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Evoluzione narrativa

Baka, a Mbendjele pygmy, stops to make a fire in the northern forests of the Congo Republic, while another pygmy behind him holds a GPS handset

Nella foresta col GPS

di  Marcella Bardi

In una società come l’attuale nella quale si dialoga sempre meno e si chatta sempre più, dando vita a evanescenti forme di comunicazione, forti del fatto che sul più bello se non ci sta bene possiamo sempre spegnere il pc o lo smartphone, può sembrare quanto meno azzardata, se non addirittura folle, l’idea che il linguaggio in generale e l’atto narrativo in particolare possano avere funzionato da strategia adattativa propria della specie umana.

È chiaro che, a distanza di milioni di anni, i cambiamenti che il nostro ambiente di vita ha subito abbiano camuffato gli originari meccanismi di adattamento della specie. Ragion per cui stentiamo a credere che la mente umana continui a essere quella di ʺillo temporeʺ, coi suoi preadattamenti e i suoi caratteri “selvaggi”. E invece non è cambiato nulla.

Proviamo a immaginare la giornata tipo di un nostro antenato di 40.000 anni fa e sforziamoci di capire che tipo di svolta possa essere stata la produzione del linguaggio. Nel fare ciò teniamo presente che il sistema di vita entro il quale si muovevano i nostri simili era quello che si basava sull’arte venatoria. Vale a dire un regime esistenziale entro il quale la caccia non era il frutto di un’esperienza occasionale e individuale bensì di un’attività costante e di gruppo. Un sistema entro il quale relazionarsi agli altri componenti, anche solo per pianificare la caccia di domani che magari avrà luogo in un territorio poco conosciuto, diventa questione di sopravvivenza. È, dunque, in siffatto contesto che si palesa l’efficacia dell’uso del linguaggio, sia durante le fasi di pianificazione dell’impresa da compiere che in quelle successive. Nella fenomenologia venatoria, infatti, un momento fondamentale, oltre a quello della caccia in sé, è quello della distribuzione della preda, operazione che possiamo immaginare si svolgesse seduti attorno al fuoco in una situazione di sana condivisione sia del cibo che del racconto.

Alcuni studi avvalorano la tesi della presenza, nella nostra specie, di un vero e proprio istinto narrativo che farebbe della narrazione un gioco cognitivo (pregno di intersoggettività), capace di sprigionare sogni che, in fondo, altro non sono che una modalità del conoscere. Se, infatti, è vero che l’uomo è il frutto dell’attività embricata di corporeità da un lato e di complessi significati simbolici dall’altro, ecco che i racconti hanno la capacità di mettere in rapporto dialettico mondo reale e mondo mentale, realtà fisica e realtà metafisica, ontologia e gnoseologia.

Ciò significa che la propensione a narrare storie non avrebbe solo matrici di carattere culturale ma addirittura di carattere genetico, e che il manifestarsi della funzione narrativa abbia costituito uno dei momenti salienti dell’evoluzione umana. Ne sarebbero testimoni i bambini, i quali, già intorno ai tre anni di età, cominciano a raccontare storie, anche nel caso in cui nessuno ne ha mai loro raccontate. In pratica, come il gioco serve a prefigurare scenari di vita per preparare alla vita stessa, allo stesso modo il comportamento narrativo assolverebbe la medesima funzione. «Sappiamo che le menti umane sono menti narrative o letterarie, il che implica il costante tentativo di rappresentare gli eventi del loro ambiente, per quanto insignificanti, in termini di storie causali, ossia di sequenze in cui ogni evento è il risultato di un altro e introduce l’evento successivo. Ovunque la gente costruisce storie, le ascolta avidamente, l’impulso narrativo […] è radicato nella rappresentazione mentale di qualunque cosa accada intorno a noi» (Boyer 2001: 252).

In altre parole, la capacità narrativa avrebbe funzionato come un generatore di coordinate intersoggettive capace di spingere l’homo sapiens sapiens verso una direzione inedita rispetto a quella di altri esseri viventi. L’uomo col suo bisogno di abitare lo spazio, di riscoprirlo e di reinventarlo quotidianamente attraverso peculiari processi cognitivi, si sarebbe servito anche della pratica discorsiva del racconto. Nel caso specifico del cacciatore-raccoglitore di 40.000 anni fa, va da sé riconoscere nell’atto del narrare una pratica significativa al fine della trasmissione della conoscenza del territorio, della condivisione della propria esperienza, dell’esorcizzare, grazie all’uso della parola, il rischio e la paura che inevitabilmente accompagnano l’attività venatoria.

