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Flyaway home. Il viaggio di ritorno dei Rasta

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2016 @ 00:37 In Migrazioni,Società | No Comments

Daniel Hartley & The Ardwuk Band in concerto (foto Giorgianni)

Daniel Hartley & The Ardwuk Band in concerto (foto Giorgianni)

di Eugenio Giorgianni

Quando iniziai a frequentare la comunità rastafariana di Manchester, decisi subito che avrei risparmiato quello spazio e quelle persone dall’antropologia. Il mio scrupolo era dovuto alla complessa triangolazione tra il fenomeno socio-culturale di origine Africano-Caraibica, la violenza epistemica dell’occhio antropo- logico, e la mia delicata posizione emotiva a contatto con uno dei grandi miti della mia adolescenza.

Volevo salvaguardare la comunità Rasta dallo sguardo indagatore dell’etnografia, dall’intromissione delle categorizzazioni accademiche, dalle ambiguità della rappresentazione testuale. E, per una volta, volevo salvaguardare me stesso dalla schizofrenia del vivere e annotare, dalle ansie della sfrenata curiosità etnografica che tante volte appare come poliziesca agli occhi degli osservati. Temevo che un collettivo così aperto e allo stesso tempo così diffidente verso l’esterno si sarebbe opposto a una ricerca condotta da un estraneo quale io ero, e che l’idea di essere oggetto – o soggetto, poco cambia – di indagine antropologica avrebbe urtato la sensibilità e i presupposti ideologici di molti membri del movimento Rastafari.

Non mi andava di essere categorizzato come un intruso impiccione, magari tollerato, ma inevitabilmente estraneo agli eventi e alle relazioni in corso. Cercavo altro: volevo vivere le mie esperienze tra i Rasta con l’intensità e l’intimità della mia esistenza personale, senza le contaminazioni di un progetto di ricerca. Sapevo che avrei sofferto un eventuale rifiuto, e cercavo di evitare le tensioni che avrebbero potuto compromettere la mia frequentazione del loro circuito. Volevo conoscerli, volevo stare con loro: era questa la cosa più importante per me.

Mi sono innamorato della musica Reggae sin dal primo ascolto, quando avevo tredici anni, una domenica mattina in cui mio fratello maggiore mise nello stereo un album di Bob Marley. Da allora, il Reggae è stato la colonna sonora indiscussa della mia adolescenza. Non capivo quasi niente dei testi delle canzoni: mi bastava sentire la ritmica in levare, cogliere qui e là un riferimento all’Africa o ai Rasta people, un’invocazione di equal rights and justice (‘parità di diritti e giustizia’), per entrare nell’universo sonoro della lotta contro l’oppressione, nell’espressione musicale di quello che mi appariva come un popolo senza frontiere che si batte fieramente contro le ingiustizie e celebra la libertà e l’amore universale.

Nella mia mitopoiesi giovanile, la musica si sovrapponeva completamente alla cultura Rastafari, la fede politico-religiosa dei discendenti degli schiavi africani deportati in Giamaica, che professano il ritorno all’Africa natia come liberazione dalle catene di Babylon – il corrotto potere occidentale che governa il mondo attraverso l’oppressione, che li ha ridotti in schiavitù come le tribù di Israele e che, come nella profezia biblica, sarà distrutto dalla giustizia divina.

La lotta dei Rasta mi risuonava attraverso le canzoni dei loro artisti, e ogni nota mi invitava alla ribellione contro quello che io e tanti miei coetanei chiamavamo ‘il sistema’: le istituzioni politiche e repressive, i poteri dell’economia capitalista, le convenzioni sociali, la Chiesa, tutti quei corpi sociali di potere e di controllo (alcuni visibili e concreti, come la scuola e la famiglia; altri invece lontani e astratti) che materializzavano il nostro disagio giovanile, e contro i quali misuravamo l’emergere delle nostre personalità. Il Reggae era molto più che musica. Era la mia utopia, e conteneva la distopia del nemico, aiutandomi a ricomporre il senso di alienazione della mia adolescenza medio borghese nell’Europa del terzo millennio.

Sono passati molti anni prima che incontrassi dei Rasta in carne e ossa, e nel frattempo la mia percezione delle cose e i miei gusti musicali erano molto cambiati. I miti dell’adolescenza erano stati erosi, decostruiti, relativizzati. Le contrapposizioni binarie erano state sovvertite, il fronte del bene e della giustizia mi appariva molto più confuso. Tuttavia, alcune canzoni, se ascoltate in particolari contingenze emotive, continuavano – e continuano – a farmi venire la pelle d’oca, e a toccare nervi non del tutto sopiti dagli umori della vita semi-adulta. Proprio la musica, ancora una volta, mi ha spinto al contatto con il variegato contesto della diaspora Africano-Caraibica in Inghilterra e del panafricanismo postcoloniale, mettendomi allo stesso tempo a confronto con tanti nodi irrisolti del mio percorso di crescita e della mia identità individuale.

