- Dialoghi Mediterranei - http://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Emigrazione e fobie italiane in epoca di Covid 19
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2020 @ 00:39 In Migrazioni,Società | No Comments
dialoghi antivirus
di Aldo Aledda [*]
Il fenomeno pandemico che ha investito nei mesi scorsi l’Italia ha finito, com’è noto, per incidere maggiormente sui segmenti più fragili della realtà nazionale, nel nostro caso i flussi migratori, e ciò è avvenuto in almeno due direzioni. La prima riguarda gli stranieri immigrati nel nostro Paese; la seconda i nuovi expat, ossia gli italiani emigrati più di recente all’estero o dal sud della Penisola verso le regioni del Nord Italia.
Il primo caso è posto continuamente all’attenzione dei media e al centro del dibattito politico in cui di solito ci si muove sulla base di un copione ben collaudato con punti e contrappunti ancorati a solide posizioni politiche, di destra e di sinistra. E, come al solito, la polemica si rinfocola quanto più si abbinano i flussi migratori, segnatamente quelli provenienti dall’Africa, a emergenze di altro tipo. Così se ieri il problema poteva essere quello costituito dall’importazione della delinquenza oppure dal timore dell’infiltrazione di terroristi, a tacere della sottrazione di posti di lavoro ai residenti, oggi è che gli immigrati provenienti da Paesi con strutture sanitarie fatiscenti siano i responsabili della propagazione del virus appena contenuto nel nostro Paese.
Come sempre chi paventava questi eventi ha sempre qualche exemplum su cui basarsi per imbastire la propria predica [1]. Ma non mancano altre ragioni più concrete come il fenomeno dell’immigrazione da parte dei Paesi europei (anch’essi comunque imputati di importare il coronavirus in Italia) che ha creato preoccupazioni nei settori vitali dell’economia agricola perché comprometterebbe la raccolta dei prodotti della terra e la conseguente diffusione del made in Italy [2], oppure l’assistenza familiare grazie all’attività delle cosiddette badanti.
Com’è noto il fenomeno, soprattutto nei Paesi europei, all’inizio si è articolato in due fasi: una prima fase caratterizzata da un generalizzato rientro dei migranti nel Paese di origine in coincidenza con la penetrazione del virus in Italia e una seconda, viceversa, costituita dal reingresso degli stessi in Italia quando l’emergenza pandemica toccava maggiormente il territorio di provenienza. In tutti e due i casi prese di posizioni politiche e pregiudizi ideologici hanno ispirato i decisori. E ciò nonostante sempre più alte si levino voci che invitano a considerare il fenomeno migratorio non più come un’emergenza ma piuttosto un dato strutturale della nostra realtà nazionale e quella europea, oltre che naturalmente a riconsiderarne le ricadute economiche del fenomeno nel lungo periodo (secondo studi più recenti se si consentisse ai migranti che lo desiderano di muoversi in tutto il mondo, la ricchezza mondiale ne sarebbe più che raddoppiata).
Il timore dell’invasione, con le sue colorazioni elettoralistiche, si confronta quasi esclusivamente con i temi controversi del soccorso umanitario e dell’ospitalità e mai si riesce a inserire questi fenomeni in una politica di ripopolamento del Paese, di soluzione di problemi economici (segnatamente l’invecchiamento della forza lavorativa e la crescente difficoltà a reggere in prospettiva il carico pensionistico) per una strategia che preveda ingressi mirati di forze giovani, come fanno altri Paesi al mondo [3]. Il tutto in Italia, poi, si risolve nell’elaborazione di espedienti burocratici come le cosiddette regolarizzazioni e le quote d’ingresso, studiate da un lato per assicurare le frange più timorose del Paese che “tutto si sta facendo perché nessuno entri se non ne ha diritto” e dall’altro, per riempire di compiti e competenze le già esauste strutture in cui si articola ancora il nostro Stato profondo, segnatamente le articolazioni del Ministero degli Interni [4]. Il che la dice lunga sulla considerazione di questo fenomeno a livello istituzionale per cui contano prevalentemente gli aspetti dell’ordine pubblico e meno quelli sociali ed economici.
