivere una situazione del genere, così surreale. Sembra di essere in una città in cui vige il coprifuoco. Da un momento all’altro mi aspetto di vedere, come in un film, una banda di guerriglieri venire fuori da un angolo di strada e cominciare a seminare il terrore con le armi in pugno. Oppure, se vedo qualche auto della polizia, penso che stiano per fermarsi e arrestarmi perché ho infranto il coprifuoco. In effetti, non dovrei temere perché ho sempre qualche buona giustificazione per uscire, anche di notte. Ma sono al limite della legalità. E quelle di cui parlo, in fondo, sono soltanto le suggestioni che arrivano da tutti quei film di guerra che ho visto in passato. Si vive anche attraverso la finzione letteraria e cinematografica: di rimando, riesumandola nel proprio percorso esistenziale, sovente involontariamente. La cosa che mi sembra più strana è che la notte, per strada, si sente qualcuno chiacchierare come se fosse a casa sua, in privato. Basta una finestra aperta, persino ai piani alti, perché – visto il silenzio circostante – il suono della voce si proietti all’esterno della casa, verso la città. Così, sembra quasi che la differenza tra lo spazio interno della casa e quello esterno della strada si affievolisca e si annulli. Di giorno, sempre in questo strano silenzio imbarazzante, tuttavia meno ovattato, si sente persino la musica fuoriuscire da qualche casa dei piani bassi. Qualcuno si affaccia alla finestra o passeggia sul balcone, poi si mette a fumare con la musica in sottofondo. Ogni tanto vedo pure qualcuno, al balcone, impegnato in piena e piacevole conversazione con il suo vicino di balcone. Si fanno grandi chiacchierate, senza fretta di concludere. Si raccontano tante storie. Non mi era mai successo prima. Non mi era mai successo di vederlo.

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Per strada (ph. Licia Taverna)

Il balcone è diventato un luogo della socialità. Chi lo avrebbe mai detto! Pensare a tutto questo mi fa sentire ancora più strano, per di più mentre sto in attesa di un responso che dovrebbe arrivare da un momento all’altro dall’ospedale. Potrebbero decidere di operarlo, il mio parente: un’operazione di appendicite non è certo un grosso problema. Mi preoccupa, però, la tensione generale che avverto in questo periodo di crisi sanitaria e il fatto che gli ospedali non sono tra i posti più sicuri al momento. Direi di no! Il contagio potrebbe diffondersi a loro insaputa, nonostante le precauzioni prese dai medici. Prima che iniziasse l’epidemia, avevo acquistato un libro che non aveva niente a che vedere con le mie ricerche. Non so perché l’ho preso. Mi attirava forse il fatto che si parla comunque di cura. Si tratta del diario di un medico che racconta le sue esperienze di vita in ospedale. Una delle cose più interessanti che dice riguarda proprio il contagio negli ospedali e la diffusione più rapida che vi potrebbe avere luogo se non si prendessero le dovute e costanti precauzioni. Non sapevo, tra l’altro, che in ospedale – almeno nell’ospedale in cui lavora l’autore – ci sono delle figure preposte unicamente a questo lavoro: quello di tenere sotto controllo la diffusione di ogni tipo di contagio possibile nei vari reparti. Le due specialiste del suo ospedale in passato

«hanno dovuto vedersela con influenze epidemiche, malattia del legionario, meningite batterica mortale e, pochi mesi fa, con un caso che, stando ai risultati della biopsia cerebrale del paziente, avrebbe potuto essere morbo di Creutzfeld-Jakob, un incubo, non solo perché è incurabile e mortale, ma anche perché l’agente infettivo che lo accompagna, noto come prione, non può essere eliminato con le consuete procedure di sterilizzazione ad alta temperatura» (Gawande 2008: 15).

