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Educazione sentimentale, mimesi ed empatia in Derive di Pascal Manoukian

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2017 @ 01:16 In Letture,Migrazioni | No Comments

copertinadi Annamaria Clemente

4.899, un numero a quattro cifre scomponibile in quattro migliaia, otto centinaia, nove decine e nove unità. Compito da nulla, quello della scomposizione, da classe elementare per imparare il sistema di numerazione decimale, al fine di comprendere come ogni numero abbia un valore dipendente dalla sua posizione rispetto ad altri. 4.899 è un numero che potrebbe essere indice di qualsiasi cosa, se non fosse che la cifra indica la quantità di un insieme specifico: quello dei migranti morti tra il gennaio e l’ottobre del 2016 nel tentativo di raggiungere l’Europa, secondo la stima del Rapporto sulla protezione Internazionale in Italia. Una cifra che induce la vertigine se si pensasse che il numero occulta 4.899 visi, 4.899 corpi, 4.899 paia di occhi chiusi che non si apriranno mai più. Se si pensasse, il congiuntivo nella frase è d’obbligo perché il numero è solo statistica, un modello esemplificativo, sintesi numerica e cifra riportata su un rapporto che corre da articolo in articolo, un numero che annualmente cambia in base a quelli che possono essere i capricci del destino, le burrasche in pieno mare, i desideri dei passeur. Abituati alla notizia leggiamo la cifra, assuefatti voltiamo pagina.

Assuefatto non è Pascal Manoukian, giornalista francese di origini armene in libreria con il libro Derive (2016, 66thand2land, trad. it Francesca Bononi). Reporter e scrittore dotato di una particolare sensibilità, Manoukian ha dedicato la vita alla narrazione, prima visiva, attraverso i numerosi reportage realizzati nella lunga carriera di corrispondente di guerra e, successivamente, attraverso la scrittura. Non ha ancora diciannove anni quando lascia la propria casa per trascorrere nove mesi in Amazzonia alla ricerca di una tribù indiana: le Macujé. Dal Rio delle Amazzoni percorrerà il mondo documentando i più sanguinosi e cruenti conflitti bellici che hanno segnato la seconda parte del Novecento: l’Iraq, l’Iran, il Vietnam, la Cambogia, il Guatemala, la Turchia, l’Afghanistan. Nel 1989 concorre alla creazione dell’agenzia di stampa e società di produzione CAPA diventandone, nel 1995, direttore editoriale. Dalle sue peregrinazioni ed esperienze nasce nel 2003 Le diable au creux de la main, un libro inedito in Italia, una raccolta di ricordi di viaggio e collezione di memorie, ritratti e storie di vita di uomini e donne incontrate lungo il cammino, ma anche un libro che cerca di fare ordine e di rispondere ad alcuni interrogativi sulle proprie scelte, sulla propria individualità. Scrive:

«De tous les métiers, j’ai choisi le journalisme. De tous les journalismes celui des conflits. On m’a souvent demandé pourquoi. La réponse s’est imposée à moi au fil des mots et des images, dirigeant ma main à leur gré, au rebours de mes intentions. Je voulais raconter vingt ans de soubresauts du monde. Au fond, j’ai aussi raconté les miens. Chaque bourreau m’a renvoyé au destin de ma famille, à celui des Arméniens. C’est le manque de contours de ma propre histoire qui m’a incité à dessiner celle des autres. On ne fait jamais rien par hasard». (Le diable au creux de la main, 2013)

Nel passaggio precedente il giornalista motiva la scelta di aver dedicato la propria vita al giornalismo di guerra e nel farlo il suo pensiero correla ed interseca  le storie raccontate, i venti anni di eventi epocali, con un altre storie. È la storia familiare, intima e privata, ma è soprattutto la Storia del popolo armeno: « […]  Ho voluto raccontare venti anni di eventi epocali. Alla fine ho anche raccontato la mia. Ogni carnefice mi ha rinviato al destino della mia famiglia, a quello degli armeni. È la mancanza di contorni della mia storia che mi spinge a tracciare quella degli altri. Non  si è mai fatto nulla per caso».  Il bisogno documentaristico e l’istinto narrativo procedono parallelamente, alimentandosi vicendevolmente e trovando la propria radice nella consapevolezza di far parte di una violenta quanto tragica storia: quella del genocidio armeno. La coscienza di esserne erede e per questo testimone viene acquisita dall’autore gradualmente, attraverso i racconti della nonna Araxie, nata da una famiglia di contadini in una  regione orientale dell’Anatolia.

