- Dialoghi Mediterranei - http://www.istitutoeuroarabo.it/DM -

“Fai la cosa giusta”. Rete dei piccoli paesi, musei etnografici e aree interne

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 00:24 In Cultura,Senza categoria,Società | No Comments

copertinadi Diego Mondo

La giornata “Fai la cosa giusta”, la rete dei piccoli paesi e l’edizione di un importante lavoro a più mani dedicato a “Le aree interne tra abbandoni e riconquiste” [1], offre l’occasione per proporre una riflessione sul possibile ruolo offerto ai musei etnografici nell’ambito di politiche territoriali tese a coniugare diritti di cittadinanza, partecipazione e sviluppo sostenibile. A tale scopo, ritengo interessante riportare tre brevi riflessioni di altrettanti studiosi.

«E se proprio vogliamo dare un reale cambiamento alle tradizionali politiche anti-crisi, mi azzardo a dire che esso potrebbe venire da un ulteriore coinvolgimento del nostro scheletro contadino, magari con una politica per “lo scheletro dello scheletro”, cioè la nostra dorsale appenninica. Per decenni, specialmente noi meridionalisti eredi di Manlio Rossi Doria, abbiamo considerato l’Appennino come un “osso” meno attrattivo rispetto all’economia della “polpa” del sistema (le grandi pianure, le città, le coste e il loro immediato retroterra), relegandolo a far da quinta inerte e fragile alla dinamica di sviluppo. Ed invece, se abbiamo superato anni difficili, lo dobbiamo a valori (di sobrietà, di risparmio, di controllo dei comportamenti) che hanno origine e sede primaria proprio nel mondo appenninico: un mondo che ha spesso messo in campo energie vitali proprie (di milioni di cittadini abituati alla fatica vera). A lavorarci sopra potremmo avere fra le mani un potente fattore per andare “oltre la crisi”» [2].
 «Nelle aree interne troviamo tracce di emancipazione, che passano per soggettività in movimento: abitanti e professionisti che innovano pratiche (…), nuovi abitanti che in questi territori trovano vie di fuga da una condizione di esistenza precaria, migranti che approdano nelle aree interne dentro percorsi migratori individuali e collettivi (…), comunità capaci di accoglienza, cittadinanza attiva che continua a costruire relazioni sociali aperte (…). È anche grazie a queste soggettività che le aree interne non sono soltanto caratterizzate dalla traiettoria dominante dello spopolamento e dell’abbandono, ma sperimentano situazioni di ripopolamento e rigenerazione. (…) Curci e Lanzani le chiamano contro storie» [3].
 «Nelle campagne italiane abbiamo visto di recente tornare i contadini. Assomigliano a quelli del millennio testé concluso: magri, stracciati, a piedi scalzi. Lavorano come allora, dieci o dodici ore (“da sole a sole”, si diceva all’epoca) nelle infuocate ore dell’estate. Però, a ben guardare, delle differenze ci sono: molti di loro hanno la pelle più scura di quella dei contadini del tempo antico e le lingue che parlano sono quelle di paesi remoti» [4].

Nei tre brani riportati ravviso più di un punto in comune con le riflessioni proposte negli ultimi anni dalla museologia etnografica, in particolare qualora ci si soffermi a riflettere sui nessi tra contesti locali, realtà sociali, apporti culturali e questione ambientale. Vale a dire alcune tra le questioni aperte riguardanti la necessità di orientarsi tra squilibri e conflitti manifestati dalle tensioni tra dinamiche globali, mondo locale, declinazioni identitarie, aperture, chiusure, ecc. I punti in comune si ravvisano se si volge lo sguardo a quell’ “osso” rurale – per utilizzare la metafora evocata da Giuseppe De Rita e Piero Bevilacqua [5] – nei cui territori ed inizialmente in modo spontaneo è venuta a costituirsi tanta parte della museografia etnografica e dove oggi innovazione e condizioni sociali complesse, talvolta drammatiche, riflettono contemporaneamente storie di mobilità (e immobilità), di demografia a segno meno, di lavoro come opportunità e come problema [6], di modi dell’abitare e del riabitare.

