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Egitto: faraoni di ieri e di oggi, nazisti imboscati e diritti negati

Alessandria

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di Eugenia Parodi Giusino

Uno dei parametri per quantificare la presenza di democrazia di un Paese è il riconoscimento e il rispetto reale dei diritti umani fondamentali. Un aspetto costante dei regimi dove questi vengono negati è il ricorso alle informazioni fornite o estorte da spie e “osservatori”, tramite polizia e servizi segreti più o meno legalizzati.

Questo articolo guarda all’Egitto in quanto la morte per tortura del ricercatore italiano Giulio Regeni avvenuta al Cairo nel gennaio 2016 ha scoperchiato e reso trasparente la drammatica realtà di una dittatura dove le sparizioni, gli arresti, le torture e la morte dei cittadini ritenuti oppositori sono all’ordine del giorno. L’enorme potere di cui godono militari e polizie ha radici storiche documentate da studiosi e testimonianze fornite dalla presenza sul campo di valenti giornalisti e visitatori.

 1Spie e e controllo poliziesco

Uno dei più stimati giornalisti e reporter del secolo scorso è il polacco Ryszard Kapuściński che lavorò in Egitto per la prima volta nel 1960, presidente il colonnello Gamal Abdel Nasser e quando il Cairo era anche la capitale della Repubblica araba unita. Nel suo In viaggio con Erodoto così descrive la situazione (2007:110-11):

«Avevano tutti gli occhi e le orecchie. Qua un sorvegliante, là un guardiano, più oltre una figura immobile su una sedia a sdraio […] quelle persone non facevano niente di preciso, ma i loro occhi formavano una fitta rete di osservazioni incrociate che copriva l’intero spazio stradale, dove tutto quel che accadeva veniva tempestivamente osservato e riferito» e più avanti «Basta assoldare questi individui e dare loro la sensazione di servire a qualcosa […] l’uomo della strada asservito alla dittatura comincia a considerarsi una parte del potere, un individuo importante e significativo […] la dittatura ottiene con poca spesa, anzi quasi gratis, uno zelante e onnipresente agente segreto».

E a proposito di Nasser, guida del colpo di stato militare del 1952 che detronizzò il re Faruk e pose fine al periodo “liberale” che il Paese aveva vissuto dal 1922 al 1952:

«Per molto tempo aveva dovuto lottare contro una forte opposizione interna: da un lato i comunisti, dall’altro i Fratelli Musulmani […] Contro entrambe queste forze Nasser manteneva corpi di polizia d’ogni genere» (ibid.:109).

 Tra le moltissime pagine scritte su questo regime in vari saggi dallo storico Massimo Campanini e che riguardano questo specifico aspetto troviamo parole simili in Storia del Medio Oriente: «Di fatto, un pesante clima di sospetto e di controllo poliziesco venne a gravare: sulla società » (2006:129). Persino quando descrive il periodo politico della Rau ‒ unione di Egitto con la Siria ispirata al panarabismo di Nasser e da lui fortemente voluta ‒ lo studioso sottolinea il pugno duro esercitato dal rais egiziano, mediante una stretta vigilanza poliziesca, nei confronti della più piccola Siria, dello stesso partito Ba’th che pure lo aveva sostenuto e anche dell’esercito siriano, che venne epurato. Come capo delle Forze armate in Siria Nasser inviò un suo carissimo amico, il feldmaresciallo ‘Abd al Hakīm ‘Āmer, che aveva partecipato al golpe degli Ufficiali Liberi nel ’52 e che raggiunse la massima carica dell’esercito, Capo di Stato Maggiore. Nasser si fidava talmente di Amer che lo nominò anche vice presidente dell’Egitto, ma la misteriosa fine del maresciallo [1] è ancora da approfondire.

2Potenza dell’esercito e i nemici di Nasser

In Egitto vi è una tradizione di potere in mano ai militari risalente al periodo dei Mamelucchi, come afferma anche l’insegnante di Studi ottomani nella Istambul Bilgi University Suraya Faroqhi, nel saggio L’Impero Ottomano (2006:120-121). La studiosa, nel fare riferimento allo storico legame tra Turchia ed Egitto nel tipo di organizzazione militare, scrive:

«Mahmud II [sultano nel periodo 1808-1839, N.d.A.] adottò modelli di comportamento che gli erano stati mostrati dal governatore dell’Egitto Mehemed Alì. Questa provincia, a partire dalla conquista ottomana del 1517, era stata amministrata internamente da schiavi militari affrancati (i Mamelucchi) che controllavano il paese già dal XIII secolo».