Tornare con la mente a questo libro non mi rende tranquillo. Fotografare invece mi rilassa: lo penso pure come un modo per fermare il tempo attraverso gli scatti dei luoghi e delle persone. Fermare il tempo mi aiuta inoltre a smussare l’alternarsi talvolta vertiginoso di stati d’animo mutevoli, striscianti. Scatto tante foto: foto che vorrebbero creare un collegamento tra spazi ed emozioni, tra il vissuto e i frammenti di pensiero. Una delle foto che mi piace di più ritrae una stretta di mano. Dico che mi piace, ma – obiettivamente – non è un granché, la foto, e per molte ragioni. Sembra quasi che l’immagine galleggi e non sappia orientarsi, non sappia cioè se andare da una parte o dall’altra. In bilico? Sembra dire: verso dove vado? Sembra rispondere da sé, in autonomia: non ne ho idea, non saprei. È un’immagine, ma lo dice a chiare lettere: prende la parola e appare allo stesso tempo come immagine incerta. Inoltre, a peggiorare le cose contribuisce il riflesso insistente sullo sfondo: non sa che posizione prendere, indeciso tra l’apparire o il lasciare campo pieno al manifesto che mostra la stretta di mano. I duellanti – la città e il manifesto, nonché i frammenti e la totalità – sembrano sfidarsi senza soluzione certa, e a nessuno piace rimanere sulle spine: che si tratti dello spettatore vero e proprio o del fotografo che ha scattato (il quale, a sua volta, diventa pure lui inevitabilmente spettatore della sua foto in seguito). E non è finita qui, per quanto riguarda il valore dell’immagine. Non si capisce bene, infatti, se la foto è una sorta di selfie fallito oppure, al contrario, se il fotografo si nasconde deliberatamente per lasciare spazio alla sovrapposizione oscillante di città e manifesto. Nascondimento deliberato o fallimento non intenzionale? Sono certamente io il fotografo e lo confermo apertamente; tuttavia, una volta scattata la foto, la realtà ripresa diviene oggetto testualizzato – osservato con lo sguardo da lontano, dall’esterno – e le cose cambiano, assumono una dimensione generalizzata, più sganciata dall’autore che diviene anche lui potenziale brusio indifferenziato da trasformare in senso.

Qual è, dunque, a conti fatti, il posto del fotografo in un’immagine a carattere potenzialmente oggettivante? Non è che ci sia una regola generale – suppongo – ma la presenza del ‘fotografo che si riflette e riflette’ dovrebbe essere discreta, non esagerata, attutita. Credo che sia così. Così vanno le cose. Così vorrei che fosse. Invece, io non faccio altro che riprendermi e trasformarmi in immagine, qui e altrove, in vari contesti, proprio per giocare sconsideratamente – e me ne compiaccio pure – con il senso di disgregazione fornito dall’essere in situazione di diluizione di se stesso: in una parola, mi lascio andare al riflesso in immagine che rimanda, a sua volta, al mondo nella sua forma geometrica e vissuta. Diciamo che lo considero, questo, un gioco linguistico sulla varietà di interrelazioni possibili tra ego e mondo, cioè una sorta di esercizio di etnopragmatica da riproporre in forme infinite non tanto per fini ludici ma, soprattutto, per approfondire la conoscenza del quotidiano e dell’ordinario a partire da un soggetto proiettato nell’irrinunciabile spazio circostante.

Il mio intento è di rimanere «alle cose del pensare quotidiano» (Wittgenstein 1967: 65), ben sapendo che la prossimità del quotidiano e la contiguità dell’accadere sono ingannevoli e sfuggenti come oggetti di studio. Diciamo che lo considero più specificamente, questo mio gioco sul limite, un modo per pensare diversamente, rispetto ai miei interessi soliti e competenze varie. Provo a chiarire la questione altrimenti, con l’esempio di un autore che amo. Butor, a un certo punto della sua vita, smette di fotografare e si giustifica nel modo seguente:

«Dovevo concentrarmi da un lato sul mio lavoro di professore o di conferenziere e, dall’altro, su quello di scrittore. Per continuare con la fotografia avrei dovuto consacrarle molta parte del mio tempo, come un pianista che, se non vuole rimanere per sempre un semplice dilettante, deve esercitarsi ogni giorno» (Butor 2005: 16).
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Confluenze di spazi (ph. Licia Taverna)