Nella lezione dello storico Adriano Prosperi si intravede un paesaggio distopico che sembra mutuare dal passato sottrazione di diritti e condizioni di lavoro rimossi dalla memoria sociale. Paesaggio rimosso, ma talvolta rievocato in forme di “arcadica” riproposta festiva. Le rievocazioni «in cui la cultura diffusa tende a cancellare passato e futuro nell’ossessiva dilatazione di un presente fuori della storia» per citare ancora Prosperi [7]. Con Giuseppe De Rita e Giovanni Carrosio lo sguardo si orienta invece nella direzione di una riflessione sociologica su proposte e sperimentazioni in atto, dove i luoghi “ai margini” possono emanciparsi e ricollocarsi al “centro”, sviluppando aggregazione e relazioni in grado di aprire spazi di rigenerazione materiale e simbolici forieri di valori e sviluppi innovativi [8].

1In questi incroci sovrapposti tra passato, presente e futuro quale testimonianza può offrire la diffusa, capillare presenza dei musei etnografici locali? Gli oggetti esposti ed i saperi da essi richiamati attraverso esposizioni spontanee o strutturate come possono ricomporre narrativamente il tessuto sociale e lo spessore storico sopra evocato? Quale “pedagogia del ricordo” rielaborata con adeguati supporti critici può estrapolare ed attualizzare quei valori (non solo quelli ovviamente) di cui parla Giuseppe De Rita, riposizionandosi senza nostalgia nella contemporaneità ed aggregandosi alle traiettorie culturali della sostenibilità e della circolarità non solo materiale, ma anche delle idee e del pensiero?

Mi pare che l’universo istituzionale e non che ruota attorno ai musei etnografici debba oggi porsi delle domande e cogliere le occasioni che l’attuale congiuntura storica presenta [9]. L’occasione che, paradossalmente, offre essere “ai margini”, cioè al centro di politiche territoriali in cui sono presenti importanti elementi di innovazione come la Strategia Nazionale delle Aree Interne. Scrive a riguardo Antonio De Rossi: «La Snai non solo ridefinisce in termini radicalmente nuovi il tema del progetto dei territori marginali, ponendo al centro la questione dei diritti di cittadinanza, ma conferisce alla questione delle aree interne una visibilità collettiva e politica per molti versi inedita, determinando un punto di leva ineludibile per ulteriori azioni politiche» [10].

Per tali motivi mi pare necessaria una rinnovata riflessione sulla funzione che i musei presenti nelle aree rurali (ma non solo) possono assolvere a favore del territorio di cui, talvolta con modalità approssimative, rappresentano aspetti della storia sociale, del lavoro e della vita quotidiana [11]. Recenti strumenti normativi sollecitano infatti approfondimenti in questa direzione. Mi riferisco, per esempio, al decreto ministeriale sugli standard museali n. 113/2018 e, per il Piemonte, alla legge regionale n. 11/2018 [12]. Va comunque aggiunto che, se le nuove norme da un lato rispecchiano concetti correnti ed acquisiti dalla riflessione museologica, dall’altro, per delineare concrete azioni future, le stesse norme devono tradursi in spazi di partecipazione e di collaborazione realmente percorribili, in particolare a fronte di una congiuntura non certo felice quanto a disponibilità di risorse finanziarie. Alle difficoltà economiche dovranno affiancarsi idee e affinamento dei contenuti progettuali.

Agli indirizzi normativi dovranno quindi seguire la costruzione ed il consolidamento dei rapporti tra i musei locali. Un progetto che abbia come fine la costituzione di reti di collaborazione capaci di imbastire percorsi condivisi che vedano le esperienze dei musei etnografici come una componente utile per più articolati processi di emancipazione sociale. Dal museo al territorio e dal territorio al museo, per richiamare un “vecchio paradigma” che ritengo ancora sufficientemente adeguato, in particolare se si colgono le novità introdotte dalla Strategia Nazionale delle Aree Interne [13].

