C’è un affollato sciame di echi simbolici e di solenni memorie, un grumo di pensosa gravità e di ombre crepuscolari sempre più dense ai margini degli eventi che precedono la pubblicazione di questo numero e soprattutto degli avvenimenti che seguiranno. Nell’incrociarsi e sovrapporsi di cerimonie laiche e religiose la morte del papa – il rito funebre che ha convocato e radunato i rappresentanti di Stati e nazioni, e il conclave che prepara il misterioso spettacolo della successione – sembra segnare il momento liminare – una sorta di kairòs – di questo tempo mobile e incerto, di questa transizione tumultuosa e minacciosa. Una cronaca che si fa subito storia, lo snodo di una crisi irrisolta che riguarda i destini di tutti, credenti e non credenti. Alle spalle gli ottanta anni della Liberazione, l’anniversario oggi oscurato, minimizzato, perfino contestato nello sforzo costante di riscrivere le pagine della storia e della memoria collettiva.
Mai come quest’anno la retorica delle celebrazioni è stata soverchiata e soppiantata dai sentimenti di ansia, preoccupazione, trepidazione ma anche di indignazione e riprovazione per le tante reticenze e persistenti ambiguità. Le guerre aperte senza speranza di soluzioni, le stragi e i crimini consumati nel silenzio o nell’impotenza delle organizzazioni internazionali, le idee tradite o manomesse di libertà. di pace, di patria, di Occidente, i diritti piegati al primato darwiniano della forza, della potenza e della prepotenza, l’attacco alle democrazie da parte delle autocrazie, la militarizzazione del discorso pubblico e la morbosa paranoia securitaria. E l’Europa sempre più fortezza vuota e fragile e sempre meno comunità solidale e ospitale.
Di Europa discute questo numero di Dialoghi Mediterranei, dell’Europa progettata a Ventotene, di quella «idea di futuro immaginata nel tempo della catastrofe», del «sogno di una società incruenta e cooperativa», di un’Europa porosa «aperta ai flussi esterni, culturali e diasporici, curiosa, pronta allo stupore dell’altro per quanto diverso possa essere o presentarsi», di una mappa dell’Europa mediterranea «come arcipelago di relazioni e scambi». Ma anche dell’Europa che «si trova oggi al centro di una crisi non soltanto economica o geopolitica, ma profondamente culturale, simbolica ed esistenziale», priva di «un orizzonte ideale ed etico condiviso», «incapace di trovare un’anima che l’accomuni e che possa giustificare la rinunzia da parte dei singoli Stati alla loro autonomia»; un’Europa che, «in spregio e in sfregio del diritto internazionale, segna un totale rinnegamento delle proprie radici ideali e valoriali, letteralmente incenerite sull’altare del sovranismo dilagante». Un’Europa dove «trionfa l’assassinio della verità e dilaga la crisi della Democrazia».
Ci si interroga su cosa sia l’Europa «in termini identitari e nell’orizzonte concettuale della soggettività politica nel teatro del mondo», se esiste davvero «come afflato di un’anima comunitaria», quale sia il suo futuro, il suo destino mentre infuria ancora ai confini la guerra che si accompagna alla sconfitta non solo dell’universalismo dei diritti e degli stessi presupposti del Manifesto di Spinelli e Rossi ma anche della «valenza morale e giuridica del tessuto delle Costituzioni liberali come la nostra, nel rinascere del nazionalismo etnico e della repressione del dissenso intellettuale e culturale interno». E nella povertà degli ideali e nell’assenza di visioni prospettiche si fa appello all’antropologia che può offrire «una serie di strumenti indispensabili per riattivare l’immaginazione politica, contrastare derive identitarie e progettare nuove forme di coesione». E dopo Ventotene che fu «durante l’abisso della Seconda guerra mondiale, il luogo simbolico in cui si concepì un’Europa libera e unita» si auspica che un’altra piccola isola possa rappresentare il laboratorio di ispirazione della nuova Europa, la Lampedusa avamposto e frontiera dei flussi migratori, «il banco di prova dell’Europa dei diritti, dell’accoglienza, della solidarietà», attingendo da Ventotene l’eredità di un sogno politico e da Lampedusa «l’urgenza di una responsabilità concreta» per la costruzione di «un’Europa post-nazionale, solidale e visionaria».