Pascal Manoukian

Pascal Manoukian

Maggiore di tre sorelle, aveva solo dieci anni quando il destino la costrinse ad abbandonare il suo Paese per mettersi in viaggio e giungere, dopo mille peregrinazioni e privazioni, a Lione [1]. Tramite i ricordi il giovane Manoukian viene formato, da una particolare educazione sentimentale, ad un singolare apprendimento di concetti e sentimenti di difficile accettazione e comprensione quali  il dolore, la paura, la perdita, l’esilio, il male dell’uomo contro l’uomo. Probabilmente tali narrazioni hanno funzionato da schermata nella mente dell’autore ovvero come sfondo esperienziale o modello stereotipico da cui attingere per riconoscere il dolore, ma non solo: la frammentarietà dei ricordi, il bisogno congenito di completezza dell’uomo spingerà il giornalista a voler raccontare per raccontarsi.

E il bisogno documentaristico non si ferma, si evolve attraverso il canale narrativo, nella certezza che le storie e la letteratura possano contrastare l’ignoranza e l’intolleranza, che la letteratura penetrando nel cervello in qualche modo la formi e la trasformi, ma soprattutto perché i libri riescono a travalicare confini e frontiere:

«Parce que comme l’a dit Nancy Huston. «En pénétrant notre cerveau, les fictions le forment et le transforment.»Il faut que la littérature s’empare de l’actualité parce que sa puissance à toucher les esprits est immense.Je crois que l’écriture peut imperméabiliser contre la bêtise et l’intolérance.C’est pour ça qu’il faut écrire sur les choses importantes. On relit rarement un article. On rouvre souvent un livre. Et puis sincèrement c’est beaucoup plus facile de passer les frontières et de traverser les déserts quand on est écrivain que quand on est journaliste».  (Olivia Phélip, 25 ottobre 2015)

E di fronte ad un’emergenza occorre munirsi di strumenti potenti e Derive è uno di questi. Ambientato nel 1992 il romanzo affronta l’argomento in una prospettiva storica, sintomo della volontà da parte dello scrittore di far comprendere il fenomeno risalendo alla radice di quelli che sono oggi i movimenti migratori.  Anno di cambiamenti epocali, il 1992 vede convergere: da una parte il crollo del comunismo per i Paesi dell’ex Unione sovietica con la conseguente instaurazione delle Repubbliche indipendenti,  dall’altra la destituzione di Siad Barre, che degenererà in uno scontro che ad oggi vede ancora la Somalia terra di fuoco e fiamme. Ma sono anche gli anni in cui faranno la comparsa i primi segni del fondamentalismo islamico, il periodi in cui alcuni Stati dell’Unione Europea daranno vita agli accordi di Schengen, il famoso trattato che regola l’abolizione delle frontiere interne tra i Paesi aderenti. Sono gli anni in cui si infrangono i sogni di migliaia di uomini e donne che vedono nell’Europa l’unica alternativa all’impossibilità di vita nelle terre affamate dalle scelte del comunismo, dal terrore instillato dalle fazioni che concorrono per il potere in Africa, ma anche dalle catastrofi naturali.