Considerato il contenuto didattico spesso manifestato dai promotori delle realtà su cui stiamo riflettendo, la costruzione di rapporti più solidi tra cittadini, scuola e territorio offre un’importante opportunità ai piccoli musei locali. Riqualificarne la funzione come luoghi di “sostegno didattico” secondo una logica di condivisione (di personale volontario, di esperienze di ricerca, ma anche di debolezze) sperimentata in altri contesti, come quello socio-sanitario e scolastico, costituisce, a mio parere, un ambito di sperimentazione particolarmente interessante per l’applicazione di quanto previsto dagli indirizzi sugli standard museali [14]. Una strada che, tuttavia, nel gioco delle parti tra centro e periferia richiede una capillare opera di illustrazione, mediazione, coordinamento e programmazione, in grado di stimolare interazioni tra comunità, enti locali e saperi esperti, questi ultimi intesi anche come apporti scientifici da parte di istituzioni e Università.

2La costruzione di collaborazioni condivise può dunque stimolare tutti quei fattori di cittadinanza attiva già presenti in numerose realtà locali. Agency declinata a misura di musei e patrimonio culturale in contesti che presentano evidenti potenzialità (ambientali, paesaggistiche e culturali) oggi interessati a dinamiche di ricomposizione demografica e di innovazione sociale, come sottolineato da Giuseppe Dematteis [15].

 A tale riguardo, ritengo tuttavia interessante richiamare altre considerazioni presenti nel citato volume sulle aree interne. Si tratta di riflessioni a mio parere utili per inquadrare alcune dinamiche sottese al rapporto tra musei etnografici e territorio non sempre evidenti ad uno sguardo generico che si soffermi sui soli dati statistici relativi al numero e all’ubicazione. Mi riferisco, ad esempio, al ruolo centrale che per le aree interne ricoprono le comunità locali e la “questione cognitiva”.  Un nesso posto in luce da Fabrizio Barca [16]. Per le nostre questioni si tratta di un rapporto che intreccia saperi, conoscenze e abilità manuali delle comunità, visibile e documentabile, osservando gli oggetti esposti nelle collezioni etnografiche, le tecniche di messa in opera dei manufatti architettonici, la cura del paesaggio e le sue relazioni materiali e sociali di contesto.  Credo infatti non sia improprio qualificare anche i musei etnografici, nonostante i limiti noti e più volte segnalati dalla letteratura, come espressione di un “servizio a favore della società” (si legga a riguardo la definizione descrittiva dell’ICOM e quanto riportato all’articolo 16 della legge della Regione Piemonte, 11/2018) [17].

La questione è semmai come migliorare la qualità di questo “servizio”, superando eventuali resistenze e chiusure locali, incrementando la partecipazione e affinando le capacità di comunicazione verso il pubblico. «Una larghissima parte della conoscenza necessaria per adeguare e riorganizzare i servizi di cittadinanza – scrive Giovanni Carrosio – non risiede infatti al livello centrale o regionale, ma è posseduta dagli abitanti del territorio e dai loro rappresentanti: lavoratori, insegnanti, medici, autisti, contadini, ricercatori, studenti, volontari, imprenditori…». Citando Fabrizio Barca, Carrosio prosegue: «L’attribuzione di un ruolo centrale alle comunità locali nelle politiche per i territori non deriva dunque dalla ricerca di consenso, ma da una questione cognitiva, dalla necessità di acquisire conoscenza diffusa nella società e portarla dentro i meccanismi di funzionamento delle istituzioni (…)» [18].