Questo articolo ripercorre la mia esperienza tra i Rastafariani a Manchester (Regno Unito) tra ottobre 2013 e dicembre 2014. A produrre il mio ripensamento, e a convincermi a riportare la mia esperienza in forma di saggio, sono intervenuti due fattori determinanti: la volontà di celebrare la memoria di Lulu ‘Bantan Killah’ Leach, venuto a mancare lo scorso febbraio, il quale ha accompagnato ogni momento della mia presenza presso la comunità Rasta; e la consapevolezza che evitare di fare i conti con l’antropologia, in questo caso, significa essere insincero con me stesso e con le donne e gli uomini che generosamente mi hanno accolto nella loro dimensione esistenziale, trattandomi con la genuinità che contraddistingue il loro stile di vita.

L’incontro antropologico, sebbene ambiguo e iniquo, è implacabile nel mettere a nudo le contraddizioni del ricercatore, rivelandole attraverso l’umanità del dialogo con gli altri soggetti in campo. Sfuggire a questo banco di prova mi ha consentito di restare indulgente con i miei sogni, e di evitare il conflitto tra la nostalgia della mia intransigenza adolescenziale e il cinismo di me stesso quindici anni dopo. Raccontare l’umanità della gente che ho incontrato, in tutta l’affascinante contraddittorietà delle cose, è un modo di rendere giustizia al dialogo tra me e loro; in più, mio malgrado, è l’unico modo che conosco per esplorare le realtà che attraverso e che mi comprendono, e, sebbene mi fossi illuso del contrario, non sono affatto in grado di tracciare una linea di demarcazione tra vita e ricerca. Proprio per questo, il discontinuo procedere dell’esperienza che racconto in queste pagine può essere considerato etnografico, sebbene del tutto a-metodico: lo è stato l’occhio che ho porto alle cose del modo, insieme al pesante fardello di tensioni ermeneutiche e interrogativi riflessivi che mi porto dietro e che puntualmente srotolo nello spazio che percorro.

Chiedo scusa a chi legge: per i motivi di cui sopra, non ho annotato date e riferimenti precisi degli incontri e degli eventi. Le esperienze sono fluite senza ordine, aprendomi un ampio ventaglio di direzioni possibili tra le quali non ho saputo né voluto scegliere, lasciando che gli incontri fortuiti e il corso delle cose mi conducessero in un giro panoramico per la semiosfera rastafariana. Il presente contributo, oltre a cozzare contro i fastidiosi grumi irrisolti del mio ego, è dedicato alla più pressante e affascinante delle domande sorte da questa esperienza: l’essere-in-transito della cultura Rastafariana, la definizione del sé e l’esistenza quotidiana di un gruppo umano in strenua lotta contro gli ultimi cinquecento anni della propria storia collettiva. L’articolo è uno schizzo: le domande sono appena formulate, l’elaborazione del tema è del tutto eterogenea. Riporto le cose nella maniera in cui ho vissuto il loro accadere, ricordando che, come Jean Rouch (Feld 2003, 43-44), il primo motivo per cui faccio ricerca etnografica, e ne scrivo, è: per me stesso, per la mia necessità conoscitiva; in secondo luogo, per le persone che incontro nella ricerca, per restituire la loro voce in dialogo con la mia; e in terza istanza, per chi volesse prestare ascolto alle storie che mi sforzo di raccontare.

Ero arrivato a Manchester da poche settimane, non conoscevo quasi nessuno. Cercando su internet qualcosa da fare, mi imbattei nella pagina facebook della community ‘Manchester Reggae’, che per quella sera sponsorizzava una festa al Rasta HQ [1]. Cercai in rete qualche notizia sul posto: niente, nessun sito, nessun video. Strano a dirsi per un locale pubblico di una metropoli inglese, dove tantissime persone pianificano online il loro tempo libero. Riuscii a trovare soltanto l’indirizzo: civico 232 di Claremont Road, la via principale del quartiere Moss Side. Dato che distava pochi minuti in bicicletta da casa mia, decisi di andare a dare un’occhiata. Dopo un paio di pedalate, si scatenò un acquazzone improvviso che mi accompagnò per tutto il tragitto fino all’HQ, un grande edificio in mattoni rossi che interrompe la linea continua di councile states (‘case popolari’) a due piani lungo i due lati della strada. Riconobbi che era il posto giusto senza bisogno di controllare il numero civico: sull’ingresso sventolavano, una accanto all’altra, la Union Jack britannica e la bandiera dell’impero etiope [2]. L’HQ è una chiesa anglicana dismessa: nella navata, disseminata di grandi altoparlanti, i Rasta celebrano le feste e le funzioni; l’altare funge anche da palco per i concerti; i locali dell’ex sacrestia sono adibiti a mensa, cucina e bar.