Sul secondo caso delle migrazioni dal nostro Paese (in cui s’inseriscono parzialmente anche gli ultimi discorsi) si riflette una situazione più complessa che va districata a partire da alcune riflessioni a monte. In Italia la prima conseguenza dell’evento pandemico è stata l’accentuarsi del centralismo statale – e, in alcuni casi, anche regionale rispetto alle autonomie locali – che ha rafforzato i tratti autoritari delle istituzioni sia pure all’insegna del velleitarismo e dello scarico delle responsabilità in un quadro apparso alla gran parte dei giuristi improntato a una eccessiva produzione normativa (per certi aspetti anche confusionale). Questa situazione non poteva non riflettersi sugli italiani che facevano ritorno alle terre di origine anche in ordine alle migrazioni interne, per via di adempimenti incomprensibili, controlli superflui, autocertificazioni inutili, improbabili quarantene e, in tutti i casi, l’evidente o conclamata inadeguatezza delle strutture preposte a far fronte ai nuovi adempimenti, il tutto con una rete di trasporti e di assistenza sanitaria quasi al collasso, come hanno rivelato le cronache dei giorni più drammatici.
Secondariamente per chi rientrava ha agito da deterrente psicologico l’aspetto della spettacolarizzazione dei momenti repressivi, frutto spesso di una costante azione propagandistica, cui non erano estranei interessi politico-elettorali e soprattutto lo spettro dei sondaggi che oggi ha preso il posto dell’elezione ieri dietro l’angolo. Il martellamento mediatico, alimentando ansie e psicosi, unito alle difficoltà burocratiche, ha finito per dissuadere chi proveniva da fuori indipendentemente che fosse cittadino italiano, emigrato o immigrato, turista o semplice possessore di una seconda casa nella regione. Il risultato è stato che tanti expat hanno preferito continuare a risiedere all’estero piuttosto che avventurarsi in un Paese, quello di origine, che non si capiva bene se fosse ancora disposto ad accettarli [5].
Su questa situazione si è inserito un terzo elemento, di non minore volatilità, vale a dire quello dello scontro intergenerazionale che è andato in onda per tutto il periodo. La curva dell’incertezza anche per chi doveva rientrare dall’estero o dalla terra di emigrazione in Italia si è elevata quando si è assistito all’impegno più o meno inconsapevole delle istituzioni a dividere il Paese tra untori e unti, che, facendo leva sulle dinamiche affettive familiari, ha finito per alimentare la paura che il virus avrebbe affetto quasi esclusivamente le persone anziane, senza riflessi negativi sui giovani. Una convinzione questa che, al contrario, nelle fasi successive si è cercato e si cerca di ribaltare alimentando ancora di più la sorda lotta intergenerazionale che all’origine si era manifestata soprattutto nei comportamenti quotidiani dei più giovani inspirati all’indifferenza. L’incomprensione è esplosa con maggiore forza nelle cosiddette fasi della riapertura, quando chi si riteneva al riparo dagli effetti letali dei contagi si è mostrato per niente preoccupato per l’esposizione della popolazione più anziana. Per il resto, col rientro dei giovani dalle sedi più rinomate dell’edonismo europeo, la polemica diventa cronaca intrecciandosi con etica e politica e sullo sfondo si aggancia anche al tema della solidarietà familiare.
Su ciò va ricercato, appunto, il primo legame. Chi si occupa dei flussi migratori sa quanto la solidarietà familiare abbia rivestito un carattere rilevante e ambivalente, pur senza giungere al “familismo amorale” di un Banfield, nella determinazione dei flussi migratori. Se da un lato i legami affettivi hanno condizionato partenze e rientri, dall’altro le sue logiche hanno prodotto e continuano a produrre in questi ultimi decenni lo smottamento della popolazione giovanile verso altre mete, soprattutto dal Mezzogiorno. Ciò è avvenuto in ragione del fatto che la famiglia tradizionale al Sud è stata spesso imputata di fare da sponda a visioni della società sponsorizzate dalle classi politiche locali, orientate all’assistenzialismo, all’ottenimento e relativa salvaguardia di posti fissi e sicuri, possibilmente pubblici, mentre scarso valore si è quasi sempre sforzata di attribuire alle aspirazioni meritocratiche dei giovani. Chi abbandonava l’Italia e, soprattutto il Meridione, anche solo per il Nord del Paese, è evidente che non si riconosceva in quegli orientamenti propri anche delle famiglie, per cui nei suoi confronti facilmente si rivolgeva il sordo risentimento di quella parte di Paese o di regione che li condivideva e che ha avuto occasione di esplodere più che mai in un momento in cui anche un certo genere di nodi sono venuti al pettine.