Come sopra accennato, la “questione cognitiva” riguardante i musei etnografici e il patrimonio culturale diffuso [19] mi pare possa tra l’altro ricondurre a quel quid di conoscenze e di saperi enucleati nelle cura dei luoghi e nella sua sintesi paesaggistica sedimentatesi nel corso della storia. Un quid che oggi si manifesta nella cultura materiale e immateriale e si esplica in azioni, relazioni, processi inclusivi fatti propri da animatori locali (neomontanari, ad esempio), da insegnanti, da conservatori “spontanei non strutturati”, dal volontariato diffuso che sostiene molte iniziative gravitanti attorno alla vita dei musei [20]. Per stare alla montagna piemontese, circa questo mix di saperi e di abilità, Antonella Tarpino parla – credo non a caso – «di sintassi profonda [e] di codici e di convenzioni capaci di orientare una cultura arcaica e tenace insieme: maestra di sopravvivenza nelle condizione estreme della vita»[21]. Si tratta, mi pare, di quelle energie materiali e morali segnalate in precedenza nell’articolo di Giuseppe De Rita.

marmora-cn-collezione-etnografica-privata-foto-d-mondo

Marmora (cn), Collezione privata (ph. Mondo)

Le riflessioni offerte dagli studiosi, tuttavia, necessitano un’ulteriore integrazione, in particolare nella direzione dei rispettivi ruoli ricoperti dalle istituzioni operanti sul territorio, incluse quelle cui competono le questioni riguardanti musei e patrimonio culturale. «Perché lo sperimentalismo sia efficace – scrive ancora Carrosio – le istituzioni centrali (Stato e regioni) devono stimolare la rappresentanza locale (…) ad aprirsi alle spinte emancipatorie, creare spazi pubblici dove i nuovi abitanti, i pionieri, gli innovatori, i migranti – tutti casi di conoscenza esterna – possano avere voce, emergere, condividere il proprio sapere. Le istituzioni centrali devono comportarsi come agenti destabilizzati: estrazione delle conoscenze locali, apertura verso quelle esterne e promozione dei processi di innovazione istituzionale (…)» [22].

Conoscenze esterne. Conoscenze locali. Aggiungerei contatto, ibridazioni e altre metafore ricorrenti nel linguaggio antropologico attinte dal modo rurale (di concime, fertilizzante ed emersioni culturali parla James Clifford) [23]. Per le questioni demoetnoantropologiche, non è improprio ravvisarvi l’eco delle riflessioni proposte negli ultimi anni circa il rapporto dell’antropologo con il territorio di ricerca, le posture da assumere, le correlazione con le realtà locali e le istanze da queste manifestate, le tematiche connesse ai processi di patrimonializzazione, il dilemma su come districarsi metodologicamente tra storia e contemporaneità, il carattere composito e mai univoco della comunità, fino ad arrivare a quanto espresso nelle convenzioni Unesco e di Faro [24]. Convenzioni che, associate alla messa in campo di risorse europee (Programma di Sviluppo Rurale, Interreg, Spazio Alpino, ecc.), hanno sollecitato (e solleciteranno in futuro) a livello locale processi di patrimonializzazione, amplificando, in taluni casi, la scala entro cui si muovono i musei etnografici, passati da luoghi a perimetrazione autoctona a spazi sovraterritoriali se non globali o, meglio, glocali. Per questi ultimi aspetti, si pensi alla proiezione centrifuga del patrimonio culturale innescata dalle modalità formali previste dall’Unesco per il riconoscimento e la successiva valorizzazione [25]. Questioni certo non secondarie, specie per l’analisi dei processi di “costruzione” del patrimonio, che sollecitano una lettura aggiornata circa i ruoli delle istituzioni, dei ricercatori e delle comunità.

In queste intersezioni tra reti locali di piccoli paesi, persone, lavoro, spinte di emancipazione, dunque diritti preclusi o da sollecitare, credo sia possibile re-immaginare un ruolo per i musei etnografici intesi come memoria attiva del territorio rurale [26]. Da un punto di vista operativo ritengo utile sottolineare la necessità della ricerca etnografica. Gioverebbe avere dati aggiornati sulle numerose esperienze di lavoro in corso ed analizzare le interazioni innescate dai musei con il territorio, nonché i motivi (e i retro-motivi) che alimentano tali esperienze. Gli aspetti complessi che spesso intersecano tali esperienze (tradizione, identità, autenticità, ecc.) costituiscono infatti questioni di primo piano per interpretare le traiettorie culturali prodotte dalla contemporaneità.