Anche se per consolidare il suo potere Mehemed Alì fece uccidere i capi delle principali consorterie mamelucche, vi era un esercito permanente composto tramite il reclutamento di contadini egiziani e addirittura «l’esercito egiziano rappresentava l’unica forza militare potente di cui poteva disporre a quei tempi l’amministrazione centrale ottomana » (ibid.: 121). L’esercito mamelucco era talmente forte che riuscì ad impedire (battaglia di ‘Ayn Jalut, 1260) la conquista dell’Egitto da parte dei Mongoli, i quali avevano già conquistato l’odierno Iraq.

Tornando all’epoca di Nasser, Campanini, in Storia dell’Egitto, descrive come la presa di potere del rais avrebbe, ovviamente, comportato la creazione di un regime fortemente autocratico basato su un partito unico e, sopra tutti, sul presidente, anche se molte aperture sul piano sociale furono fatte. L’avversario politico più accanito furono i Fratelli Musulmani che condannavano il nazionalismo arabo e l’ateismo di Nasser.

«Nel 1966 i Fratelli organizzarono un complotto per uccidere Nasser. Il presidente rispose con la più dura delle persecuzioni e delle reprimende mai scatenate contro di loro. Qutb [2] fu impiccato; la pasionaria dell’organizzazione, Zaynab al-Ghazali, tra molti altri, fu spietatamente torturata» (2017: 203).

3La testimonianza di Zaynab al-Ghazali e la “letteratura delle carceri”

Zaynab al-Ghazali al-Jabȋlȋ è stata una fervente devota dell’Islam, militante dei Fratelli e una delle prime femministe in Egitto, naturalmente nei limiti imposti dall’Islam. Dopo un anno trascorso in carcere tra le sevizie, in un processo-farsa fu condannata a 25 anni di lavori forzati e fu però graziata dopo cinque anni, morto Nasser. L’unico suo libro tradotto in italiano si intitola Giorni della mia vita nelle prigioni del Faraone Nasser e fa parte di una vasta letteratura sviluppatasi in molti Paesi arabi con regimi autoritari, in particolare in Egitto, a partire dagli anni Sessanta, imperniata sulla repressione carceraria, gli arresti indiscriminati e immotivati, il controllo violento sulla popolazione e la onnipresenza di servizi segreti, la “letteratura delle carceri”.

In questa autobiografia l’autrice alterna la descrizione delle terribili torture subìte ciclicamente per un anno (si voleva da lei una confessione di avere cospirato e ordito complotti assieme ai Fratelli Musulmani per uccidere Nasser) con preghiere e descrizioni delle visioni e degli stati d’animo di tipo mistico vissuti in carcere. A completamento delle pesantissime accuse mosse al “tiranno”, Zaynab al Ghazali afferma anche che «In quanto a Nasser, la storia lo giudicò il 5 giugno 1967 [3], quando decise di evacuarci ( I Fratelli, N.d.A.) dalla prigione militare per incarcerarvi i suoi stessi uomini, i suoi agenti e i suoi più stretti collaboratori» (1989:145).

4Nazisti imboscati e nazisti in qualità di tecnici

Probabilmente nessuno degli scrittori e intellettuali arrestati era però a conoscenza del fatto che al Cairo in quel periodo circolavano alcuni criminali nazisti. Nel 2008 Nicholas Kulish e Souad Mekhennet due collaboratori del «New York Times» attraversano le strade della città mostrando agli abitanti una foto vecchia e rigata che ritrae il medico austriaco delle Waffen-SS Aribert Ferdinand Heim, il medico boia di Mauthausen, latitante al Cairo per quasi trenta anni, sino al 2012, anno della presunta morte. Con questo indizio riescono a trovare in uno scantinato una borsa di cuoio impolverata zeppa di documenti e corrispondenza firmata dal criminale ricercato [4] e, risalendo alla famiglia di Heim, possono ricostruire il suo percorso egiziano. Detto anche “il macellaio di Mauthausen” o “il dottor morte” durante la sua permanenza al campo di sterminio aveva torturato e ucciso deliberatamente e in modi crudeli prigionieri sani anche per compiere esperimenti.