In quarto luogo rispetto al problema dei rientri – e domani delle future partenze o ripartenze – sullo sfondo si stagliava il carattere classista che pervadeva sempre più il Paese a mano a mano che crescevano le conseguenze della pandemia. A un certo punto, soprattutto quando apparivano evidenti gli effetti e, soprattutto, le ricadute economiche della pandemia, l’Italia è sembrata dividersi tra una maggioranza che non era in grado di reggere il confinamento e una minoranza invece sì (non a caso i principali testimonial del rimanere a casa, al pari dei grandi medici e degli alti burocrati e dei politici che in questa fase erano preposti a guidare il Paese – in gran parte passati indenni al contagio –, erano spesso esponenti del mondo dell’arte, dello spettacolo e i grandi professionisti dello sport che, al pari dei primi, spesso risiedono in ville, attici, appartamenti di lusso contro la maggior parte della popolazione che vive in gran parte ammassata in abitazioni grandi quanto la loro sala biliardo); tra questi ultimi stava anche la larga fascia di dipendenti pubblici (oltre tre milioni) che poteva agevolmente reggere la crisi posto che gli era stato appena richiesto di lavorare da casa, con stipendi che comunque correvano interi (significativamente questa situazione è stata definita un po’ provocatoriamente dal giuslavorista Ichino per chi ne ha goduto come una “vacanza” prolungata). Di fronte a una cerchia esigua di privilegiati, dunque, alla fine di tutto stava e starà ancora per chissà quanto tempo nel Paese un mondo di precari, disoccupati, cassintegrati, piccoli imprenditori e artigiani, oltre che lavoratori in nero, che non possono svolgere la loro attività perché colpiti dalle chiusure cui il governo assicura bonus, risarcimenti, indennizzi, interventi a pioggia con risorse che spera di avere e un apparato burocratico, mai riformato, che non è in grado con tutta la buona volontà di far fronte agli impegni e ai progetti.
A ciò va aggiunto che buona parte dell’emigrazione interna che dal Sud si era spostata al Nord per lavorare o studiare si è trovata senza alcun ombrello finanziario pubblico e quando, allo scoppio della pandemia, ha cercato di raggiungere le regioni di origine è andata spesso a gravare su famiglie che vivevano di sole pensioni e sussidi. A non minori difficoltà sono andati incontro gli emigrati rientrati dall’estero che, non più abituati a subire passivamente le difficoltà economiche, hanno provato a reinventarsi un’attività per continuare ad andare avanti, ma si sono trovati davanti a un tessuto economico paralizzato. Il disagio si è rivelato più acuto anche perché la gran parte degli espatriati non rientrava neanche nell’area dei possibili beneficiari dai lanci di quel helipcoter money che si desidera far volare nei cieli italiani (non si dimentichi che la richiesta di estendere il reddito di cittadinanza agli italiani che risiedono fuori dei confini non ha mai avuto seguito). Non è mancato chi abbia visto in ciò un’ulteriore discriminazione.
In questo senso il quadro dei rientri degli italiani dall’estero o da altre regioni non è stato omogeneo come pure il loro status. A parte i pochi casi di chi, grazie allo smart working, ha potuto continuare a lavorare per la propria azienda da remoto o a studiare, per gli studenti e i giovani lavoratori senza più lavoro all’estero nel caso di genitori benestanti il destino è stato diverso da chi ritrovava in patria le stesse condizioni di difficoltà anche familiare per cui era emigrato. La sfida rimane aperta per chi ha provato o prova a ipotizzare un rientro definitivo con nuove attività o startup innovative, almeno per il periodo in cui ritiene che l’economia mondiale continuerà a essere stagnante oppure dare ancora credito alla terra di origine [6].
Un ulteriore elemento che ha avuto un’influenza più diretta sulle nostre migrazioni, soprattutto interne – ma non è stato risparmiato anche chi proveniva dalle aree del mondo più colpite – è stato quello razziale, che in qualche modo si ricollega alle riflessioni fatte all’inizio. Un elemento che, peraltro, non risulta per nulla attenuato dalle conseguenze delle chiusure che, secondo lo Svimez, hanno comportato al Paese una perdita di valore aggiunto di circa 48 miliardi, su base mensile, di cui 37 al Centro Nord e 10 al Sud [7]. Esso, a parte gli immigrati tradizionali – nei cui confronti probabilmente la discriminazione si manifesterà più in là in coincidenza con l’aggravamento della condizione economica o quando il virus esploderà con più forza nei Paesi di partenza –, questa volta ha riguardato in prevalenza proprio i cittadini delle altre regioni italiane, come conseguenza di chiusure e creazioni di zone rosse.