In una aggiornata prospettiva di relazioni tra locale e sovralocale, tra margini e centro, i musei hanno la possibilità di contribuire a coniugare il presente con il futuro. Non in solitudine, ovviamente.  Piuttosto come parte di un complessivo progetto intersettoriale, che raccordi le voci del territorio, le questioni sociali, i saperi, i saper fare e i temi ambientali. Se la partecipazione è il metodo attraverso cui le comunità esprimono esigenze e pongono domande, la voce dei (piccoli) musei etnografici può contribuire a delineare rapporti più equilibrati con il territorio attraverso la collaborazione in progetti condivisi, attingendo dalle esperienze del passato valori positivi senza remore nostalgiche. In questa dimensione progettuale – come hanno sottolineato Antonio De Rossi e Laura Mascino – credo si debba collocare anche una rivisitazione in chiave critica dei meccanismi concettuali che sottostanno ai processi di patrimonializzazione messi a punto ormai da oltre due decenni e documentabili nelle aree interne alpine [27].

Per esempio, per l’area piemontese, i processi di patrimonializzazione hanno evidenziato in numerosi casi il passaggio da una museografia spontanea a progetti di allestimento strutturati legati a risorse europee. Progetti giocati sulla relazione tra passato e presente e sulla promozione turistica. I musei etnografici sono prevalentemente associati al turismo e alla scoperta delle “tradizioni” del territorio. Considerati gli assunti a cui fanno riferimento le risorse della programmazione europea (in particolare per le aree rurali), gli allestimenti e la valorizzazione dei musei si collocano tuttavia in uno spazio composito, non esclusivamente culturale, costituito da numerose tessere correlate ad una visione più articolata dello sviluppo del territorio, per esempio coniugando alla promozione turistica l’integrazione multifunzionale delle attività rurali.

4Per questa ragione è necessario pensare ai musei e al patrimonio culturale come una componente strettamente connessa ad altri fattori strutturali verso i quali è necessario porre attenzione. Mi riferisco al quadro articolato delle politiche sociali ed economiche, dell’istruzione, della viabilità e dei trasporti, della questione ambientale, della cura del paesaggio, ecc. Con gli strumenti che sono loro propri, i musei locali (e il patrimonio culturale in genere) interagiscono con altre infrastrutture del territorio, dalle quali dipendono, evidenziando in tal modo debolezze specifiche, limiti nella cura dovuti all’assenza di personale, all’inadeguatezza delle forme di comunicazione, alla fragilità economica e di orientamento culturale e via dicendo. Si tratta di questioni analoghe a quelle a cui si riferiscono i nodi problematici (anche più problematici direi) che la Strategia intende sciogliere con adeguate politiche di emancipazione per le aree interne.

Alcune delle questioni enumerate in questo testo e riguardanti i piccoli musei riflettono i punti di debolezza posti in luce dall’IRES e dall’Associazione Dislivelli in una recente ricerca condotta nell’area montana piemontese [28]. Nondimeno, ai punti di debolezza della montagna, la ricerca pone come contraltare anche numerosi punti di forza di segno opposto: qualità ambientale, ricchezza culturale e sociale, turismo, produzione di servizi ecosistemici, connettività transfrontaliera, qualità della vita. Ricchezza culturale e sociale, precisano i ricercatori, costituita da «una varietà di lingue, idiomi, canti, riti, culti, tradizioni e anche peculiari forme di mutualismo e di economia informale che oggi si vanno riscoprendo e costituiscono alimento dell’innovazione sociale»[29]. In questa faglia tra debolezza e forza credo si possa intravedere un interessante spazio per i (piccoli) musei etnografici.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
 Note