Ma il medico austriaco non fu il solo criminale nazista a soggiornare in Egitto a quel tempo. Se Heim, presumibilmente, riuscì a nascondersi alle autorità egiziane – aveva acquisito nome e cognome arabi e si era “convertito” all’Islam  ̶ diversi ufficiali tedeschi, tra cui ex militari della Wehrmacht, (sono citati Wilhelm Voss, Ernst-Günther Gerhartz , Wilhelm Fahrmbacher) furono invece chiamati dal governo egiziano in qualità di tecnici. Kulish e Mekhennet scrivono ne Il dottor Morte:

«I tedeschi erano accolti a braccia aperte non soltanto in America Latina , dove emigrarono a frotte, ma anche in Egitto, paese che ne apprezzava le competenze e non si curava né del loro passato né della fede politica. I primi consiglieri militari tedeschi arrivarono nella capitale egiziana intorno al 1950. […] Parecchi militari del movimento Ufficiali Liberi […] avevano simpatizzato per la Germania. Speravano che una vittoria nazista ponesse fine all’influenza coloniale britannica nel loro paese. Il nuovo regime di Nasser non solo non cambiò posizione, ma arruolò un numero anche maggiore di soldati e tecnici tedeschi. Gli ex militari della Wehrmacht […] lavoravano per il Ministero della Guerra e contribuivano ad addestrare l’esercito e migliorare gli armamenti» (2014: 73-74).

Poco dopo gli autori ci riportano al tema dei servizi segreti e delle prigioni:

«Ogni tanto la stampa scriveva che ex membri delle SS e della Gestapo erano andati a ingrossare le file dei servizi segreti del Cairo e contribuivano persino alla creazione dei campi di concentramento in cui rinchiudere gli oppositori del regime di Nasser» (ibid.:74).

5Le misure contro il terrorismo islamico acuiscono le dittature

L’orientamento di Nasser seguiva un filo coerente. Simpatie dei regimi egiziani per l’Asse italo-tedesco erano stati evidenti già con il re Faruk e – riferisce Campanini ‒ anche nel giovane Anwar al-Sadat degli Ufficiali Liberi, sempre in funzione anti-inglese (Storia dell’Egitto, 2017:183). Il successore di Nasser, passato alla storia per l’incontro di pace con Israele, all’interno si trovò a dover combattere un feroce terrorismo di matrice islamica e perseguì anche lui epurazioni (dei seguaci di Nasser ma anche di personalità della cultura), giri di vite e arresti indiscriminati contro gli oppositori (Medio Oriente, 2007:175). Fu assassinato nel 1981 da un fondamentalista islamico al grido «Ho ucciso Faraone!».

Il controllo poliziesco sulla società si estese ancora con Mubarak, che, nella continua lotta al terrorismo, varò riforme costituzionali per rafforzare ulteriormente il potere esecutivo «nel mentre vengono abolite l’habeas corpus e le garanzie individuali dello stato di diritto» (ibid.: 178).

Il regime di “emergenza” in pratica non è mai finito. E mentre la famiglia e l’Italia aspetta da più di due anni di conoscere da chi e perché è stato ferocemente torturato a morte Giulio Regeni, al punto da renderlo irriconoscibile, con il generale al-Sīsī al governo la cronaca ci riporta quasi quotidianamente notizie di arresti, sparizioni e morte di cittadini egiziani di qualunque strato sociale, primi fra tutti gli attivisti nell’ambito della difesa dei diritti umani, come per i membri della Ong Ecf (Commissione per i diritti e la libertà) Amal Fathy e l’avvocato Haitham Mohammedine, arrestati, e per i legali e consulenti della famiglia Regeni Ahmad Abdallah e Ibrahim Metwally, fermato e posto agli arresti mentre si recava a Ginevra a discutere di persona di persone scomparse.

Basta esprimere un cenno di opposizione in un blog o anche scattare delle foto per un’agenzia di stampa durante un violento sgombro della polizia come è accaduto per il giovane reporter Mahmoud Abu Zeid (detto Shakwan), in prigione dal 2013 con udienze continuamente rinviate. Per lui è stata chiesta la massima pena, morte per impiccagione.

