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EDITORIALE

Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2022 @ 02:55 In Editoriali | No Comments

Valle del Belice, 1970 (ph. Francesco Faeta)

Valle del Belice, 1970 (ph. Francesco Faeta)

È noto che la fotografia, quella vera, non è soltanto un’immagine, è costrutto simbolico, palinsesto di  segni, epifania di un’assenza, grumo di memorie. Nulla di statico e di inerte, dunque, perché seppure trapassati e dissolti gli uomini e le cose rappresentati continuano a vivere e a interrogarci, a testimoniare la loro esistenza oltre il tempo dato e consumato.

C’è qualcosa che assimila la fotografia posta accanto – in apertura a questo editoriale – alle suggestioni di un’icona, alla forza evocativa delle parvenze mitiche, delle figure che sfidano e tracimano l’effimero divenire. Nello scatto non ci sono solo i volti, le posture, gli sguardi delle persone fotografate. C’è anche l’occhio di chi ha fotografato, il suo punto di vista e il suo modo di ‘osservare partecipando’, perché l’autore, Francesco Faeta, non è soltanto dietro l’obiettivo ma è anche davanti, si avvicina e dialoga con quel mondo, con quell’umanità di siciliani che possiedono la filosofia disincantata della vita e della storia. «Fotografando, – scrive l’antropologo – ci si accorge delle tante cose che sono al di là dei quattro segmenti che racchiudono l’inquadratura e si è portati, dunque, a interrogarsi anche su cosa ci sia un metro più in là del lavoro, del mestiere, dell’abitudine, dell’impegno».

Siamo nella Valle del Belice, due anni dopo il sisma, e la fotografia fa parte di un repertorio di immagini che Faeta ha recuperato dal suo archivio e pubblicato in questo numero per documentare un tratto significativo dell’intenso percorso della sua ricerca antropologica, per rileggerne i contenuti e ripensarne il senso, per ritornare a riflettere su quel Mezzogiorno d’Italia lungamente dimenticato «affinché, nel processo di generale rimozione che caratterizza l’epoca contemporanea, permanga qualche ricordo di ciò che siamo stati». E l’istantanea, in particolare, che coglie gli uomini raccolti sulla soglia di una baracca – luogo riparo, sia esso bar, bottega, circolo o sezione di partito – è testimonianza del bisogno di comunità della gente nel contesto anonimo dell’eterna provvisorietà del dopo terremoto, con il cumulo di macerie ancora presenti e disseminate.

La verità è che ogni volta che i nostri occhi incontrano i loro sguardi pazienti ed eloquenti gli uomini di questa periferia del mondo tornano a vivere e a presentificare le loro attese, irrompono nel nostro tempo liminare, nella dimensione della perturbante sospensione in cui la pandemia ci ha gettati, impigliati come siamo da circa due anni in questa complessa e infida ragnatela. Così che mentre ci accingiamo a varcare la frontiera di un nuovo anno, nel ciclico rinnovarsi del calendario, non riusciamo ancora ad alzare la testa oltre l’orizzonte del presente, non riusciamo a progettare il cielo di un qualche futuro senza le ombre minacciose del virus. E in questo stato di perenne incertezza che rende impensabile perché imprevedibile quanto potrà domani accadere è maturata quella psicosi collettiva che porta una minoranza virulenta a negare ogni principio di realtà e a credere in forme inverosimili di complottismo. Ne scrivono in questo numero con accenti e approcci diversi due giovani antropologi, Dario Inglese e Nicola Martellozzo, e uno psichiatra, Alfredo Ancora.  