2.Sono queste le storie che portano dai loro viaggi i personaggi di Derive: Virgil, il moldavo, il bulldozer che non sente più il proprio corpo e dopo sessanta ore di viaggio stipato nel pianale di un camion, lasciandosi alle spalle una moglie e tre figli, giunge in Francia con il sogno di diventare muratore. Assan e Imam, padre e figlia, fuggono da una Mogadiscio caduta nel baratro a seguito del colpo di Stato del 1991, scappano da una Somalia abitata da «predoni e stupratori», da ragazzini- soldato «imbottiti di anfetamine, cocaina e khat, la foglia di un arbusto originario dell’Etiopia, la cui astinenza provoca la pazzia. Erano ad ogni bivio, arrampicati sui cofani, con il corpo ricoperto da amuleti che avrebbero dovuto renderli invisibili, gli occhi rossi per la droga,il kalashnikov su un fianco e un colpo in canna […] Se incrociavi il loro sguardo eri morto». Chanchal viene dal Bangladesh, da «un paese a forma di nassa sul pelo dell’acqua», che proprio come una trappola cattura i propri abitanti, esili e fragili esseri spazzati dai monsoni e da onde anomale. Quattro personaggi che si incontreranno a Villeneuve-le-roi e qui attraverso inaspettati e insospettati sodalizi tenteranno di sopravvivere ad un ambiente ostico e inospitale.

Se da una parte Manoukian vuole far comprendere il fenomeno attraverso la prospettiva storica,  dall’altro il suo impegno risulta encomiabile non solo per aver declinato la migrazione secondo diverse prospettive ma anche per aver caratterizzato a tutto tondo i personaggi.  Scopo del giornalista è quello di dare un volto ai migranti, di restituire un’anima, di trasformare la cifra in persone:

«La construction de l’histoire est romanesque. Je leur fais partager une solidarité et une amitié qui existe rarement entre réfugiés n’appartenant pas au même groupe. Dans la réalité, tous n’ont qu’un objectif, avancer sans se soucier des autres, mettre leur famille à l’abri. Dans le roman, je leur impose une solidarité et une amitié qui fait, je crois la force de l’histoire.
Ces “échoués” viennent de pays différents et tentent de fuir la guerre, la violence sans issue. Vous leur donnez un visage, une âme. Et soudain, dans l’intimité de la relation avec ces personnages, le lecteur devient leur proche au lieu de se sentir “étranger” à eux. C’est très fort. Brusquement ils ne sont plus une statistique mais des êtres de chair et de sang…. C’était mon intention. Donner un nom, un visage une histoire à des gens qui ne sont que des statistiques, que l’on ne voit qu’en masse agrippés à des trains et à des bateaux. C’est normal qu’ils fassent peur. Lire est un acte intime. On lit dans sa chambre, dans son salon. On emporte son livre en Week End, dans le train. En choisissant de mettre en avant des clandestins je les ai fait pénètrer dans cette intimité. Ils sont devenus familiers beaucoup de lesteurs. C’est cette rencontre entre gens qui ne se croisent jamais que j’ai voulu provoquer avec les échoués. Pour qu’au fil des pages Iman, Assan, Virgil, Chanchal nous s’apprivoisent, que la peur s’estompe au fur et à mesure des pages que l’on tourne. Si ce premier roman pouvait servir a ça». (Olivia Phélip, 25 ottobre 2015)

Il desiderio di donare un volto ai migranti è possibile attraverso la creazione letteraria: ad un primo livello, quello prettamente testuale, lo scrittore riesce a realizzare una congrua mimesi del mondo ricreato e il lettore ravvisa, nelle descrizioni delle situazioni narrate, omologhe  rappresentazioni della realtà. Accade così che leggendo di Chanchal e del suo peregrinare per i locali notturni in cerca di coppie a cui vendere le proprie rose e immaginando il suo sorriso triste, prontamente visualizziamo le immagini dei venditori di rose incrociati agli angoli delle vie. Analogamente la descrizione dello sgombero del campo creato nel boschetto appena fuori dalla periferia rimanda sinistramente alle immagini viste mille volte ai telegiornali, non ultime le fotografie della rimozione di Calais avvenuto lo scorso ottobre. Esperto conoscitore della materia,  costella il romanzo di temi cari alla letteratura scientifica come il presentare i clandestini come non persone, reificandoli entro il dominio della natura attraverso non solo la scelta di farli nascondere al di fuori del confine cittadino, nel bosco, ma anche il ricorso a figure retoriche quali l’analogia con il mondo animale, agli uccelli migratori, ritroviamo inoltre il collegamento cibo-casa, il configurarsi delle prime reti familiari che fungeranno da traino per chi resta in patria. Se la mera rappresentazione mimetica riesce in parte ad avvicinare il lettore al mondo dei clandestini, a inverare il desiderio dello scrittore è il risvolto extratestuale che deriva dalla lettura della relazione amicale intercorrente tra i personaggi.