interno e bar (foto Giorgianni)

Interno e bar (foto Giorgianni)

Entrai bagnato fradicio, e mi diressi subito in bagno per darmi una sistemata. Lì, in piedi di fronte alla fila degli orinatoi, c’era un uomo anziano con un grande cappello rossoverdeoro gonfio di dreadlocks, la barba bianca raccolta in un unico dread sotto il mento. L’uomo si stava guardando allo specchio, con il pugno destro alzato verso il cielo, proclamando a gran voce con un forte accento afrogiamaicano: «Vengo dall’Est, dall’Est! [3] Etiopia, Africa! Sono Africano! JahRastafarI!». Stravolto dalla pioggia, mi piazzai anch’io di fronte allo specchio per asciugarmi. Accortosi della mia presenza, l’uomo mi rivolse un mezzo sorriso con qualche dente d’argento: «Non è che vuoi un po’ di ganja buona?» «No grazie, sono a posto». La sua espressione si indurì, mentre mi scrutava con sospetto: «Ma che hai? Stai male? Non è che sei venuto qui a fare stronzate con cocaina? Qui non lo vogliamo questo schifo!». Risposi di no, e lui mi lasciò perdere, mentre finivo di asciugarmi.

Ritengo di dover aggiungere alcune precisazioni alla scena descritta, che altrimenti rischia di confermare acriticamente tutti i più beceri stereotipi sulla cultura Rasta. Innanzi tutto, la localizzazione: l’HQ si trova nel cuore di Moss Side, uno dei quartieri più malfamati della città, prevalentemente abitato da migranti e da Black British. Fino ai primi anni 2000 sarebbe stato impensabile che uno studente europeo come me si recasse di notte e da solo a Moss Side per un motivo che non fosse l’acquisto di sostanze stupefacenti. Sebbene oggi la composizione sociale del quartiere stia rapidamente cambiando, scene simili a quella del bagno dell’HQ mi sono capitate in altre occasioni a Moss Side con adulti e anziani di classe lavoratrice e di origine caraibica, alcuni dei quali hanno vissuto per gran parte della loro vita in uno stato di forte ghettizzazione, in cui le interazioni tra bianchi e neri erano ridotte e segnate dallo squilibrio sociale.

Poi, una precisazione sulla ganja: l’uso della marijuana a scopo meditativo fa parte delle pratiche Rasta, sebbene nel caso della comunità di Manchester non costituisca affatto un precetto religioso. Probabilmente, molti dei frequentatori dell’HQ fanno uso di cannabis, ma l’unico a offrirmi di comprare della ganja è stato l’uomo che ho incontrato nel bagno. Nel corso dei mesi successivi, il suo atteggiamento nei miei confronti non è mai cambiato: non lo convincevo, temeva fossi un poliziotto in borghese o un agente provocatore. Eppure, sebbene inquisitorio, non è mai stato aggressivo né mi ha intimato di andarmene.

Torniamo alla sera del primo incontro. Uscito dal bagno, incontrai il mio amico Edo, che mi aveva raggiunto all’HQ. Andammo nella sala-bar, dove tra stampe di paesaggi etiopi e poster di piante terapeutiche e leoni africani, si mangiano piatti tipici caraibici quali rice and peas [4], curry goat [5], jerkchicken [6], ackee and saltfish [7], oltre al classico pollo fritto con patatine, preparati nella cucina dell’HQ. L’atmosfera era rilassata, la gente consumava la cena conversando, mentre alcuni bambini giocavano e si rincorrevano tra i tavoli. Ci sedemmo a mangiare anche noi, e dopo un po’ venimmo raggiunti da un gruppo di donne sulla quarantina, che ci chiesero permesso e si sedettero accanto a noi. La prima domanda che ci rivolsero fu in che mese fossimo nati. «Febbraio», risposi. «Allora sei della tribù di Joseph. Il tuo colore è bianco. La tua parte del corpo sono i polpacci. La tua capacità (‘faculty’) è l’immaginazione». Lo stesso con Edo. Cercavo di cogliere il senso di quel discorso, senza capirne nulla. La mia interlocutrice se ne accorse: «Sai che questo posto è la casa delle Twelve Tribes of Israel? Per noi Twelve Tribes, noi tutti esseri umani facciamo parte delle dodici tribù di Israele. Ogni mese è una tribù; ogni tribù ha un colore; ogni colore corrisponde a una delle dodici parti del corpo; ogni parte del corpo, a una capacità. Tutti insieme, siamo unità: One love, one people, Jah RastafarI».«Selassie I!» gridò in risposta un uomo seduto all’altro capo del tavolo. «Yes I, brother» gli fece lei, e riprese il discorso: «Tra di noi Rasta, ci sono vari gruppi: ci sono i Nyabinghi, i Bobo Ashanti, e ci siamo noi. In fondo, non importa tanto: tra di noi, ognuno fa quello che vuole, non conta il posto dove ci si riunisce. Qui a Manchester, gli altri gruppi non hanno sede, e allora vengono tutti qui; c’è anche chi non fa parte di nessun gruppo, e chi non è nemmeno Rasta ma viene qui lo stesso. Qua dentro, chiunque è il benvenuto: non conta religione né colore della pelle, bisogna solo rispettare gli altri. Siate i benvenuti, fratelli: spero che passerete una bella serata». Le donne ci salutarono per andare incontro ad alcuni amici.