49e6db666b991b048d9b080596da5ac41-300x188Ma c’è dell’altro. Se ogni atto narrativo presuppone sempre e comunque la presenza di un interlocutore vigile che intuisca le potenzialità insite nel racconto, nel caso delle storie di caccia questo è vero a maggior ragione. Chi ascolta, infatti, non è mai solo un ricettore passivo e meno che mai lo è un cacciatore nella cui mente si attiva una sorta di spirito di emulazione, di invidia positiva che lo sprona a fare meglio del suo compagno di avventura. È a questo punto comprensibile come siffatto modo di ragionare, in un contesto di vita basato sulla caccia, divenga fondamentale ai fini della sopravvivenza.

Forse non è idea così peregrina asserire che la facoltà narrativa appartiene alla specie umana in quanto attività cognitiva efficace nei processi di strutturazione del rapporto col modo circostante e, correlativamente, col proprio sé. Saremmo “naturalmente” attratti dalle storie perché esse hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo cruciale nella vita degli individui e delle comunità. Pertanto non possiamo considerare i racconti solo un prodotto dell’intelletto finalizzato al soddisfacimento di un piacere fine a se stesso, ma dobbiamo leggerli (è proprio il caso di dirlo) come un aspetto fondamentale dell’esistenza umana, un tratto consustanziale alla evoluzione della specie.

Se narrare è il modo più efficace per connettere fra loro eventi ed elementi, in un processo di creazione del senso, l’esito di questa connessione sarà un ordinamento tanto spaziale quanto temporale di quegli elementi e di quegli eventi. Il racconto non nasce per trasmettere sapere ma per stimolare sogni, per creare spazi mentali atti a dilatare la curiosità insita nella nostra natura.

Se ogni narrazione è, in primo luogo, un intreccio di altre storie, di altri racconti, è cioè il risultato di commistione, di contaminazione, di ibridazione, allora un buon narratore, per essere davvero tale, deve avere grande dimestichezza col piacere di raccogliere e raccontare, a sua volta, storie. La trama di un racconto di caccia, nel caso specifico, ha la capacità, a partire da un’esperienza reale, di creare mappe mentali utili a orientarsi, dentro e fuori la realtà.

I racconti strutturano mappe. Le mappe strutturano mondi. Attraverso le storie è, dunque, possibile dominare la realtà, regolarla, fondarla e trasformarla in spazio vitale. Il potere ermeneutico dei racconti consiste nella loro capacità di alterare la percezione della realtà, non tanto per opporsi a essa quanto piuttosto per completarla, sì da creare nuovi mondi possibili all’interno dei quali ritrovarsi. Magari dopo essersi perduti. Grazie ai racconti è possibile accedere all’invisibile che fa parte del visibile, per dirla entro i termini di Merleau-Ponty. Grazie ai racconti è possibile accedere al “sacro”. Cos’è, del resto, il mito se non uno strumento di costruzione di un possibile senso del mondo? In questo modo, il paesaggio diventa un testo da raccontare e i sogni che si sprigionano una modalità del conoscere. Questo vale ancora oggi, a distanza di milioni di anni. Anche se ne abbiamo perso memoria.

Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Riferimenti bibliografici

Boyd, B. (2009), On the origin of stories: evolution, cognition and fiction, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge MA-London.

Boyer, P. (2001), Et l’homme crèa les dieux. Comment expliquer la religion, Edition Robert Laffont, Paris; (trad. it.), E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione, Odoya, Bologna 2010.

Bellone, E. (2008), Altre nature. Saggio sull’evoluzione culturale, Cortina, Milano.

Merleau-Ponty, M. (1964), Le visible et l’invisible, Editions Gallimard, Paris; (trad.it.), Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1969

Pennisi, A. (2003), Mente, cervello, linguaggio. Una prospettiva evoluzionista, Edas, Messina.

Shepard, P. (1973), The Tender Carnivore and the Sacred Game, Scribner, New York.

Victorri, B. (2002), Homo narrans: le role de la narration dans l’èmergence du language, Languages, 146, 112-125.

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