In pratica è successo che il Sud, consideratosi sempre come oggetto di ingiustificato sprezzo da parte della parte Nord del Paese – cui peraltro alcuni polemisti attribuivano in quei giorni en passant la responsabilità storica di aver sottratto proprie risorse umane e finanziarie o più di recente di avere intercettato fondi nazionali o europei destinati alla parte inferiore dello Stivale –, finalmente aveva una ragione per proclamare di non essere da meno, precisamente quella più strettamente legata alla salute, al corpo, in ultima analisi alla “razza” e all’ambiente. Quindi, che i veneti, i lombardi, gli emiliani, i piemontesi, ecc. non scendessero nelle regioni libere dal virus contagiandone gli abitanti, questo era il messaggio che neanche più mandavano a dire i sanguigni presidenti delle regioni meridionali. Tra gli untori erano annoverati anche quei giovani e gli emigrati di un tempo stabilitisi al nord nei cui riguardi le società di origine continuavano a coltivare il rancore che si riserva a chi ha tradito la patria e la famiglia di origine che su di loro aveva speso le necessarie risorse per formarli, e a maggior ragione si sentiva tradito [8].
Poco importa che il divario economico tra il Nord e il Sud del Paese è cresciuto quando i giovani del Sud hanno smesso di emigrare al Nord Italia e nel mondo, ossia tra gli anni Settanta (quando sono cessati i grandi flussi migratori del Secondo Dopoguerra) e gli inizi del Duemila fino ai giorni nostri quando sono riprese inesorabili le partenze dal Sud verso le tradizionali destinazioni [9]. Via gli untori, proclama quindi l’attuale classe politica e dirigente del Mezzogiorno estremamente bisognosa di consenso anche a prezzo di compromettere con le sue rivalse una delle poche attività rimaste in attivo, quella turistica; in pratica si tratta della medesima classe che a suo tempo riteneva di avere dato esempio di coraggio restando e non emigrando, ma di pari anche accrescendo il divario col resto del mondo produttivo giacché i propri esponenti non avevano fatto altro che muoversi lungo il solco di una delle più deprecabili tradizioni meridionali (da essi sempre criticata in epoca giovanile) diventando essi stessi baroni universitari, primari ospedalieri protagonisti consci o inconsci dello sfascio del sistema sanitario, politici e funzionari pubblici corrotti protagonisti delle cronache giudiziarie locali.
Le immagini del presidente della Sicilia che fermava gli arrivi dei corregionali all’imbarco dei traghetti per Messina o quello della Sardegna che consentiva di imbarcarsi nell’isola solo a chi aveva ottenuto il suo personale permesso, accanto a quelle di chi effettuava i controlli dei treni a Napoli e a Bari costituiscono l’emblema di questa sorta di razzismo acuito dal risentimento ancestrale nei confronti di chi era “fuggito”. In questo paradossale circuito di risentimento e, in particolare, d’ingratitudine nei confronti dei settentrionali – molti dei quali si recavano presso le loro seconde case, grazie alle quali indirettamente apportano da anni ricchezza alle asfittiche casse dei comuni e delle piccole aziende meridionali e nei cui confronti una vera solidarietà nazionale avrebbe richiesto maggiori attenzioni posto che spostandosi attenuavano la pressione demografica in zone che risentivano del Covid anche perché eccessivamente antropizzate e inquinate –; in questa situazione, dunque, che vedeva lo Stato centrale silente o allineato con i governatori più aggressivi, si sono trovati coinvolti anche gli expat e i giovani che rientravano o dal Nord Italia o dall’estero, magari solo per vacanza o per aver perso il posto di lavoro oppure semplicemente per stare vicini ai genitori anziani molti dei quali pensavano che forse non avrebbero più visto per effetto di questa vicenda sanitaria.
L’altro obiettivo contro cui è stata caricata buona parte dell’opinione pubblica italiana, e che ha creato non poco imbarazzo nei giovani che ci credono e che l’hanno scelta come spazio in grado di ampliare le loro opportunità, è stata l’Unione Europea. Davanti a questa il governo italiano ultimamente si è presentato alzando il prezzo per aver sconfitto al proprio interno il pericolo populista dell’euroscetticismo. Ciò avveniva rafforzando minacciosamente i discorsi sulla mancata solidarietà europea difronte al pericolo, che in concreto si traduceva in richiesta di aiuti gratuiti, aumento del deficit e maggiore indebitamento. A fronte di ciò diversi Paesi del nord Europa hanno reagito, com’è noto, liquidando tali richieste come il consueto pretesto dell’Italia di fare ogni volta finanza allegra per scroccare i soldi ai cosiddetti Paesi frugali (oggi con la pandemia, ieri con i migranti, avantieri con il terrorismo, ecc. ecc.). I media italiani soprattutto in questi ultimi tempi, facendo da cassa di risonanza delle dichiarazioni per lo più elettoralistiche di esponenti politici di primo piano, si sono esercitati a mettere alla gogna questi Paesi accusandoli d’insensibilità sociale ed europea col risultato che, nei sondaggi interni, la popolazione si mostrava abbastanza favorevole a chi, nella classe politica, appariva più polemico nei confronti dell’Europa, soprattutto verso quella porzione costituita dai Paesi cosiddetti “ingrati”.