Io e Edo ci spostammo nella sala centrale, che iniziava a riempirsi. Il programma della serata era molto vario: un gruppo Soul di cantanti bambine, una suonatrice inglese di kora mandinka, alcuni gruppi e cantanti Reggae della comunità tra cui Trevor Roots, celebrità del Reggae locale, che si esibiva in un tributo e Bob Marley, e per finire un giovane artista appena tornato dall’Etiopia. Il palco è sovrastato da un grande dipinto che raffigura Hailé Selassié in abiti ufficiali, accanto a quadri del profeta Gad, il fondatore delle Twelve Tribes of Israel, e raffigurazioni dell’Africa. Dopo i concerti, un dj ci intrattenne per un paio d’ore con i classici del Rasta Reggae.

Rasta DJ (foto Giorgianni)

Rasta DJ (foto Giorgianni)

Tornammo a casa verso le 4 del mattino. Ero sorpreso dall’approccio alla religione per come mi era stato illustrato: il problema della professione di fede non era neanche contemplato. Si appartiene alle tribù per nascita, anche senza saperlo; sono le azioni e le scelte che plasmano l’essere Rasta, non l’adesione a un sistema cultuale stabile. I limiti tra religione, filosofia e stile di vita mi si confondevano; e su tutto, mi risuonavano i costanti riferimenti all’Africa, da parte di gente nata e vissuta in tutt’altre coordinate geografiche. Per inquadrare i fenomeni descritti in una cornice più ampia, e per ridurli a un senso più addomesticabile, cercherò di porre l’emergenza della cultura Rasta su una prospettiva storica [8].

La dottrina Rastafari nasce in Giamaica agli inizi degli anni ’30 del XX secolo, e si inscrive in un lungo flusso storico di movimenti e formazioni sociali nati tra gli abitanti di origine africana, che costituiscono la grande maggioranza della popolazione dell’isola già dalla fine del Seicento. Sin dagli inizi della colonizzazione britannica, alla metà del XVII secolo, l’isola è stata teatro di continue e indomite ribellioni da parte degli schiavi provenienti dall’Africa Occidentale e Centrale, alle quali seguirono senza soluzione di continuità, dopo l’abolizione della schiavitù nel 1834, movimenti di occupazione delle terre, rivendicazioni sindacali e proteste popolari dei neri giamaicani. L’elemento africano è fortemente presente nella cultura popolare, a partire dai numerosi prestiti linguistici dalle parlate niger-kordofaniche presenti nel patois locale, fino ai rituali Kumina e Obeah – sistemi di credenze Bantu portati dagli schiavi provenienti dalla regione del Congo – e alle comunità dei Maroons, gli schiavi fuggiaschi che hanno resistito per secoli agli attacchi del regime coloniale; QueenNanny, storica leader guerrigliera maroon, è oggi celebrata come eroina nazionale.

Il riferimento all’Africa, oltre che come orgogliosa celebrazione culturale, è stato usato in Giamaica come vessillo politico delle rivendicazioni delle masse nere diseredate e discriminate dal sistema coloniale: agli inizi del XX secolo Marcus Mosiah Garvey, sindacalista ed editore panafricanista giamaicano, fondò la UNIA-ACL (Universal Negro Improvement Association and African Communities League), che in breve tempo raccolse milioni di sostenitori tra gli afroamericani delle West Indies e degli Stati Uniti sotto la bandiera del nazionalismo nero universale e del ritorno in Africa dei discendenti degli schiavi. «Guardate all’Africa» soleva dire Garvey nei suoi tumultuosi comizi: «quando un re nero sarà incoronato il giorno della redenzione sarà vicino!». E così fu che, quando il 2 novembre 1930 Tafari Makonnen Woldemicael fu incoronato Hailé Selassié I re d’Etiopia, l’unico Stato africano ancora libero dal colonialismo bianco, alcuni predicatori di strada giamaicani iniziarono a proclamare che l’imperatore etiopico era la reincarnazione di Cristo, e che il tempo delle catene era finito.

