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Fà la cosa giusta. Piccoli paesi e grandi pensieri

Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2019 @ 00:28 In Cultura,Società | No Comments

 

fa-la-cosa-giusta-edizione-2018-1di Pietro Clemente

 Continuare a pensare

Continuo a ripensare il volume Riabitare l’Italia, e credo che anche nelle pagine che nascono qui nella sezione ‘Il centro in periferia’ dentro Dialoghi Mediterranei continueremo ad accogliere letture, suggerimenti, interpretazioni su questo volume. ‘Continuare a pensare’ per me è anche la citazione di un passo di De Martino che cita Benedetto Croce, in Morte e pianto rituale. Un libro che ho criticato assai per la gracile etnografia ma che ho amato altrettanto per le riflessioni che ho spesso fatto mie come persona che conosce la morte, più che come studioso. Continuare a pensare sembra essere la risposta dell’Occidente intellettuale e individualista al pianto funebre. Continuare a pensare i nostri morti, viverli ancora nel pensiero, è quello che De Martino poi chiamerà ‘trascendimento nel valore’, oltrepassamento nel valore: avere portato con sé e dentro di sé – oltre – chi ci è mancato, farlo diventare un potenziamento di noi stessi che lo continuiamo. Così anche quando per analizzare un libro facciamo ricorso ai nostri predecessori continuiamo e pensarli, e oltrepassare nel valore la loro assenza è un modo di indicare la loro presenza nei nostri pensieri, nelle nostre parole.

Il libro Riabitare l’Italia è ben vivo. Su di esso si sono aperti nelle – forse — cento presentazioni fatte, tanti fronti e tanti inizi di nuovi pensieri. Pensieri legati all’inversione dello sguardo: dal centro alle periferie, e dalle periferie ‘come centro’ al mondo prevalente, visto come deriva. Interessante assai per me il dibattito aperto con Antonio De Rossi e Laura Mascino a Soriano Calabro, in occasione di una presentazione del libro alla Biblioteca calabrese, sul valore o disvalore della ‘patrimonializzazione’ come fattore di sviluppo locale. In questo numero è Alessandra Broccolini che riprende quel dibattito con un intervento utile e chiaro, lo aveva anticipato  nell’incontro romano della rete dei piccoli paesi che si è tenuto a Roma il 4 giugno,  dove si è cercato di ‘usare’ il volume, per aiutarsi a lavorare nei luoghi. Corradino Seddaiu, per l’Associazione Realtà Virtuose, ne riprende alcuni temi, già proposti a Roma, in specie quello della necessità di alleanze (che recepisce come messaggio centrale del testo di Fabrizio Barca), e del lavorare al dialogo città-campagna costa-zona interna (che riprende da uno scritto di Cristina Renzoni sempre in Riabitare l’Italia).

A Roma nell’incontro della rete del 4 giugno, abbiamo avuto anche la presenza di Carmine Donzelli editore e di Antonio De Rossi curatore del volume, ed è importante riferire che l’editore e il curatore sono impegnati a potenziare le pubblicazioni sui temi dello spopolamento e del riabitare. Questo libro ci accompagnerà a lungo. Ad Armungia il 15 giugno abbiamo ripreso in mano il volume, e riflettuto ancora a più voci. Qualcuna la troveremo nel prossimo numero di Dialoghi Mediterranei ma in linea generalissima per me è stato utile che Ester Cois, sociologa dell’Università di Cagliari, provasse a definire meglio il verbo del titolo del libro: riabitare. Io pensavo che dovesse valere come ‘abitare di nuovo’, tornare ad abitare, invece lei ha suggerito che il RI fosse indicativo non della ripetizione ma dell’inizio di un nuovo gesto. Abitare diversamente, abitare in modo nuovo. Sentendola mi sono soffermato sulla parola ‘rinnovare’ o ‘rinnuovare’ nell’uso di Siena, dove il significato è ‘inaugurare’, usare per la prima volta. Forse riabitare può anche significare ‘abitare in modo adeguato per la prima volta’, laddove si è abitato con grande esperienza storica e pratica ma con sofferenza e senza coscienza del valore.