A guardar bene, si tratta di realtà geografiche in cui oltretutto vive, pensiamo all’Olanda e alla Germania, un gran numero di connazionali che non trae certo beneficio dall’assunzione di simili posizioni. Tantissimi dei giovani, soprattutto chi si trovava colà per ragioni di studio, ha incontrato non poche difficoltà a rientrare in Italia, turbato da queste polemiche mentre altri, preoccupati delle conseguenze, hanno preferito continuare a restare all’estero, anche perché le strutture consolari non si sono impegnate a facilitarne il rientro, tanti voli per l’Italia sono stati cancellati oppure i costi dei biglietti resi proibitivi. L’impressione è che alcuni pensano di rientrare nella loro regione non sentendosi più sicuri all’estero. Qualcuno ha perso il posto di lavoro nel Nord Italia o all’estero e vede il futuro nero, anche per altre ragioni come, per esempio, in una Gran Bretagna per la Brexit. Le prospettive per tutti rimangono abbastanza incerte.
Che cosa può riservare il futuro prossimo alle ultime generazioni di emigrati? Difficile dirlo senza rilevazioni sicure. Tuttavia, una recente inchiesta Ipsos ha suonato il campanello di allarme rivelando che l’80% dei giovani italiani tra i 14 e i 35 anni è disposta a fare un’esperienza all’estero. Da questa, la storia c’insegna che molti traggono lo spunto per trattenersi e fare progetti di vita nel nuovo Paese.
Certamente non agevola le scelte il fatto che le idee di ripresa che circolano in Italia al momento siano in prevalenza assistenziali e con obiettivi generici. Anche se economicamente si vede di buon occhio un elicottero che dall’alto sparge soldi in modo che vengano impiegati a sostenere le fragili economie locali, al momento non sembra che vi sia neanche grande disponibilità di denaro fresco: gli aiuti europei non arriveranno prima dei prossimi anni e a condizione che siano fatte certe riforme che il nostro Paese prova a realizzare da decenni. La strada che ci rimane è ancora e sempre quella dell’indebitamento. Ma come si può pensare che dei giovani possano fondare il proprio futuro su un Paese il cui debito pubblico graverà sulla loro generazione e quelle successive come un macigno? Anche questa questione rimane aperta e forse anche qui va ricercata indirettamente la ragione per cui i giovani appaiono insensibili all’appello a chi li invita a rinunciare ai loro riti comunitari per non compromettere la salute di genitori e nonni. Ma davvero pensavano alla salute dei discendenti le generazioni che, dopo aver fatto il miracolo economico, ne sperperavano i frutti, magari andando in pensione ai 15 anni, sei mesi e un giorno, lasciando solo l’osso a chi succedeva?
In buona sostanza cercando di fare i facili profeti, per quanto riguarda gli esodi, se si avverano le speranze e l’ottimismo di chi ritiene che al declino seguirà la risalita a V, dal 2021 il contenimento delle uscite degli italiani, sempre che serva a qualcosa (da domandarsi anche questo), potrà essere una realtà e altrettanto il rientro di recenti expat e di figli di vecchi emigranti (più positivo del primo perché apportatore di esperienze e ricchezza); ma se questo non dovesse accadere e la ripresa fosse a L, oltre a quel po’ di ripopolamento con le nascite locali, nel futuro si potrebbe ripetere quello che è successo nei periodi più difficili della società italiana, quando maree di giovani hanno guardato altrove per realizzare i propri progetti privando il Paese d’importanti risorse; in questo caso più nolenti che volenti permetteremmo che l’Italia entri nella spirale di un’emigrazione di massa e un’immigrazione incontrollata, tutte abbandonate a se stesse – sicuramente in grado di travolgere le fragili strutture istituzionale del nostro Paese, come a suo tempo fu il movimento dei popoli dall’est e dal Nord per il più imponente e organizzato Impero romano – capace solo di accentuare risentimenti, incomprensioni, razzismo e altre fobie? Troppo poco per un Paese che l’attuale classe di governo si sforza a presentare come “grande” e i cittadini si accontenterebbero che fosse solo “migliore”.
______________________________________________________________
_______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/emigrazione-e-fobie-italiane-in-epoca-di-covid-19/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.