A pensarci bene, il negazionismo è una vena carsica che attraversa tutta la storia umana e riaffiora nel culmine delle crisi di intelligibilità della realtà, di collasso e sfilacciamento delle coordinate spaziotemporali. Da qui prendono corpo le costruzioni narrative, in forma di vere e proprio macchine mitologiche, che – scrive Inglese – «astraendosi dal concreto, spostano lo scontro politico in un altrove nascosto (ma più vero) in cui oscuri figuri tramano, ordiscono e congiurano». Da qui la risoluzione simbolica al disorientamento attraverso l’invenzione di «un teatro di marionette animate da perfidi burattinai», la fede nel teorema della cospirazione che tutto spiega, illumina e certifica. Altra mitologia, anzi una vera e propria cosmologia, è quella coagulata nel movimento QAnon di cui  Martellozzo ricostruisce con precisione la genesi e le dinamiche di diffusione. Si tratta di un fenomeno che, mutuando temi e linguaggi del millenarismo religioso, «rappresenta una forma eterodossa di teoria sociale, nel senso che propone una (sovra-)interpretazione della politica, della società e finanche della Storia». A queste narrazioni, avulse dai dati fattuali, si ispirano i negazionisti del vaccino che – spiega Ancora nel suo percorso da dentro, attento alle suggestioni e alle regressioni emotive prodotte dalle paure – strutturano «disturbi depressivi, fobie fino a vere e proprie anomalie percettive di tipo paranoico nella nostra relazione con gli altri». Così che «i vissuti individuali pur importanti diventano individualistici, nel senso che si arroccano sempre di più su posizioni autocentrate, incuranti del rapporto con gli altri. Una monade autarchica avvitata sempre di più su se stessa». 

Al Franzt Fanon psichiatra e non solo rivoluzionario si richiama Francesco Valacchi per rivendicarne l’attualità e la lungimiranza nelle sue intuizioni sui pervasivi meccanismi del colonialismo culturale che provocano alienazione e oppressione, sindromi ribadite anche nella contingenza pandemica: «mentre i malati e soprattutto i morti sono destinati a rimanere i neri, la medicina dei bianchi è spesso, piuttosto che strumento sanitario, vero e proprio braccio operativo dell’egemonia politica». E ad una attenta rilettura della storia dei totalitarismi ci invita Alberto Frasher, che individua nella crisi delle grandi certezze del nostro tempo la spinta a rivivere una sorta di nostalgia del passato. «Di quel passato dei regimi totalitari, di destra o di sinistra, che soffocarono ogni libertà nel tunnel della povertà, dell’inganno e della sottomissione». A chi parla oggi di “dittatura sanitaria” il monito di questo intellettuale albanese che ha conosciuto e sofferto le privazioni e i soprusi del regime di Enver Hoxha può forse contribuire a ricordare le esperienze del passato non lontano e a ripensare all’uso più accorto delle parole.

Nella consapevolezza che la memoria è fondamentale antidoto alle derive xenofobe del presente continua anche in questo numero la rassegna storica delle emigrazioni degli italiani all’estero. Ben tre diversi e argomentati contributi raccontano la presenza dei nostri connazionali in Germania, esito di «una “grande emigrazione”, paragonabile a quella transoceanica verificatasi alla fine dell’Ottocento». Così scrivono Bea, Pittau, Ridolfi e Pichler, mentre Tony Mazzaro approfondisce l’opera della Chiesa e dei Patronati e Laura Garavini le relazioni economiche e diplomatiche tra i due Paesi. Quest’ultima, che è vicepresidente della Commissione Affari Esteri del Senato, sostiene, con lucidità di visione e impegno di studiosa della materia, che «finché si ostacola l’immigrazione o la si tratta come un fenomeno isolato e destinato a rimanere circoscritto nel tempo e nello spazio, si rischia di sprecare un’occasione di crescita che vale per entrambe le parti. Per chi arriva. E per il Paese che accoglie». L’autrice afferma il valore eminentemente strategico che assume in questa prospettiva la cittadinanza: «Il percorso da Gastarbeiter a cittadini a pieno titolo del Paese di accoglienza consente loro di lavorare come soggetti attivi nella società di accoglienza e, allo stesso tempo, può offrire moltissimo al Paese di origine, in termini sociali, economici, di interscambio culturale e di integrazione europea. Cittadini italiani ben inseriti nella società tedesca sono i ponti ideali per favorire gli interscambi a tutti i livelli fra i due Paesi. Uno scambio che, mai come ora, si rivela cruciale». 