Continuare a pensare, per tornare all’inizio, è dunque per me ritrovare i ‘miei’ autori quando sono impegnato in nuovi pensieri. I miei maestri conosciuti personalmente e non. Le parole di De Martino nelle note sul campanile di Marcellinara (ne La fine del mondo) sono sempre in agguato nel mio pensare ai piccoli paesi: il suo ‘villaggio vivente nella memoria’ come risorsa per non essere astratti, è anche, per me, il ritorno agli antenati, alla mia infanzia a Meana Sardo durante la guerra, con mia madre napoletana, trentenne, splendente nel paesaggio di una Sardegna che non capiva. Il diario scritto a Meana – il paese di mio padre e di mia nonna – dal cognato di mia nonna, medico condotto in pensione, negli anni dell’Italia sbandata dopo l’8 settembre 1943, quando per lui erano cessate le notizie di suo figlio magistrato e militare a Milano, fa parte di quanto mi è rimasto dentro come ‘villaggio vivente nella memoria’. Il figlio era quello zio Salvatore che a Milano, quando ci andai a studiare per poco tempo, mi invitava a pranzo, e mi interrogava sulle mie fumose e luminose ideologie. Milano dove ho conosciuto Ida che poi è venuta in Sardegna, dove ci siamo sposati, e poi con due bimbe piccole trasferiti a Siena. Storie di luoghi che si connettono.

A Ittireddu, quest’anno nasce Ammentos. Archivio della scrittura sulla Sardegna. Spero di mandare lì – con adeguato apparato – i diari del cognato di mia nonna, Zio Francesco, in modo che insieme con tanti scritti di tante altre persone dialoghino e rifacciano una storia un plurale e producano – visto che è un genere proprio dei sardi – polifonie. Ripasso nella mente anche Alberto Cirese, continuando a pensarlo a partire da Riabitare l’Italia: il mio maestro Maestro. I suoi pensieri Tra cosmo e campanile, sull’importanza dei luoghi mi sono utili, così anche il suo riflettere per immagini: ‘ il cuore nel borgo e la mente nel mondo’, ma sempre contro l’idea che la conoscenza possa essere ‘locale’, nel senso di non aperta e confrontata col mondo degli studi (il localismo di tanti studi non solo di dilettanti). Così i pensieri si continuano e si concretizzano in ‘grani’, e si mescolano. ‘Grani’ mi fa pensare alla ‘granularità’ dell’Italia di cui parla Fabrizio Barca.

Riabitare l’Italia è traversato da una idea delle differenze locali come caratteristica e risorsa dell’Italia che mi colpisce e mi entusiasma. I contadini nelle interviste dicevano: la terra cambia a palmi. Un enologo a Montepulciano anni fa mi fece capire che nel rapporto tra terra e produzione agricola c’è una grande varietà di forme che l’agricoltura moderna ha teso ad annullare, mirando solo alla quantità. Così nella diversità più radicale vive la gloriosa viticoltura italiana. Forse anche le culture locali cambiano palmo a palmo.

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Scipione, Uomini che si voltano, 1930

La postura del ricordante

Che linguaggio ricco, quasi visionario, c’è in Riabitare l’Italia! Mi piacerebbe studiarlo, scoprire segreti nascosti, forse speranze di nuovi mondi a lungo trattenute, seccate dallo scetticismo. Come una idea di ‘rinascimento’, quella per cui si dava nome di Renato/a, da una parte e Libero/a. In ogni saggio, anche il più tecnico, circola questo lieve profumo di parole ‘intense’, ‘sentite’, nuove, investite in una idea che vale per noi e non solo per gli studi.

Sull’inversione dello sguardo che dà il titolo alla introduzione di De Rossi, ho già scritto nel numero 36. Ma voglio ancora insistere perché sembra un concetto semplice mentre non lo è – almeno se lo si prende sul serio come modo di produrre anche della pratiche, non solo delle metafore. Nello scritto di De Rossi esso si connette con il concetto di ‘margine’, di periferia, di confine. Comporta l’acquisizione di uno sguardo cambiato.