Diversamente da Butor, io non sono un professionista e non intendo diventarlo, non coltivo la foto come ambito su cui esercitare la mia capacità al fine di affinare il mio occhio sulla base di un progetto da seguire alla lettera. Programma o esecuzione, quindi, per dirla in breve, nel mio caso? Io non ho obiettivi da raggiungere né programmi da rispettare rigidamente. Avanzo per bricolage di pratiche diverse e di flussi di pensiero vari. Avanzo per residui e frammenti, più che per insiemi e progetti o programmi predefiniti. D’altronde, è noto: il bricoleur deve necessariamente «rivolgersi verso un insieme già costituito di utensili e di materiali, farne o rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo per inventariare, prima di sceglierne una, tutte le riposte che l’insieme può offrire al problema che gli viene posto» (Lévi-Strauss 1964: 31). Per questa e altre ragioni ancora, mi accontento di essere un dilettante dialogante: gioco a rimescolare i modi attraverso cui un testo – una foto, un frammento di video, etc. – può combinarsi con altri testi, traducendo forme di codificazione varia, meno lineare, più svincolata dall’idea di progetto costitutivo e originario del fare. Più che fotografare in sé, insomma, traduco e rimesto nel modo di osservare me stesso e gli altri, il pensiero calcolato e il pensare per flussi più sfuggenti: in ogni caso sottolineando il fatto che non «si tratta della supremazia dell’osservatore ma della supremazia dell’osservazione» (Lévi-Strauss 1988: 214). Più che rappresentare un oggetto, in sostanza, tendo a cogliere processi di soggettivazione e oggettivazione. Tendo a cogliere tutti quegli stati d’animo e processi mentali che non sono caratterizzati dal controllo e dal calcolo, in cui i pensieri sono vagabondi e in cui la coscienza è in una condizione di fluidità e passività e l’attenzione vola altrove, in altri termini non segue un corso deliberato dell’azione. È quello che, secondo un’altra terminologia, Piette definisce il modo minore, difficile da definire in sé, una volta per tutte, sicuramente un modo che fa posto «à l’individu débordant toujours le social et exerçant sa propre logique d’ajustement dans quelque situation» (Piette 1992: 104).

Certo, sarebbe più semplice dire che una foto rappresenta uno stato – fissato una volta per tutte – delle cose del mondo esterno al soggetto. Ma si tratta di una semplicità apparente. Il rapporto tra messinscena e verità rappresentata è sempre molto instabile, comunque sottoposto al vaglio della variabilità culturale e delle diverse forme di adesione che la rappresentazione riesce a suscitare. Una forma di realismo efficace esigerebbe, per essere davvero tale, l’annullamento del divario posto tra rappresentazione e elemento del mondo rappresentato. Io preferisco, in ogni caso, scegliere l’altra strada: mettere in tensione soggetti e oggetti, processi e risultati. In quest’epoca altamente mediatica, siamo sottoposti all’assalto della furia delle immagini. Noi «abbiamo perso la sovranità sulle immagini, e vogliamo recuperarla» (Fontcuberta 2018: 233). In che modo? Attraverso l’uso della foto intesa come traccia del modo in cui il soggetto entra in contatto con il mondo e si riflette in esso: «per afferrare i punti d’inserzione, i modi di funzionamento e le dipendenze del soggetto» stesso (Foucault 1971: 20).

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Supremazia dell’osservazione (ph. Licia Taverna)

Bene fin qui, mi sono chiarito io stesso le idee scrivendo, ho adoperato la scrittura come procedura di auto-scoperta. Rimane tuttavia un punto insoluto. Nell’immagine, mi si vede poco, mi si vede in modo confuso e incerto. Dove sono all’atto? Quali sono le mie intenzioni al momento? Ne ho forse? Caso o intenzione, insomma? Niente da fare, devo dire, lo ammetto: regna l’indeterminazione; regna il disordine; regna l’indisciplina. Il manifesto, tra l’altro, non è nemmeno allineato nel fotogramma. Confesso senza reticenza – dopo lo scatto, a cose fatte – di avere provato a ritagliare la foto e ruotare un po’ il manifesto, ma l’effetto veniva persino peggiorato dai miei perplessi tentativi. Non è un granché. La foto non è un granché. Il progetto iniziale non era quello di cercare di trasporre in immagine un principio di indeterminazione o indecisione. Nobile impresa, se ci fossi riuscito! Ma non è niente di tutto questo. Non avevo nemmeno un progetto iniziale. Lo sottolineo. Semmai, andavo in giro nei pressi dell’ospedale e fotografavo più che altro per passare il tempo. Ingannavo il tempo, nell’attesa. No, no, non è un granché, la foto non lo è! Ma io non sono un fotografo professionista e non m’importa. È successo tutto per caso e io gli do spazio: all’imprevisto. Non è forse vero che «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147)? Perché farsene un cruccio allora? Ciò che più mi sta a cuore, in effetti, al di là dell’effetto estetico pur sempre pregnante, è lasciare traccia per il futuro, anche quello più prossimo, dell’evento. Una volta trascorso il tempo, potrò spostarmi con calma nel passato per recuperarne una parte, grazie alla foto che ne propone una sua versione, una piccola traccia bloccata in fotogramma a imperitura memoria.