Rastafari (o semplicemente Rasta) deriva da Tafari, il nome proprio del re etiope, preceduto dal titolo aristocratico amarico ras: un re nero, ricevuto con tutti gli onori dai potenti del mondo, a capo di uno stato africano libero. L’Etiopia materializzò la terra promessa, the Holy Mount of Zion delle Sacre Scritture, l’unica patria possibile per il popolo degli schiavi, a cui la violenza degli schiavisti bianchi e del colonialismo inglese avevano strappato la memoria delle proprie origini.

È probabile che Garvey non intendesse riferirsi a Selassié, e di certo non abbracciò mai la fede rastafariana. Ciononostante, il neonato movimento che si diffondeva tra le fasce più povere della popolazione giamaicana lo identificò come profeta, trasformando la campagna politica e culturale del garveysmo in fede religiosa e promessa millenaristica. I predicatori vennero imprigionati in quanto sediziosi, i loro testi di riferimento furono banditi, le prime comunità Rasta subirono violente repressioni. I rastafariani si insediarono ai margini della società giamaicana, guardati con sospetto dall’opinione comune e dal potere coloniale; tuttavia, il culto a Selassié Jah Rastafari continuava a diffondersi nei Caraibi, nonostante l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe fasciste, a cui vari gruppi politici afroamericani – tra questi i Rasta – reagirono manifestando sostegno e inviando aiuti ai patrioti africani.

All’indomani della fine della Seconda guerra mondiale, Hailé Selassié, reinsediatosi al trono di Addis Abeba, concesse 500 acri di terra vicino alle città di Shashamane per gli africani della diaspora che volessero ritornare nella madrepatria, come ringraziamento per l’aiuto ricevuto durante la guerra contro l’Italia. Ciò accrebbe l’etiopismo dei Rasta caraibici, che si sentivano sempre più vicini ai movimenti di liberazione africani: l’abitudine di farsi crescere i capelli in lunghe trecce chiamate dreadlocks deriva dalle pratiche di varie popolazioni africane, tra le quali i Kikuyu del Kenya, che diedero vita alla ribellione Mau Mau contro il governo coloniale britannico negli anni ’50 [9]. Una delle prime congregazioni Rasta prende il nome dalla resistenza anticoloniale Nyabinghi in Uganda, a cui i Rasta si ispirano nei loro rituali di evocazione delle forze della natura per sconfiggere le forze dell’oppressione.

 Workshop all'HQ (foto Giorgianni)

Workshop all’HQ (foto Giorgianni)

Nel 1966, poco dopo l’indipendenza del Paese, Selassié si recò in visita ufficiale in Giamaica. Il re etiope aveva mantenuto sempre un atteggiamento ambiguo nei confronti del credo Rasta: professando la fede cristiana ortodossa etiope quale religione di Stato, avrebbe dovuto considerare blasfemo che ci si rivolgesse a lui come reincarnazione di Cristo; eppure non sconfessò mai esplicitamente gli onori tributatigli dagli afrocaraibici, e la sua visita a Kingston non fece che espandere l’influenza del movimento. La raggiunta indipendenza della Giamaica, sebbene non avesse modificato la condizione sociale del proletariato nero, aveva aperto le porte all’emigrazione: migliaia di lavoratori giamaicani portarono nel Nord America e in Inghilterra i loro usi e costumi, tra i quali il credo Rasta. Contemporaneamente, la musica Reggae, assurta a genere di fama mondiale, diffondeva il messaggio ai quattro angoli del globo.