Per comprendere dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a cosa accade nella mente del lettore e tentare di definire cosa sia l’empatia. Dal greco empatéia indicava il rapporto emozionale sussistente tra l’autore-cantore ed il suo pubblico; parola composta da en-, “dentro”, e phatos, sofferenza o sentimento, l’empatia è un sentire dentro, è la capacità di comprendere pienamente lo stato d’animo altrui. Lungi dall’essere semplice proiezione delle emozioni, l’empatia potrebbe essere il risultato di precisi meccanismi neurofisiologici attivi nel nostro cervello. Le neuroscienze ci informano, ormai da anni, che sono presenti in alcune aree motorie e premotorie, nell’area di Broca e nella corteccia parietale inferiore una particolare famiglia di cellule celebrali che prende il nome di neuroni specchio. Neuroni così nominati per la singolare quanto importante capacità di riflettere le azioni altrui: attivi durante l’esecuzione di atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo risulterebbero altresì coinvolti anche nel caso in cui l’atto motorio non venga realizzato in prima persona ma semplicemente osservato. L’osservazione di un conspecifico che compie un’azione o esprime un sentimento stimolerebbe difatti nell’osservatore lo stesso circuito neurale operante nel soggetto osservato, come se i neuroni specchio simulassero una sorta di imitazione interna, intracorporale, di ciò che percepiamo fuori di noi. Tale simulazione indica la presenza di un meccanismo funzionale che prende il nome di simulazione incarnata, un congegno automatico e preconscio atto alla comprensione intersoggettiva da intendersi come substrato neurale per fenomeni psicologici quali l’empatia (Cfr. Gallese, Migone,  Eagle, 2006). In questa prospettiva l’empatia, forte del sostrato neurale, potrebbe essere assunta a cognizione, strumento preferenziale per comprendere delle relazioni umane, dell’altro.

3.Accostandoci a personaggi che il buon senso vuole fittizi e irreali potremmo dubitare che il meccanismo empatico risulti operante, ma rivolgendo la nostra attenzione a quel campo di studi che unisce le scienze cognitive alla narratologia scopriamo come il nostro cervello non è in grado di scorgere una sostanziale differenza tra il racconto scritto di un’esperienza ed il viverla nella realtà, tanto che – come ha ben evidenziato Marco Caracciolo – il lettore si accosta al personaggio rivestendolo di una coscienza. Secondo Caracciolo «[…] l’attribuzione di coscienza è l’atteggiamento di base che i lettori assumono nei confronti dei personaggi finzionali, e che dipende dalla somiglianza nel modo in cui persone reali e personaggi esprimono la loro coscienza o esperienza soggettiva» (Caracciolo, 2012:156).

Nel caso di Manoukian il modo in cui il lettore si accosta ai suoi personaggi è fortemente condizionato dal modo in cui l’autore li anima; difatti inscenando forti legami di amicizia massimizza il coinvolgimento emozionale nel lettore premendolo verso l’empatia, verso la comprensione di un mondo, quello dei clandestini, che resterebbe altrimenti lontano ed oscuro.  Tutto questo è ravvisabile, per esempio, nel momento dell’incontro tra Virgil e Chanchal. Intento a fumare una sigaretta in un cantiere, il moldavo, scorto il corpo semisotterato del bangladese privo di sensi dopo essere stato pestato a sangue da un gruppo di neonazisti,  si impone di non soccorrere il ragazzo secondo la logica clandestina del pensare a se stessi, ma: «Si accucciò per raccogliere il telone. In quel momento lo sconosciuto aprì gli occhi. Virgil pensò che doveva avere più o meno l’età del suo figlio più grande. E anche lo stesso sguardo innocente. Ecco dove sta la differenza con gli gnu: i suoi cattivi propositi andarono in frantumi». Nonostante i propositi egoistici Virgil tramite un semplice atto motorio, l’apertura degli occhi, riconosce nell’altro l’essere umano e da lì il passo per entrare in relazione empatica è breve: deciderà di aiutare il giovane bangladese nonostante l’autoimposizione.