[1] De Rossi, A. (2018) (a cura di), Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli. Sulle stesse questioni analizzate dal volume, si veda anche Carrosio G. (2019), I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Roma, Donzelli
[2] Giuseppe De Rita, Le energie da ritrovare nelle politiche anti-crisi, Corriere della Sera, 10 febbraio 2019
[3] Carrosio G. e Faccini A., Le mappe della cittadinanza nelle aree interne, in De Rossi A. (a cura di) (2018), Riabitare l’Italia cit.: 73
[4] Prosperi A. (2019), Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Torino, Einaudi: IX
[5] Bevilacqua P. (2018), L’Italia dell’“osso”. Uno sguardo di lungo periodo, in De Rossi A. (2018) (a cura di), Riabitare cit.: 111-122
[6] Cfr. Massini S. (2016), Lavoro, il Mulino, Bologna: 12
[7] Prosperi A., Un volgo cit.: X. Rievocazioni “arcadiche” qui segnalate senz’alcun intento censorio, ma piuttosto in ragione della necessità di distinguere tra le rappresentazioni contemporanee, il cui interesse in chiave antropologica è evidente, e le vigili funzioni storico-critiche che fanno capo ai compiti interpretativi delle istituzioni museali.
[8] Cfr. Carrosio G. e Faccini A., Le mappe della cittadinanza nelle aree interne, in De Rossi A. (2018) (a cura di), Riabitare cit.: 51-77; Carrosio G. (2019), I margini al centro. L’Italia delle aree interne tra fragilità e innovazione, Donzelli, Roma
[9] Su questo cfr. Padiglione V. e Broccolini A. (2015-2016), “Uscirne insieme”. Farsi comunità patrimoniale, in “Antropologia museale, Etnografie del contemporaneo III: comunità patrimoniali”, anno 13, 37/39: 3-10; Dei F. (2018), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Bologna, il Mulino (cap. VIII); Clemente P., Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo, in De Rossi A. (2018) (a cura di), Riabitare cit.: 365-380
[10] De Rossi A., Introduzione. L’inversione dello sguardo. Per una nuova rappresentazione territoriale del paese Italia, in Id. (a cura di), Riabitare cit.: 13.
[11] Le considerazioni qui esposte si riferiscono prevalentemente al territorio piemontese. Per un quadro di insieme, si veda Colombatto C. (2016), Il museo etnografico tra antropologia, storia e legislazione. Una ricerca di museologia nomade del Piemonte, Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Culture, Politica, Società, Dottorato di Ricerca in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione, ciclo XVII
[12] Decreto del Ministero dei beni culturali e delle attività culturale e del turismo, n. 113 del 21 febbraio 2018; legge regionale 1° agosto 2018, n. 11 “Disposizioni coordinate in materia di cultura”
[13] Per il “paradigma museo territorio” e le pregresse esperienze piemontesi, si veda Rossi Pinelli O. (2014) (a cura di), La storia delle storie dell’arte, Torino, Einaudi: 473 e sgg.
[14] Mi riferisco, per esempio, ai progetti socio-sanitari “Veniamo a trovarti” e “Consenso” menzionati nella Strategia d’Area Valli Grana e Maira in provincia di Cuneo e sostenuti rispettivamente dalla Fondazione CRC e dal programma di cooperazione transnazionale Spazio Alpino. Si veda anche Carrosio G. e Faccini A., Le mappe cit.: 75. Analogamente ad altre professioni tecnico-amministrative, si potrebbero immaginare conservatori e organizzatori museali “a scavalco”: un’idea che ebbe corso senza esiti concreti alcuni anni or sono e che forse oggi può essere ripensata nell’ambito di progetti di area vasta.
[15] Dematteis G. (2018), Montagna e città: verso nuovi equilibri?, in De Rossi A. (2018) (a cura di), Riabitare cit.: 285-295; Cfr. anche Dematteis G. (2011) (a cura di), Montanari per scelta. Indizi di rinascita nella montagna piemontese, FrancoAngeli, Milano; Dematteis M., Di Gioia A.  e Membretti A. (2018), Montanari per forza. Rifugiati e richiedenti asilo nella montagna italiana, FrancoAngeli, Milano
[16] Le considerazioni di Fabrizio Barca sono citate in Carrosio G. e Faccini A., Le mappe cit.: 76 e nota 23