Così mi spinge a riconnettermi nel pensiero con una ‘figura’ che ho costruito alla fine degli anni ’90, quella della ‘postura del ricordante’ [1], che per me è quella di chi parla del passato rivolto a qualcuno cui quel passato viene trasmesso nel presente e che forse per lui sarà futuro. Il mio lavoro sul ‘ricordante’ aveva due riferimenti, uno pittorico, quello del pittore italiano Gino Bonichi (Scipione): ‘Gli uomini che si voltano’ e uno letterario tratto dai racconti italiani di Edith Wharton che vi propongo in una mia sintesi:

«In uno dei suoi racconti italiani Edith Wharton fa parlare il colonnello Alingdon, americano vissuto nel contesto dell’Italia risorgimentale. Uomo schivo egli si accinge a narrare per la prima volta una storia d’amore che lo concerne nella scena dell’eroismo nazionalista del risorgimento italiano.
Sedeva in silenzio, riflettendo, le punta delle dita congiunte e gli occhi fissi su un passato che era ormai l’unica cosa ad essi visibile» [2].

Gli occhi guardano il passato “dietro” di noi, ma all’apparenza essi guardano l’interlocutore, davanti a chi racconta, e le parole procedono verso il tempo futuro, al cui passato saranno poi consegnate. La “postura del ricordante” richiede una torsione della temporalità, tornare e insieme esserci, essere là ed essere qui, procedere verso il futuro, con la memoria di un passato. Sono le parole che consentono questa torsione.

Ma è chiaro che tra queste figure ‘vola’ anche l’Angelus Novus di Walter Benjamin. Tratto da un’opera di Klee, l’Angelus Novus è stata riletto da Zygmut Baumann in chiave di retrotopia. Nel volume Riabitare l’Italia lo sguardo creativo al passato viene proposto in chiave positiva e non reazionaria: si parla di retroazione, retroproiezione, di tradizione come scelta di una parte di passato per il futuro, per indicare una riattivazione di processi qualitativi, in parte dismessi. In un certo senso anche l’idea di Italia reloaded del libro di Coliandro e Sacco [3].

Un bell’accumulo di metaforicità nelle pagine del libro. Non è detto che riconoscerla serva a qualche cosa, ma forse illustra un clima, apre anche a nessi diversi. Abbiamo vissuto di immagini di progresso che si sono bruciate o inaridite: la principale era ed è progresso (crescita è analoga), e nel tempo ‘futuro’, ‘avvenire’, visti sempre nella trasformazione e non nella conservazione di saperi e risorse. Metafore che hanno accompagnato la modernità fornendo ad essa una autostrada mentale. È proprio da lì che occorre ora distogliere lo sguardo, voltarsi verso la verità del percorso (la crisi del progresso, il fatto che ‘la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci’, come scrisse Pasolini). Cambiare orientamento alla forza, alla potenza delle metafore, è forse la prima mossa per aprire una possibile strada di futuro controcorrente.

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Arnold Van Gennep

Ma invertire lo sguardo significa accettare tre tempi: il primo è quello della separazione, il secondo quello del margine, il terzo quello della riaggregazione. Così in un antico libretto dei primi del ‘900  (I riti di passaggio, 1909), Arnold Van Gennep, maestro del folklore francese, ma anche etnologo di ampi orizzonti, definiva la natura e il ritmo dei riti di passaggio.

Invertire lo sguardo richiede un rito, in tre mosse: sospendere lo sguardo consueto, collocarsi in una nuova postura, guardare di nuovo con occhi nuovi. La zona delicata è quella di mezzo, dove il margine si definisce come il tempo del non più e del non ancora. Molti di noi hanno interrotto lo sguardo consueto, ma non hanno ancora affrontato la torsione, oppure sono arrivati alla torsione ma senza avere riavviato lo sguardo in una nuova direzione. In questo caso lo sguardo è metafora di pratiche sociali, significa attività, pensieri, azioni, comunicazione di essi.

Sulla base di questo ritmo ternario di Van Gennep, Ernesto De Martino aveva avviato la sua proposta di leggere i riti contadini come una risposta alla ‘crisi della presenza’. Questa era per De Martino una crisi profonda di identità, una incapacità di restare nella storia, un senso di perdita e di fine del mondo, che chiedeva dei riti di passaggio per un possibile superamento della crisi e ritorno alla vita normale. Sono temi che, riletti, mostrano l’utilità di ‘continuare a pensare’ i nostri maestri. Il margine è uno spazio-tempo (o anche uno spazio nel tempo) processuale dotato di possibilità di superamento. Una zona di mezzo che serve a ‘uscirne’.