Di cittadinanza in Africa scrive un’altra autorevole esponente politica, attualmente vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, Emanuela Del Re che, da Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Sahel, racconta del sorprendente attivismo dei giovani che, pur in mancanza di mezzi, si aggregano in associazioni e si battono per il riconoscimento dei diritti di inclusione politica e sociale. L’autrice considera un importante obiettivo a lungo termine dell’integrazione l’introduzione del passaporto UA, ipotizzato dall’Agenda 2063, per favorire la libera circolazione dei cittadini africani nel Continente, abolendo tutti i requisiti e i visti per i viaggi all’interno. «Poiché i passaporti – scrive – non sono solo documenti di viaggio ma sono anche significanti della cittadinanza» e «i giovani africani – conclude – costituiscono una risorsa straordinaria alla cui “cittadinanza” è nostro interesse contribuire perché saranno essi a costruire il mondo futuro insieme ai nostri giovani».

La politica dell’Unione Europea non pare tuttavia coerente a questi progetti dal momento che la pratica securitaria di repressione e di criminalizzazione «pretende limitare la protezione dei diritti fondamentali delle persone migranti circondandoli con filo spinato o detenendoli in “no man’s lands” di frontiera». Di queste contraddizioni scrive Roberto Angrisani, consulente in protezione dei dati personali e diritti fondamentali per l’UE, che così annota: «Trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino ci sono circa settanta muri che separano i popoli del mondo, e l’Europa sta dando un notevole contributo a questa statistica. La distanza tra frontiere fisiche e barriere giuridiche è ancor più flagrante nel “fossato mediterraneo” dove l’Unione Europea lascia annegare le proprie responsabilità». L’unico argine a queste distorsioni e perversioni giuridiche sembrerebbe essere rappresentato dalla Corte di giustizia che gioca un ruolo determinante, anche in queste ore di crisi alla frontiera Polonia-Bielorussia, ad impedire alle autorità nazionali di «sottoporre i migranti a trattamenti disumani e degradanti oppure di separare madri e padri dai propri figli minori, in nome della “sicurezza delle frontiere”».

Nel dibattito sulla cittadinanza che Dialoghi Mediterranei ha da un anno promosso allo scopo non solo di incentivare una riflessione sul tema in generale ma anche di esercitare una pressione e una sensibilizzazione politica sulla legge di riforma, intervengono in questo numero altri studiosi. Aldo Aledda ripercorre la tradizione storica di questo istituto ambivalente che nello stesso tempo include ed esclude, fino a diventare oggi uno bieco strumento burocratico che accentua discriminazioni e ghettizzazioni. Maria Rosaria Di Giacinto, muovendo dal libro di Silvana Patriarca sui “figli della guerra”, ragiona sul razzismo e sulla anacronistica e immarcescibile concezione dell’italianità che non ammette ci siano italiani non europei e tanto meno neri. Nicola Grato ci conduce nelle aree interne di Rocca Busambra dei monti Sicani per verificare cosa davvero significhi essere cittadino in un piccolo paese senza servizi e nemmeno giovani abitanti. Qui è a rischio la democrazia attiva e l’unico mezzo per fermare la desertificazione o l’invenzione dei luoghi finti, dei cosiddetti borghi nati ad uso effimero e turistico dalle proloco, è l’integrazione dei migranti stranieri che possono portare “aria nuova” e farsi agenti protagonisti di nuovi processi di elaborazione della coscienza civica. Gianluca Serra, infine, sottolinea in questo dibattito la funzione etica e pedagogica della memoria, «risacca del tempo», dispositivo simbolico necessario perché la cittadinanza sia «spazio di diritti in opposizione a ogni declinazione identitaria che si appella a presunte appartenenze o destini».

Sulle questioni intorno a identità e integrazione dei migranti, Antonello Ciccozzi replica agli interventi registrati sul suo scritto a proposito del caso della giovane itala-pakistana Saman Abbas, per chiarire, ribadire e approfondire la tesi espressa nel n. 51 che così riassume: «la diversità valoriale di cui sono portatori i migranti non sempre si presenta come un arricchimento, essa può manifestarsi anche nella forma di un’estraneità ostile (verso le persone, i valori, le istituzioni e le norme dei luoghi d’approdo) che rivela un sentimento culturale di rifiuto, disconoscimento, disprezzo verso la società in cui si giunge, e sottende una volontà politica di chiusura etnocentrica da parte dei migranti stessi nei confronti dell’Occidente». Volendo superare la rappresentazione manichea che oscilla tra il buon migrante e il cattivo-clandestino, Ciccozzi riafferma il diritto a distinguere per capire: «se generalizzare l’altro in termini di estraneità ostile è paranoia – scrive in conclusione – è ingenuo ridurre a paranoia qualsiasi rilevamento di questa circostanza allorché l’altro non si manifesta come diversità che arricchisce».