[17] Vedi nota 12. Riporto il comma 1 dell’articolo 16 della legge menzionata che ricalca la definizione ICOM: “(…) si intende per museo l’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce e conserva testimonianze materiali e immateriali dell’umanità ed il suo ambiente, compie ricerche su di esse, le comunica e le espone a fini di studio, educazione e diletto, promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica, in coerenza con a definizione adottata dall’International Council of Museums (ICOM) nella XXI Conferenza Generale del 2007 in Vienna”.
[18] Carrosio G. e Faccini A., Le mappe cit.: 76. Il riferimento al testo di Barca è alla nota 23.
[19] Mi riferisco, ad esempio, al cosiddetto patrimonio edilizio minore e del lavoro oggetto in Piemonte di particolare attenzione a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso grazie all’attuazione di specifiche leggi regionali ed all’attivazione di risorse della programmazione rurale europea.  A titolo esemplificativo, si veda il ruolo delle infrastrutture idrauliche preindustriali e le implicazioni antropologiche poste in luce da Van Aken M. (2013/2014), Irrigazione, in “Antropologia museale”, n. 34/36: 92-94
[20] Si veda nota 15 e Viazzo P.P. e Zanini R.C.(2014), “Approfittare del vuoto?” Prospettive antropologiche su neo-popolamento e spazi di creatività culturale alpina, in “Revue de géographie alpine”: 102-104
[21] Tarpino A. (2013), Genesi, in Revelli N., Il popolo che manca, Einaudi, Torino: V.
[22] Carrosio G. e Faccini A. cit.: 77
[23] Vedi Clifford J. (1993), Anche i frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino: 28-29. Quanto al concetto “museo-zona di contatto” ed alle sue implicazioni, compresi gli aspetti conflittuali non estranei alle realtà di cui ci occupiamo, vedi Id. (2008), Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo, Bollati Boringhieri, Torino
[24] Convenzione Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, Parigi 17 ottobre 2003, ratificata dallo Stati italiano il 27 settembre 2007, con legge n. 167; Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società, Faro, 27 ottobre 2005
[25] Per una discussione su questi argomenti, vedi Dei F. (2018), Cultura popolare cit.: 138 e sgg; Broccolini A. e Padiglione V., Lo “Stato” del Patrimonio ai tempi dell’Unesco: una riflessione sulle “comunità patrimoniali”, in Dei F. e Di Pasquale C. (2017) (a cura di), Stato, violenza, libertà. La “critica del potere” e l’antropologia contemporanea, Roma, Donzelli: 281-290
[26] Vedi Clemente P. (2018), Ibridazioni e riappropriazioni. Indigeni del XXI secolo, in De Rossi A., Riabitare cit.: 365-380
[27] Vedi De Rossi A. e Mascino L. (2018), Progetto e pratiche di rigenerazione: l’altra Italia e la forma delle cose, in De Rossi A., Riabitare cit.: 499-523; Barca F. (2018), In conclusione: immagini, sentimenti e strumenti eterodossi per una svolta radicale, in De Rossi A., Riabitare cit.: 561. Circa il paradigma della patrimonializzazione e i suoi aspetti critici, le riflessioni di Antonio De Rossi erano state anticipate in De Rossi A. (2016), La costruzione della Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), Donzelli, Roma, in particolare: 601 e sgg.
[28] Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte (IRES) e Associazione Dislivelli (2019), Le montagna del Piemonte, IRES, Torino. Il documento è scaricabile in formato PDF dal sito www.ires.piemonte.it
[29] Ib.: XII

_______________________________________________________________

Diego Mondo, responsabile della valorizzazione dei beni demoetnoantropologici e del coordinamento della catalogazione del patrimonio culturale materiale e immateriale ai fini della promozione degli ecomusei, del territorio e del paesaggio con particolare attenzione al Piemonte rurale e all’area alpina. È autore di diversi studi.

_______________________________________________________________

Print Friendly and PDF

Article printed from Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM

URL to article: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/fai-la-cosa-giusta-rete-dei-piccoli-paesi-musei-etnografici-e-aree-interne/

Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.