Marge, marginale, limite, limes, soglia, limen, sono concetti accomunati posizionalmente, nel pensiero di Van Gennep, e nello sviluppo che esso ebbe in autori come Max Gluckman , e come Victor Turner.  Turner ha poi voluto vedere nella modernità lo sviluppo del tempo del limen come zona autonoma legata alla specializzazione dello spazio destinato al tempo libero, all’intrattenimento, che si stacca dal ritmo del rito triadico e diventa un campo autonomo di tempo marginale che si fa tempo desiderato e sogno di illimitate temporalità festive.

Più vicino ancora ai nostri discorsi è forse l’immagine del ‘passo indietro del torero’ che De Martino propose come propria del mondo antico, per cui nessuna azione è possibile e fondata se non è autorizzata dal passato, se non si fa il passo indietro per colpire poi in avanti. Il margine come tempo dell’imminenza dell’azione. Come passato che si fa scossa di azione presente.

fa la cosa giusta 2019

Milano, Seminario  sugli Ecomusei Fà la cosa giusta, 2019

 Resistere ed agire

Il seminario sugli ecomusei di ‘Fa la cosa giusta’ a Milano il 10 marzo del 2019 è stato un punto di incontro tra esperienze di lavoro territoriale all’interno di una fiera fatta di consumi alternativi, di artigianati, di agricolture nuove, e idee di azione locale: questa fiera ha qualcosa si particolare, tanta gente, una immagine di forte radicamento nelle ultime generazioni (FAI, Ecomusei, Simbdea). È una fiera che suggerisce l’idea di ‘alleanza’, di meticciato, di possibili diverse forme di sviluppo locale. Nel seminario Ecomusei come presidi del territorio abbiamo fatto i conti con le diverse esperienze, e lo scambio è stato utile ed abbiamo cercato di restituire qui in poche pagine, il senso della discussione avvenuta a Milano, con le parole di tanti dei protagonisti. Al centro resta la missione nuova dei musei verso il territorio e la sua partecipazione e sollecitazione. Ne parlano qui in Dialoghi  n. 38: Magri, Mondo, Saibene, Tarpino e Clemente.

Fà la cosa giusta è un bel nome, un nome che coniuga il fare. Mi è venuto il desiderio di creare l’anno prossimo uno stand dei ‘piccoli paesi’ in rete, per mostrarne azioni e progetti, proprietà e sogni in tutta la varietà della rete dei piccoli paesi: tessitura, cibo, scuola, viaggi, biodiversità, storia locale, teatro… Il mondo dei piccoli paesi è un mondo del fare, solo con il fare è possibile resistere alle previsioni iettatorie dei demografi sul futuro di essi. Così occorre fare le cose giuste.

Sono presenti anche altri comtributi in questo numero di Dialoghi Mediterranei. Gli ultimi testi di “Il centro in periferia” propongono le immagini fotografiche di Cocullo, che creano una comunicazione diversa e diretta con il lettore, qui – grazie al réportage di Luca Bertinotti (Associazione ‘9cento) – abbiamo cercato di far dialogare immagini di una festa nota, ma riletta con intensità nella dimensione più quotidiana, con parole ‘in breve’ che commentassero tenendo presente il contesto e Cocullo tra i piccoli paesi della rete. Infine si presentano esperienze del fare: da un lato la biodiversità delle lenticchie di Rascino (Settimio Adriani, Riccardo Fornari, Annalisa Lucentini, Elisa Morelli, Dario Santoni,) ma insieme una attenzione a tutto il territorio dismesso al quale si torna a guardare come possibilità ‘ricaricandolo’ nella nostra progettualità. E poi si racconta il fare dell’esperienza delle scuole marginali che in certi casi diventano esempi per agire meglio e cambiare le regole arcaiche del gioco della formazione scolastica (Pazzagli). Casi brillanti di una inversione dello sguardo già avvenuta, non da tutti accolta, ma capace di capovolgere la prospettiva dei nostri sguardi.

Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
Note
[1] P. Clemente, La postura del ricordante, Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta, in “L’Ospite ingrato”, Annuario del Centro Studi Franco Fortini, Siena, II, 1999;
[2] Edith Wharton, La collezione Rycie. Racconti italiani, Passigli editore, Firenze, 2000;
[3] C. Caliandro, P. L. Sacco, Italia reloaded. Ripartire con la cultura, Il Mulino Bologna, 2011.

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Pietro Clemente, professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale, collabora con la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014).

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