Altro momento di forte partecipazione emotiva è la descrizione relativa alla prima cena tra Virgil, Assan e Imam svolta nel boschetto dove si nascondevano: galvanizzati dalla speranza di un futuro migliore i personaggi si ritrovano dopo aver cenato a brindare e ballare. Grazie alla descrizione incalzante del ritmo e del movimento impresso al corpo di Assan, il lettore viene progressivamente coinvolto fino a raggiungere con Virgil lo svelamento di quanto sta osservando, unitamente egli stesso è invitato a partecipare alla scena mediante il riconoscimento del motivo musicale e dei riferimenti culturali inscritti nel testo:

«Assan capì che Virgil lo avevo raggiunto. Sorrise. Lo conosci pure tu?. Virgil si mise anche lui a torso nudo e gli fece eco: Hou hou hou…hou hou hou!. Certo che lo conosceva. I neri, gli ebrei, gli arabi, gli induisti, i ricchi, i poveri, i regolari, i clandestini, tutti lo conoscevano – dalle bidonville di Dacca ai villaggi appollaiati sui Carpazi. I loro corpi procedevano allo stesso ritmo, l’uno magro e martoriato, l’altro tozzo e ricurvo […]. Le loro voci divennero più forti. Gli uccelli notturni si fecero silenziosi e lasciarono il posto ai Rolling Stones. If I don’t get some shelter, I’m gonna fade away. Hou hou! Hou hou! ».

Riecheggia la voce di Mick Jagger in Gimme Shelter nella mente del lettore e la frase “Se non troverò un riparo, svanirò nel nulla”. Non svaniscono Virgil, Assan, Imam e Chanchal anzi sembrano proprio acquistare carne e sangue, uscire dalle statistiche e ballare con noi su quelle note, trovando il proprio posto non nella sintesi numerica ma nell’animo del lettore. Nell’intimità della relazione tra i personaggi il lettore diviene loro prossimo, proprio come lo scrittore si augurava nell’intervista. Comprendere il fenomeno secondo le dinamiche esteriori non accorcia le distanze psicologiche tra Noi e Loro. Pascal Monoukian suggerisce una comprensione che si attivi tramite una compartecipazione, una condivisione degli stati d’animo e del mondo interiore dell’altro che inesorabilmente rinvia al proprio mondo interiore, al proprio sistema di valori, alle paure e che avvicina il diverso rendendolo meno dissimile.

Dialoghi Mediterranei, n.23, Gennaio 2017
Note
[1] cfr. le informazioni biografiche sono consultabili al sito 100 Lives: https://auroraprize.com/fr/stories/detail/regular/8773/pascal-manoukian
Riferimenti bibliografici
Caracciolo M., Macchine esperienziali: Narrativa, cognizione e atto di lettura, tesi di dottorato di ricerca,  Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, a.a. 2012
Gallese V., Migone P.,  Eagle M. N., La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi, in “Psicoterapia e Scienze Umane”, 2006, XL, 3: 543-580, http://www.psicoterapiaescienzeumane.it
 Olivia Phélip, Les échoués Pascal Manoukian: J’ai voulu donner un visage aux migrants, 25 Ottobre 2015, http://www.viabooks.fr/article/pascal-manoukian-j-ai-voulu-donner-un-visage-aux-migrants-51758)

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Annamaria Clemente, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni.

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