L’antropologia – mi chiedo – non è soprattutto, tra le tante altre cose, un modo per capire noi stessi e gli altri spostandosi nelle possibilità concesse dal tempo e dallo spazio? Quale che sia l’oggetto specifico preso di mira, l’antropologia è comunque un utile esperimento dell’immaginare individuale e collettivo che consente questo spostamento spazio-temporale da una parte e dell’altra del proprio specifico ancoraggio. Un esempio che mi è sempre caro, tra i tanti possibili, è quello di Myerhoff. Grazie alla sua ricerca in un centro per anziani, Myerhoff ha potuto immaginare se stessa, in futuro, con i problemi che comporta l’invecchiamento: il suo studio, come lei scrive, è stato «an opportunity to anticipate, rehearse, and contemplate my own future» (Myerhoff 1978: 19). Studiare gli anziani è stato, per l’antropologa, anche un modo per capire come poteva essere la sua vita in futuro. Come la capisco! Mia mamma è anziana, soffre di Alzheimer e, ogni volta che la vado a trovare, sono alle prese con un futuro possibile e allo stesso tempo con la nostalgia del passato, quando mia mamma stava bene e ricordava tutto. La foto e il documentario – e, in senso più ampio, ogni altro tipo di ricerca sul campo, non necessariamente d’ordine visuale – possono essere traccia sottolineata di un possibile spostamento nel tempo e nell’esperienza. Cos’è la traccia, in fondo, se non il risultato di un passaggio volatile che è divenuto elemento codificato sul quale si può tornare in seguito, eventualmente, per recuperare gran parte del resto dell’evento rimasto in memoria nel soggetto?

In quest’ordine di idee, uso la foto – anche – per tentare di arrestare i miei flussi di coscienza e sottoporli a esame mnestico in relazione a ciò che ho visto e fatto in ambito quotidiano, non necessariamente straordinario. Più che un vero e proprio blocco immagine, una foto è uno stato sintagmatico del processo del pensare e del fare: ritaglia un momento nella vita di un individuo il cui recupero, in seguito, attraverso la foto stessa, può avere gioco in chiave paradigmatica nel tessuto di relazioni che s’instaurano comunque nello scorrere del tempo. Così, scatto. Scatto quando posso. Lo faccio per diletto. Lo faccio, inoltre, perché mi pare che ci sia un’indifferenza teorica da parte degli studiosi a riguardo e voglio approfondire la questione. Lo nota e ribadisce Gell. Nella conclusione di The anthropology of time – magistrale analisi della dimensione temporale in relazione alle diverse teorie di antropologi e filosofi – Gell ricorda il fatto che non ne sappiamo molto dei flussi di coscienza (Gell 1992). I flussi di coscienza sono, per lo più, oggetto di considerazione più da parte degli scrittori di letteratura che dagli studiosi di scienze sociali. I flussi di coscienza, proprio perché flussi, tendono a essere sfuggenti, difficili da indagare con uno sguardo più scientifico. È, questa, ragione valida per arrendersi? «Dobbiamo certamente essere consapevoli che trascrivendo un’osservazione, quale che sia, non si conservano i fatti nella loro autenticità originaria: li si traduce in un altro linguaggio e si perde qualcosa per strada. Ma che dobbiamo concluderne? Che non si può tradurre né osservare?» (Lévi-Strauss 1988: 214).