Frequentando l’HQ, ho avuto l’impressione che gran parte della gente avesse piena coscienza del proprio prestigio globale in quanto Rastafari: molti ostentavano con orgoglio i simboli e i colori del proprio credo, le effigi delle nazioni caraibiche di provenienza, la propria parlata natìa. Tuttavia, alcuni elementi di tale cultura sanciscono una scissione radicale dalla società circostante, un rifiuto totale del compromesso, un costante sospetto nei confronti della storia e degli ordinamenti economico e politico. A cominciare dalla lingua: all’HQ, ci si saluta con ‘greetings’, o ‘yes I’, mentre si evita l’uso di ‘hello’, parola che contiene hell, ‘inferno’ e low (pronuncia caraibica: /loʊ/) ‘basso’. È la regola fondamentale dell’Iyaric, o Dread-talk: la lingua dei Rasta, che usa vocaboli che elevano (uplift) la gente, evitando le malignità disseminate nell’inglese, la lingua di Babylon. E così, politics diventa politricks, gli inganni dei politici: i Rasta si distanziano da ogni movimento politico, da tutti gli isms and schisms, le mode e le false opposizioni, a partire da capitalismo e comunismo. Per questo, viene rifiutata ogni definizione di Rastafarianesimo: si parla di Rastafari, anzi di RastafarI: la ‘I’, che si scrive come la cifra romana che accompagna il nome di re Selassiè primo, e che si legge come high, ‘alto’, elevato spiritualmente. Lo sforzo verso l’autonomia culturale si accompagna al timore quasi paranoico degli attacchi dall’esterno, e all’amara constatazione di una storia fatta di ingiustizie e tirannia.

«Non abbiamo niente di nostro» mi disse un giorno John, poeta e scrittore giamaicano, seduto a un tavolo dell’HQ, mentre mi offriva un bicchiere di Irish moss, una bevanda a base di alghe e cannella da lui preparata, che stavamo bevendo mescolata con rum bianco: «I nostri nomi e cognomi vengono dai bianchi padroni dei nostri antenati schiavi; la lingua che parliamo è la loro, il Cristo che adoriamo ce lo hanno imposto loro. Non abbiamo patria, non abbiamo cultura. Ecco perché siamo sottomessi e disgregati, oppressi…». I suoi occhi quasi azzurri, di solito ironici e pronti alla risata, si fecero acquosi sotto un velo di tristezza. Replicai che, nel mondo, milioni di ragazzi guardano ai Rasta con stima, ascoltano la loro musica, e ammirano la loro cultura di fierezza e libertà. Parlavo come da adolescente. John si riscosse dai suoi pensieri cupi: «Well, può darsi. Ma ti dico una cosa: per noi non c’è pace su questa terra fuori dall’Africa. Sono stato in Etiopia, ci vado ogni volta che raccolgo i soldi per il biglietto: it’s the place to be, il posto giusto per noi».

Nonostante mi sentissi del tutto estraneo al nutrito fronte dei nemici del popolo Rasta, una conversazione all’HQ non mancò di rievocare la cattiva memoria storica dell’Italia e il suo feroce passato coloniale: «Voi siete il popolo che ha colonizzato l’Etiopia, l’ultimo paese africano libero. Avete ridotto in esilio Selassié, avete usato armi chimiche contro la popolazione inerme. Siete lo stesso popolo che ha ucciso Gesù Cristo, la nazione che ospita il Vaticano, il più grande male del mondo. E tu ce l’hai nel sangue. Il mio popolo non ha fatto guerre, non ha oppresso nessuno. In qualunque parte del mondo ci sono Rasta, e tutti sono miei fratelli. Nessuno di noi ha colonizzato altri popoli. I bianchi lo fanno». Di certo, l’interlocutore non mi aveva in grande simpatia. Molti altri all’HQ preferivano sdrammatizzare sulle colpe storiche del mio Paese, scherzando su stereotipi più ridanciani come la cucina e la galanteria. La casa delle Twelve Tribes, del resto, è la meno attaccata alla negritudine tra le sezioni Rastafari; la comunità di Manchester ha tra i suoi membri anche Tibor e Alexandra, giovani ungheresi le cui contingenze esistenziali hanno spinti ad abbracciare la fede Rasta, e che sono stati accolti a prescindere dal colore della loro pelle.

Lulu 'Bantan Killah' (foto Giorgianni)

Lulu ‘Bantan Killah’ (foto Giorgianni)

I Rasta iniziarono ad abituarsi alla presenza mia e di un folto gruppo internazionale di amici e studenti provenienti dalla Romania al Messico, alla Grecia e alla Lettonia [10]. Ben presto ci venne chiesto di filmare le celebrazioni per l’archivio dell’HQ, con la clausola di non diffondere le immagini all’esterno; come ci venne detto, era la prima volta che la comunità si avvaleva della registrazione video, senza considerarla uno strumento di Babylon. Così conobbi Lulu ‘Bantan Killah’, della tribù di Asher, interessato a partecipare ai nostri video. Ci fece subito ascoltare una sua canzone, il cui ritornello fa: “I’m a lion| Man a lion|Yo,straight from out of Zion”. Lulu veniva davvero da Zion: nato in Giamaica in una famiglia rasta, da piccolo si era trasferito a Shashamane in Etiopia, per poi migrare a Manchester. La sua allegria e la sua preziosa compagnia hanno accompagnato tante nostre realizzazioni video all’HQ, e tante feste in giro per il quartiere.