Alla storia dell’Europa si lega la storia dell’Occidente, concetto e realtà oggi ripensati anche alla luce del disordine geopolitico provocato dall’irruzione trumpiana che ha fatto a pezzi l’asse euro-atlantico, per decenni garanzia di un certo – se pure fragile – equilibrio mondiale. Nel discorso pubblico, sembra riemergere dalla filosofia hegeliana «l’idea di un primato europeo-occidentale di civiltà che per lungo tempo ha egemonizzato la modernità», un irriducibile pregiudizio etnocentrico che sottende le Nuove Indicazioni per la Scuola dell’infanzia e del Primo ciclo di istruzione recentemente emanate dal Ministro dell’Istruzione e del Merito, su cui si ragiona in questo numero. Ritorna la presunzione coloniale di una superiorità del mondo civilizzato su società selvagge e primitive, una sorta di suprematismo bianco che si vorrebbe imporre nell’insegnamento della storia, una scienza che «solo l’Occidente conosce» rispetto ad un mondo “altro” senza cultura e senza storia: «una formula icastica (e un filo provocatoria) che apre la sezione dedicata alla didattica della storiografia, con una funzione performativa, se non addirittura mitopoietica». Nell’assenza di qualsiasi riferimento al dibattito sull’educazione interculturale «la scuola di Valditara si basa sulla promozione dei Pierini, dotati di spirito di impresa», è concepita come «luogo di celebrazione rituale di culture mitiche e pure», mentre. in una congiuntura globale che conosce la «contrapposizione tra identità ipostatizzate, armate le une contro le altre», dovrebbe farsi «spazio plurale in cui, fin dall’infanzia, studenti e studentesse possano vedere nell’incontro con l’altro il sale dell’esistenza umana». Anche su questo fronte l’antropologia – flebile voce nello scenario della politica nazionale – avrebbe da suggerire paradigmi teorici e metodologici utili alla intellegibilità critica delle dinamiche culturali nonché alla promozione di un dissenso che esiti in qualche modo nella costituzione di nuclei di resistenza attiva.
La verità è che Occidente e Oriente sono categorie nominali e convenzionali non oggettive di realtà geografiche e culturali storicamente mai del tutto separate, «due mondi, nel complesso, che in molte opportunità interagiscono e si fecondano» fino a integrarsi e a compenetrarsi anche attraverso la mediazione del Mediterraneo, del mare che nel suo perenne movimento ha unito le sponde e gli uomini nel fitto reticolo di rotte e di relazioni circolari. “Occiriente” è il neologismo coniato da Renata Pepicelli che nel suo ultimo libro osserva che nelle città oggi convivono storie e paesaggi umani e culturali plurali che non trovano riconoscimento nelle scelte politiche, ci ricorda che «ogni giorno attraversiamo in maniera inconsapevole un mondo nuovo, all’interno del quale Oriente e Occidente sono uno dentro l’altro, in cui uno diventa l’altro, in un mescolamento che sta creando qualcosa che prima non c’era. Molti dicono che è il nostro futuro, ma a ben vedere è già il nostro presente». È il mondo abitato dai nostri figli e dai figli degli immigrati per legge stranieri e italiani nei sentimenti, nelle passioni, nelle inclinazioni. Come a confermare l’anacronismo di quella stessa idea di uno Stato-nazione, etnicamente omogeneo e strettamente monoculturale, secondo il vecchio postulato romantico che allinea in una rigorosa sequenza identitaria lingua, cultura e territorio.
Intorno alla concezione di Stato e Nazione e alla loro rovinosa identificazione si articolano il libro di Michael Herzfeld e l’intervento critico di Pietro Vereni a cui lo stesso autore replica con un testo che pubblichiamo unitamente alla recensione in questo numero. Una originale formula di dialogo di grande interesse e di estrema attualità per capire quelle sfumature concettuali che spesso contribuiscono a dare senso epistemologico al lavoro degli studiosi e chiarezza ermeneutica ai lettori. Analogamente riproponiamo la stessa procedura su un altro libro e su un altro tema di non minore rilevanza nel dibattito pubblico, quello relativo al pacifismo e al riarmo. Si confrontano Neri Pollastri recensore e Andrea Cozzo autore di La non violenza oltre i pregiudizi, in una dialettica che illumina le ragioni dell’uno e dell’altro su questioni complesse politicamente ed eticamente sensibili. La pace e la guerra, nella storia e nella cronaca, sono del resto argomenti trasversali che ritroviamo in molti altri contributi presenti tra i numerosi titoli di questo denso ed elaborato sommario. Dove c’è ancora spazio per parlare dei trumpismi che assimilano il sapere e i luoghi di produzione scientifica delle conoscenze a materie e casematte da conquistare, controllare e disciplinare, da assoggettare all’unico valore che conta, quello del profitto, «l’ideale, l’idolo e l’ideologia da cui tutto promana», simbolo esso stesso evocativo e ieratico del potere.