In sostanza, attraverso la fotografia e i suoi usi possibili, intendo spostare l’accento da un punto di vista che prende in conto l’insieme generalizzato della cultura a un punto di vista che mette in primo piano l’individuo e i suoi flussi (di coscienza, temporali, spaziali, attoriali, etc.). In questo senso, la foto è – forse – una traccia più radicale rispetto allo scritto. È un tessuto strettamente intrecciato di evento (volatile) e memoria (in forza al soggetto e alla cultura). È un filo conduttore che conserva parte del vissuto, ma non obbliga a seguire un unico e solo percorso. È un passaggio non obbligato ma pur sempre un passaggio da oltrepassare. E io sono attirato da tutto ciò che mette in scena una soglia sulla quale stare e riflettere o, al contrario, su cui avventurarsi per andare oltre, al fine di compiere il rito comunque trasformativo di una condizione o stato d’animo individuale e persino collettivo. I confini, diversamente da ciò che si possa pensare, non sono soltanto materiali, ma anche – se non soprattutto – simbolici: sono spesso i confini simbolici (e ideologici) che degenerano e diventano frontiere materiali insuperabili, da rifiutare e combattere. Per non parlare del fatto che, in sé, la foto è anch’essa una sorta di confine: traccia una discontinuità spazio-temporale tra ciò che è stato e il momento presente. Non solo. La foto è pure, in parallelo, una possibile proiezione verso la dimensione futura resa sotto forma di appunto che ci vorrebbe espansione di un progetto da sviluppare. Ne ho coscienza. Seguo le sue tracce. Succede qualcosa e io me l’appunto. Vedo qualcosa che mi attira, prendo nota con uno scatto. Faccio una foto e sono sicuro di ricordarmelo in seguito. Sono preda di uno stato d’animo e cerco di risolverlo fotografando: fotografando, per quanto possibile, emozioni.

Intanto, mentre penso tutto questo, sono in giro nei pressi dell’ospedale. Un mio parente è stato ricoverato; è rimasto qualche giorno in ospedale. Ora è stato dimesso (ora che sistemo questo appunto e lo trasformo in scritto più coerente). Niente di grave quindi. Tutto risolto. Qualche giorno è trascorso. Nell’attesa del suo ricovero, però, sono stato nei dintorni dell’ospedale e mi sono messo a scattare le foto dei vari cartelli che i negozianti hanno appeso davanti i loro negozi per comunicare ai clienti le misure da prendere e osservare per l’emergenza. L’intento iniziale era quello di capire cosa avessero in comune e cosa li differenziasse: una sorta di analisi strutturale – prevedevo – dei modi di proporsi al cliente senza offenderlo, allo stesso tempo ricordandogli ciò che poteva fare. Pensavo fosse suggestivo capire meglio, sondandolo, questo incontro tra due codici diversi: quello della gentilezza e quello dell’ingiunzione. Da una parte, i negozianti devono mostrare gentilezza e persino simpatia, dall’altra non possono che ingiungere di fare qualcosa ai clienti i quali, a loro volta, non possono sottrarsi alle costrizioni cui adeguarsi.

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Una stretta di mano (ph. Stefano Montes)

Una stretta di mano non è altro che un modo per incominciare o finire una relazione – entrando in contatto con qualcuno fisicamente – nei migliori modi possibili, dando fiducia e ricevendola. Non è, quindi, soltanto un saluto, benché faccia ormai parte della routine: designa un accordo raggiunto o, a cose fatte, persino un ringraziamento. In passato, nella cultura greca classica e romana, voleva soprattutto dire che non si aveva intenzione di entrare nel combattimento e che si poteva dunque avviare un dialogo al suo posto: “invece di combattere, parliamone”. È un segno di pace che ha una funzione anche incoativa e terminativa: apre o chiude una discussione che ha avuto buon fine o che prospetta comunque un qualche risultato. È un segno complesso, insomma, dalle tante valenze, il cui semantismo andrebbe indagato di volta in volta, nei diversi contesti. Ciò che mi preme ribadire qui, nella tensione che ho patito in attesa davanti l’ospedale, è l’idea che la sua significazione essenziale ruota attorno all’idea di instaurazione e concessione di fiducia. Nel caso del manifesto ripreso nella foto ha anche un supplemento di senso. Dichiarare, tra il serio e il faceto, che le strette di mano saranno recuperate a data da destinarsi vuol pure sottolineare il fatto che la fiducia non viene meno, ma rimane una costante del rapporto, nonostante non possa essere suggellata fisicamente con il contatto diretto, nell’immediato. In sostanza, è come se volesse dirci: vi potete fidare, il rapporto non viene interrotto, soltanto rimandato il modo tipico – la stretta di mano – di suggellarlo.