Una mattina ero andato all’HQ insieme alla mia amica Clara, a consegnare il video dell’ultima festa. Due uomini della tribù di Reuben vennero ad aprirci: «Greetings, bredrens. Venite dentro, facciamo quattro chiacchere. Scusateci se a volte siamo duri, o sembriamo scontrosi. La vita ci ha tolto tanto, abbiamo perso tanti amici, e a volte penso che abbiamo perso anche il sorriso. Ma credimi, siamo felici che voi studenti frequentiate la casa. La sera, quando arrivate, vedere la fila delle vostre biciclette incatenate lungo il marciapiede mi mette allegria, e anche al resto dei fratelli e delle sorelle. Qui non era così. Lo vedete quell’edificio di fronte? Era un pub, The Beehive. Le gang di Moss Side venivano qui a regolare i conti. Se ti avvicini al muro, ti accorgerai che è ancora crivellato di colpi di proiettile. Sparavano anche mentre facevamo le nostre funzioni qui: allora ci buttavamo per terra, per paura delle pallottole vaganti. Il prefisso della zona è M16, come il fucile d’assalto: si diceva che per questo l’avevano scelto come codice postale di Moss Side!». Entrambi ridono, e ci passano una ciotola con delle fette di mango già sbucciato: «Oh, non ve lo mangiate tutto, lasciatemene un po’! Vi dicevo, abbiamo avuto una vita dura. Io sono nato qui, nel 1960, ma è come se non fossi cittadino britannico. Quando ero piccolo, il razzismo era dovunque. Per questo sono diventato Rasta quando ero adolescente: perché era l’unica cosa che mi insegnava a essere fiero di quello che ero, di essere un nero, di venire dagli schiavi. Di essere un africano. Ora sono vecchio, ho i capelli corti e bianchi: quando ero giovane, i locks mi arrivavano ai fianchi. Eravamo dei ribelli: la società non ci dava spazi, e noi occupavamo le case sfitte. Io andavo a tutti i concerti: Bob Marley, Bunny Wailer, Dennis Brown, BurningSpear. Li ho visti tutti, i grandi del Reggae. Così tanti di noi sono diventati Rasta; contro il parere delle famiglie, che i primi a non volere i Rasta sono proprio i giamaicani. Dicono che siamo pazzi, che fumiamo troppa erba!». Ridiamo tutti. «Manchester è un posto importante per noi. Qui, una ventina di anni fa, è venuto a vivere il fratello di HaileSelassie…». «RastafarI!» interviene l’altro; «Yes I! Era qui, ha mangiato a casa mia, io gli ho stretto la mano, a un principe della famiglia reale etiopica, il fratello di Jah Rasta… Si, era Rasta lui. Da qui, tanti partono per l’Africa: Repatriationis a must, è un dovere per noi, tornare da dove veniamo». Rivoltosi all’altro, chiede: «Ti ricordi, fratello, quando siamo andati per la prima volta in Africa insieme, con le nostre famiglie? È stato in Ghana. Avevamo i bambini piccoli. Mi ricordo che la notte era un incubo, era pieno di insetti: eravamo terrorizzati di beccarci qualche malattia. La volta dopo sono andato in Etiopia, a Shashamane: ero con dei fratelli, passeggiavamo per strada, queste strade polverose dove non c’è niente. A un tratto vedo un bianco, aveva i dreadlocks: “Yo!” gli faccio. Era inglese. Che piacere che mi ha fatto, poter parlare un po’ con lui dopo tanto che ero in viaggio! Mi sto costruendo una casa, a Shashamane. È quasi pronta. Ormai sono vecchio, tra un po’ mi ritiro: lascio il friedchickenshop a mio figlio, e me ne vado in Etiopia, finalmente».

Rimasi colpito dal contrasto tra le abitudini di un uomo cresciuto in Inghilterra e la sua incrollabile decisione di spostare il proprio orizzonte esistenziale verso un luogo del tutto estraneo. Tra l’ansia delle malattie tropicali e la retorica della repatriation, vince quest’ultima, non importa quanto squallida e povera sia la realtà di Shashamane.

 Workshop all'HQ (foto Giorgianni)

Workshop all’HQ (foto Giorgianni)

In estate, l’HQ organizzò una giornata dedicata alla salute, alla cura del corpo e al ruolo delle donne nella comunità, conclusasi con una performance dei tamburi Nyabinghi. Donne e uomini della comunità si alternavano su grandi djembe decorati, scandendo il ritmo della cerimonia: tum-tum, tum-tum. «Come il battito del cuore, è il nostro ritmo naturale» mi disse Yvonne della tribù di Judah, mentre i suoi confratelli suonavano:tum-tum, tum-tum. Ad un tratto, un Rasta si alzò per intonare “Babylon throne gone down”, un classico canto Nyabinghi [11]. «Sento la voce del Rasta che dice| Babylon, il tuo trono sta per crollare| Dico che volerò via verso casa, a Zion| volerò via verso casa| Un bel mattino, quando il mio lavoro sarà finito| volerò via verso casa».