In questa amplissima rassegna antologica, che è impossibile riassumere puntualmente nello spazio dato, ricordiamo due figure di intellettuali scomparsi recentemente, lo storico Lucio Villari e l’eclettico artista Roberto De Simone, raccontiamo il lavoro antropologico del fotografo Arturo Zavattini, e poi scopriamo – per fare solo alcuni esempi – un romanziere arabo libico di lingua italiana, le particolari pratiche rituali osservate in Tunisia nel mese sacro dell’Islam, i simboli e l’affascinante cultura figurativa dell’antica religione orientale di Mitra, le singolari forme di culto dei morti e di sincretismo culturale tra il mondo andino e quello cattolico attestate presso i Tullupampay de Chongos Bajo in Perù, il prestigio sociale e politico di cui godono in Marocco i chorfa che rappresentano una casta storicamente rispettata e onorata in quanto appartenente a una genealogia sacra, quali discendenti diretti del Profeta. Leggiamo le testimonianze dei migranti siciliani in Germania e ci accorgiamo che loro esperienze dolorose e coraggiose non sono così diverse da quelle dei tanti stranieri che oggi tentano la fortuna nel nostro Paese, il più delle volte sfruttati come braccianti nella grande filiera agroalimentare da un feroce sistema di caporalato come è documentato nella ricerca condotta in Friuli Venezia Giulia. Ma conosciamo anche le storie di Cristobal, peruviano, di Oana rumena, di Abdoulaye senegalese che, come altri immigrati giunti in Italia a bordo di una carretta del mare, si sono fatti imprenditori, chi nel campo della ristorazione, chi in quello dell’estetica o della sartoria. «Le loro imprese non si limitano a generare posti di lavoro, ma si trasformano in spazi di incontro, laboratori di innovazione e punti di connessione tra culture diverse». Istantanee di una Italia che cresce nella generale inconsapevolezza degli italiani.
Non manca in questo numero la voce preziosa dello scrittore palestinese Muin Masri che si chiede quanto possa durare nel tempo la memoria collettiva per un popolo senza patria e senza casa: «In Palestina, alla terza generazione nata al checkpoint, siamo tutti prigionieri del nostro dolore e nessuno riesce a comprendere la sofferenza dell’altro. Che storie può raccontare alla futura generazione uno chiuso sempre in gabbia? La terza generazione di uccelli in cattività che, quando la metti in libertà, non si ricorda più come si vola. Che storie possono raccontare intere generazioni cresciute senza tempo né sogni?». Altri interrogativi emergono a conclusione di una approfondita riflessione che ripercorre la storia degli studi antropologici in Italia muovendo da un recente convegno sui rapporti tra “Sinistre e Popoli” alla luce delle radicali trasformazioni degli ultimi decenni: «È possibile riprendere una prospettiva gramsciana per analizzare la società di massa anche nei suoi lati consumisti, comparando e studiando le differenze sociali e culturali? Ha ancora senso parlare di classe egemone o di una possibile ricostruzione di un’egemonia politico-culturale? È plausibile immaginare la ricomposizione di un blocco storico in cui le idee progressiste riescano a tenere insieme, da un lato, le concezioni del mondo e della vita di componenti sociali ampie e diversificate e, dall’altro, le istanze umanitarie rivolte a chi vive ai margini della comunità?».
Domande che, in quanto riguardano la politica in senso lato, il ruolo degli intellettuali, il futuro della memoria collettiva, la capacità di comprendere e interpretare i movimenti culturali che attraversano in profondità la società nella quale viviamo, possiamo e dobbiamo porci all’indomani dell’anniversario degli ottanta anni della Liberazione dal nazifascismo, sulla soglia del Primo maggio e alla vigilia di avvenimenti importanti come l’apertura del Conclave che eleggerà il nuovo pontefice e gli incerti sviluppi delle guerre in Ucraina e in Palestina. Un tornante della storia gravido di ombre inquiete e di confusi orizzonti. Una stagione politica che, nello sfidare le principali conquiste della democrazia, tende a sovvertire i principi e i valori costituzionali di fondazione civile e morale, essendo gli sconfitti del passato diventati i vincitori di oggi, coloro che si proclamano patrioti e sono nazionalisti, si dicono sovranisti e sono sostanzialmente razzisti.
«Oggi – scrive Pietro Clemente che fa parte della generazione dei figli o dei fratelli minori dei resistenti – giganteschi nodi di interesse, di violenza, di potere militare e coloniale ed esigenze profonde di liberazione si incrociano di nuovo con un clamore di parole e di immagini che ci lasciano sgomenti. Soprattutto la mia generazione, nata durante la guerra e che mai avrebbe pensato, dopo le lotte degli anni ‘60 e ‘70, che il mondo potesse tornare alla guerra, alla negazione dei trattati internazionali, alla cancellazione delle ONG, è sgomenta e fatica a credere nella possibilità di sperare. Una possibilità che, con grande energia controcorrente, ha visto protagonista Papa Francesco. Il Papa della speranza è l’intellettuale che in questi decenni, più di ogni altro al mondo, ha avuto davanti la mappa politica e sociale del pianeta e lo stato della Terra come casa comune».
“È sempre tempo di Resistenza” ha detto con sobrietà e nettezza nel suo discorso a Genova il 25 aprile scorso il Presidente Mattarella, mentre nello stesso giorno ad Ascoli Piceno le forze dell’ordine identificavano la titolare di un panificio che aveva esposto un lenzuolo con la scritta: “25 Aprile, buono come il pane, bello come l’antifascismo” e due giorni dopo a Dongo sfilavano in camicia nera e senza alcun presidio della polizia un centinaio di neofascisti che hanno reso omaggio a Mussolini e ai gerarchi della Repubblica Sociale Italiana. È proprio vero: “È sempre tempo di Resistenza”.
Nel frattempo Buon Primo Maggio!
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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