Con queste “coincidenze” è proprio difficile pensare che la morte di Giulio sia stata un caso di cui il governo egiziano ignori i particolari, le motivazioni e gli autori materiali. E, probabilmente, un elemento che nella nostra cultura è un punto di merito per un ricercatore che si reca in Egitto,ossia una certa conoscenza della lingua araba, è stato in quel regime un aggravio ai fini della sua condanna.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
Note
[1] Sulla morte di Amer, ufficialmente suicidio, è stata avanzata l’ipotesi che Nasser lo abbia costretto a suicidarsi a seguito della terribile sconfitta subìta nel 1967, durante la cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, dalle forze militari egiziane comandate appunto da Amer. Se Igor Man, prestigiosa firma de «La Stampa» e analista del Medio Oriente, in Diario Arabo aveva raccontato che «A pagare fu il maresciallo Amer, comandante supremo, un uomo bello e gentile, legato da una amicizia carnale a Nasser del quale tuttavia non condivideva la “politica dell’azzardo”. Il rais, che pure lo amava, lo fece suicidare», la storia ha tuttavia dato un giudizio negativo sull’operato del maresciallo, accusato di incompetenza e sospettato di volere organizzare un golpe. Un film egiziano del 2009, Al Rais wal Moushir (The president and the marshal) ha riaperto la controversa questione della morte alla luce della complessa relazione tra i due uomini. Familiari di Amer hanno avanzato critiche verso il racconto sostenendo che il loro congiunto è stato ucciso e riportando prove forensi.
[2] Sayyid Qutb fu uno dei massimi ideologi dell’organizzazione politico-religiosa dei Fratelli Musulmani
[3] Data di inizio della Guerra dei Sei Giorni
[4] Alla fine della guerra Heim era stato in un campo di prigionia in Francia gestito dagli americani, dove aveva esercitato la medicina e, per ironia della sorte, avuto apprezzamenti per il suo lavoro. Non risultando tra i criminali di guerra fu poi rilasciato, dopo tre anni di detenzione in vari campi, e qualche anno dopo fuggì al Cairo.
Riferimenti bibliografici
Nadia Abou el Magd, Film to explore Egyptian’s general suspicious death, in «The National World», 15-12-2009
Massimo Campanini, Storia del Medio Oriente 1798-2006, Il Mulino, Bologna 2007
Massimo Campanini, Storia dell’Egitto.Dalla conquista araba a oggi, Il Mulino, Bologna 2017
Zaynab al-Ghazali al-Jabȋlȋ, Days of my life, Hindustan Publications, 1989, trad. it. Giorni della mia vita nelle prigioni del Faraone Nasser nel sito web La Madrasa di Malika https://lamadrasadimalika.wordpress.com (consultato in maggio 2018)
Ryzard Kapuściński, In viaggio con Erodoto, Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2007
Nicholas Kulish e Souad Mekhennet, Il dottor Morte.Storia della caccia al medico boia di Mauthausen, Arnoldo Mondadori, Milano 2014
Igor Man, Diario Arabo. Tra il serio della guerra e il sacro del Corano, Bompiani 2002
Faroqhi Suraiya, L’impero ottomano, Il Mulino, Bologna 2008
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Eugenia Parodi Giusino, laureata in Filosofia, si è sempre occupata non di speculazioni ma di problematiche sociali, di ingiustizie e soprusi per motivi razziali e differenze culturali. L’analisi dei Paesi “in via di sviluppo” e il razzismo negli Usa è stato l’oggetto della sua tesi. Ha  insegnato materie letterarie ad Orano, in Algeria, e ha lavorato come redattore ed editor in diverse case editrici a Milano, Padova, Roma (Feltrinelli, Laterza, Arsenale Cooperativa editrice, Liviana, Piccin). Da qualche anno è presente come editor e autrice di articoli e recensioni nella redazione della rivista Per salvare Palermo della Fondazione omonima e in riviste on line. Vive a Palermo.
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Una risposta a Egitto: faraoni di ieri e di oggi, nazisti imboscati e diritti negati

  1. francesca candori scrive:

    Una interessante pagina di storia da meditare!

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