Un bel mattino di sole, senza preavviso, Lulu non si è svegliato. L’anemia falciforme gli ha provocato un’emorragia nel sonno. Aveva la mia stessa età. Come nelle grandi culture africane, i funerali Rasta sono una festa: l’idea è quella di celebrare la vita del defunto, non di piangerne la dipartita. L’HQ ha celebrato l’evento, scegliendo un amico di Lulu per presiedere la serata. Dopo l’esibizione della figlia di Lulu, il presentatore ha preso il microfono, ha ricordato la sua amicizia con il defunto, e ha invitato i presenti a gioire e non essere tristi: «Se Lulu fosse qui, me lo vedo ridere alla sua maniera» ha concluso, esibendosi nell’imitazione del ghigno a denti stretti che caratterizzava il suo amico. Adesso, la famiglia Leach sta raccogliendo i fondi per interrare la salma in Etiopia. Per farlo volare verso casa, a Zion.

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016

 

Note
[1] HQ (pronuncia inglese /ˈeɪtʃkjuː/) è l’acronimo di Headquarters, letteralmente ‘quartier generale’. Il termine è usato per indicare il centro direzionale o aggregativo di un gruppo o di una società.
[2] Il vessillo tricolore, a strisce orizzontali verde, oro e rosso, con al centro il Leone di Guida, è stato la bandiera ufficiale dell’Etiopia dal 1897 fino alla deposizione di Hailé Selassié da parte della Giunta militare filo-sovietica del DERG nel 1975. Rimane oggi il la bandiera di elezione delle comunità Rasta nel mondo.
[3] L’enfasi sulla posizione geografica dell’Etiopia – a Est rispetto alle Antille e alle potenze euro-americane – è frequente nella retorica Rasta per contrapporre la purezza della terra promessa alla corruzione del mondo occidentale. Cfr. il testo di BujuBanton, “TilI’mLaid to Rest”, dall’album‘Til Shiloh del 1995.
[4] Riso con fagioli.
[5] Curry di capra. Piatto tipico della cucina indocaraibica, introdotto in Giamaica dai lavoratori provenienti dal Subcontinente Indiano che il governo britannico introdusse nelle colonie delle Antille dopo la fine della schiavitù.
[6] Pollo piccante cotto alla brace.
[7] Baccalà saltato con ackee. L’ackee (nome scientifico: Blighia sapida) è un frutto originario dell’Africa Occidentale tropicale, introdotto in Giamaica alla fine del Settecento da una nave schiavista.
[8] Le informazioni storiche riportate di seguito sono state raccolte in rete o provengono da eterogenee letture e conversazioni che ho condotto nel corso degli anni. Mi scuso con chi legge, ma non sono in grado di indicare alcun riferimento bibliografico scientifico relativo all’argomento.
[9 I Rasta insistono sui numerosi riferimenti biblici a tale pratica, relativa al nazireato, ossia la consacrazione di un ebreo a Dio, che oltre al divieto di tagliarsi i capelli comporta una serie di precetti alimentari quali astenersi dal consumo di uva, bevande inebrianti e cibi impuri come la carne di maiale. Nella cultura Rasta, generalmente poco normativa, l’osservanza di tali precetti non è obbligatoria, dipende dal libero arbitrio dei singoli fedeli.
[10] Questo contributo sarebbe stato impossibile senza l’aiuto degli amici e compagni di ricerca Ansels, Beppe, Clara, Dre, Edo, Fas, José, Marco, Paloma, Spyros, Stefania.
[11] Il canto fu reso famoso dall’arrangiamento di Bob Marley nel brano “Rastaman Chant” nel 1973.
Riferimenti bibliografici
Feld, Steven 2003 (ed. e trad. ingl.), Ciné-ethnography/Jean Rouch, Minneapolis, MN: University of Minnesota Press.
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Eugenio Giorgianni, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha recentemente completato il Master of Arts in Visual Anthropology presso The University of Manchester. Tra il 2011 e il 2012 ha condotto, con il supporto della Universidad de Granada, una ricerca etnografica presso la comunità dei migranti in transito a Melilla (Spagna africana). Tra i suoi interessi di studio temi e questioni relativi all’antropologia dello spazio. In questa direzione ha condotto una ricerca sul quartiere palermitano di Ballarò.

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