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Mantenere traccia (ph. Licia Taverna)

In sostanza, per finire, cosa mi ha attirato nell’immagine? Si potrebbe dire, al fondo di tutto, che mi ha attirato il modo simpatico di porre la questione: di capovolgere il problema presentando una costrizione che si rivela invece essere un atto di fiducia. E in parte è così. Sono, soprattutto, rimasto vittima del fascino che deriva da questa commistione di codici diversi in parallelo con l’uso opportuno e pertinente della dimensione temporale. Ho scattato la foto senza molta convinzione e ho deciso di non eliminarla, riguardandola, principalmente perché instaura un contatto soprattutto con me, con quello stato d’animo d’incertezza che ha caratterizzato questo periodo di crisi. È come se il manifesto si rivolgesse direttamente a me per dirmi che, prima o dopo, sarebbe finita e avremmo ripreso a stringerci la mano. Ma c’è altro. Pur adeguandosi alla realtà ripresa, creando il riflesso nello specchio dell’auto, la foto oscilla e si presenta con un certo grado di instabilità. Il risultato era che avevo, in una sola immagine, l’incertezza del momento e la promessa di risoluzione della crisi, l’instabilità e l’esibizione della fiducia, la sospensione confusa del momento e la pacificatrice volontà di comunicazione sociale.

La mia domanda era ed è tuttora: come faremo senza poterci stringere la mano, senza nemmeno la possibilità di scambiarci una formula di saluto a distanza ravvicinata? Come potremo manifestare – quella che Jakobson definisce come – la funzione fatica che instaura o mantiene il contatto. Il manifesto mi dava una risposta certa, indubbia. Era come se dicesse: abbi un po’ di pazienza, è soltanto questione di tempo. Allo stesso tempo, il mio scatto metteva questa certezza a fianco di un significante instabile che non mi alienava il messaggio del manifesto, anzi me lo rendeva più accettabile. In tutto questo, devo dire che non ho citato Jakobson a caso. Non bisogna dimenticare che, per mettere a punto la funzione fatica, Jakobson fa espresso riferimento a Malinowski e al suo testo relativo al problema del significato (Jakobson 1966: 188). La lettura di Jakobson è però più leggera di quella di Malinowski, il quale, invece, gli attribuiva una funzione chiave e più ampia nell’ambito del rituale vero e proprio. Il rituale ruota, infatti, attorno alla forza relativa al contatto che i partecipanti riescono a instaurare e mantenere prima, durante e dopo lo stesso atto rituale. In definitiva, andando a ritroso, non è forse questo il messaggio meno evidente, più latente ma più efficace, che trasmettono allo stesso tempo il manifesto e la mia resa fotografica? I rituali non sono annullati, sono soltanto rimandati, nonostante l’incertezza che stiamo tuttora vivendo. In sintesi, la manifestazione di un’incertezza temporanea è smussata dalla fiducia nella pazienza e nel tempo rimandato.

In conclusione, in chiave più personale, devo anche sottolineare l’effetto mnestico – non meno importante – che ha avuto la foto della stretta di mano, inclusiva di quella strana oscillazione prodottasi nel riflesso dell’auto. Di fatto, fotografando e scrivendo sul mio vagare nei dintorni dell’ospedale – soprattutto sugli effetti di ritorno generati dalle mie emozioni e sensibilità – ho recuperato, ‘senza volerlo’, il ricordo di quello che dice Merleau-Ponty a proposito della stretta di mano e della riversibilità tra noi e gli altri, tra il nostro corpo e quello altrui. Merleau-Ponty dà un grande valore alla mano e alla stretta di mano. Perché? Con la mano, nella stretta di mano, non soltanto si tocca, ma si percepisce anche il tocco dell’altro. Nella stretta di mano si ha un caso perfetto di reciprocità, quella reciprocità che, più in generale, consente un effetto importante secondo Merleau-Ponty: cioè che «sentire il proprio corpo è anche sentire il suo aspetto per l’altro» (Merleau-Ponty 2014: 632). La sensibilità, in generale, per Merleau-Ponty, benché apparentemente legata al mondo privato dell’individuo, è fondamentalmente riversibilità del vedere e del toccare che si instaura tra l’unità del corpo individuale e il corpo degli altri. La mano è il caso maggiore di riversibilità tra noi e gli altri perché non soltanto essa ricade nell’ambito del visibile nostro e altrui, ma è anche toccante e toccata: «la stretta di mano è reversibile, io posso sentirmi toccato nella stessa misura e nello stesso tempo in cui mi sento toccante» (Merleau-Ponty 2014: 385).

In fondo, è quello che è successo a me attraverso lo sguardo fotografico che considero toccante e toccato: io sono stato toccato e, al contempo, ho toccato una sensibilità. Ecco, vorrei concludere così: con il valore che instaura la solidarietà anche attraverso la sensibilità apparentemente più privata. Ecco, è quello che, almeno in parte, credo che sia accaduto in tempo di crisi: ‘senza volerlo’, si potrebbe prospettare una maggiore apertura e sensibilità. Spero che sia così, spero che venga mantenuta nel tempo. Ecco, lo spero proprio. Per il resto, per gli aspetti teorici che ha comportato la mia deambulazione, il mio modo di fotografare e concepire le emozioni (in stretta associazione con azione e percezioni), è sufficiente rileggere l’articolo dall’inizio e fare attenzione all’evoluzione del (mio) sentire e pensare.

12-di-sbieco

Di sbieco (ph. Licia Taverna)

Un’ultima cosa voglio sottolineare prima di chiudere definitivamente: tornando a casa, ho mantenuto la mia promessa. Una promessa è un atto di linguaggio di tipo commissivo: impegna a portare a termine un’azione (Austin 1987: 115). Oltre che mettere in scena una programmazione a cui attenersi rigidamente, una promessa può, tuttavia, contenere anche un valore di efficacia quasi magica a cui – in alcuni momenti di particolare tensione – ci si affida. Io avevo promesso a me stesso che, se per il mio parente non ci fosse stata necessità dell’operazione, avrei eliminato tutte le foto. Il mio parente non è stato operato, io ho eliminato le foto. L’ho fatto, non potevo che mantenere la promessa. Le ho gettate tutte tranne quella relativa alla stretta di mano che è misteriosamente rimasta in due diverse schede di memoria. Ho quindi chiesto a Licia Taverna di leggere l’articolo e di scegliere alcune foto che accompagnassero il mio articolo. Scegliendole, abbiamo discusso i tratti pertinenti che potessero veicolare delle emozioni adeguate alla mia narrazione. Ne sono nate delle discussioni interessanti sul rapporto testo-immagine, ho preso degli appunti che sarò lieto di raccontare la prossima volta, in una sorta di continuazione di quella che è, per me, un modo di sbieco per affrontare la molteplicità delle correlazioni tra linguaggi ed emozioni, tra linguaggi e dimensione cognitiva e pragmatica, nonché tra le stesse interazioni interpersonali. Quando dico di sbieco non intendo dire a casaccio: faccio riferimento alla distinzione tra il modo di procedere in Occidente e in Cina secondo Jullien (Jullien 2016).

Solitamente, in Occidente, si procede con metodo, pianificando con rigore, concertando e programmando preliminarmente. In Cina, invece, prevale soprattutto un andamento di sbieco: «strada facendo, in uno sviluppo che costeggia e rasenta i contorni per insinuarvisi, per scorrervi all’interno, per farsi accettare in modo che questo intervento, alla lunga, non sia neanche più un intervento e venga tollerato senza sortire resistenze e contro-reazioni» (Jullien 2016: 75). Non è, lo sbieco, l’equivalente di una pratica o di un procedere artigianale; è, invece, un procedere che non stabilisce uno scopo preliminare con rigidità, uno scopo a cui si andrebbe incontro senza variare: al contrario, è uno scopo che si lascia andare alla situazione dalla quale trae ispirazione e alla quale dà disponibilità. Io credo di aver proceduto in questo modo, un po’ alla maniera cinese di concepire la questione. Io credo di aver proceduto concedendo spazio alla situazione, nel tentativo di esplicitare il mio stesso atto intellettuale ed emotivo: traducendo in altri termini, traducendo linguaggi fotografici ed emotivi, cognitivi e pragmatici. Traduzione? Forse, non ha tutti i torti Lotman quando scrive che «la stessa natura dell’atto intellettuale può essere descritta nei termini di una traduzione» (Lotman 1993: 16). Per molti aspetti, io ho tradotto dall’emozione al pensare, dallo scritto alla foto, dalla mia maniera di concepire una foto a quella di Licia, da una tensione (quella dell’ospedale) all’altra (quella ancora in corso riguardante l’epidemia). E viceversa. E sto ancora traducendo.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
 Riferimenti bibliografici
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Etnoantropologia all’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.

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