Merita un ampio e meditato dibattito il tema della politica scolastica che in questo numero è rilanciato con forza di idee e di proposte. La scuola e l’università sono al centro dei contributi di Fabio Dei e Antonio Pioletti. Ne emerge una critica alle istituzioni scolastiche e accademiche, la denuncia dei livelli di conoscenza sempre più deficitari soprattutto nel campo delle abilità linguistiche e di scrittura, l’appello a contrastare i criteri di valutazione degli studenti e di svalutazione dei titoli di studio negli ambiti dei saperi umanistici e delle scienze sociali. Fabio Dei sviluppa la sua riflessione a partire dal libro di Ricolfi e Mastrocola, ne condivide in gran parte la tesi di fondo che attribuisce alla congerie di riforme contraddittorie volte a eliminare la selettività le cause dell’impoverimento complessivo della scuola. «Una società con una scuola cattiva o debole, non rigorosa e non selettiva, è una società meno mobile e più castale – anche se la debolezza, questo il paradosso, deriva da una malintesa spinta all’eguaglianza». Ma a differenza degli autori di Il danno scolastico l’antropologo non pensa affatto che «in ambito educativo sia stato il modello progressista e inclusivo ad esercitare una egemonia più o meno continuativa». La verità è che la scuola di oggi non è quella immaginata da Lorenzo Milani o Tullio De Mauro, né l’esito meccanico di ideologie sessantottesche, come per semplificazioni e approssimazioni si tende ad affermare.

«Un discorso sulla formazione delle nuove generazioni – scrive Antonio Pioletti – implica un’articolazione dell’analisi che includa un’attenzione rivolta sia alla condizione strutturale di asili-nido, scuole, Università, ai dati della dispersione ed elusione scolastiche, alle risorse disponibili per garantire a tutti i livelli un decente diritto allo studio, al numero dei laureati, sia ai contenuti stessi della formazione e al paradigma politico-culturale oggi dominante». Lo studioso contesta le logiche che privilegiano i Poli di cosiddetta eccellenza, il divario esistente tra i diversi livelli scolastici, tra nord e sud d’Italia, fra centri e periferie, l’iperspecializzazione come autoreferenzialità. E conclude chiamando a raccolta «le migliori energie intellettuali del Paese per concorrere a formare cittadini del mondo coscienti». Bisognerà tornare a ragionare su queste questioni che stanno a fondamento della politica culturale del nostro Paese.

“Il Centro in Periferia” si conferma anche in questo numero spazio dialogico e crocevia di idee e progetti, di storie e di memorie. In occasione del centenario della nascita di Ettore Guatelli Pietro Clemente ha convocato testimoni e studiosi a ricordarne la figura singolare e originale di contadino museografo, solitario costruttore di un unicum museale, di una straordinaria raccolta di oggetti poveri della quotidianità sapientemente immessi nella dimensione narrativa di una metamorfosi artistica. Il nome di Guatelli entra nel pantheon dei maestri, dove è già Alberto Cirese, e dove Clemente colloca anche l’illustre intellettuale tedesco che aprì nuove strade allo studio del folklore, Hermann Bausinger, nonché lo scultore artista popolare del legno di olivo, Peppe Marfarà, scomparsi entrambi di recente e ricordati rispettivamente da Nicola Squicciarino e da Vito Teti.  Presenze lontane eppure connesse nell’assenza, vite distanti che la memoria avvicina e mette in comunicazione,  figure di mondi remoti che nella genealogia spirituale diventano “antenati”, «l’equivalente simbolico della stella cometa del Natale cristiano, perché – scrive Clemente – in un certo senso orientano il percorso, illuminano le strade per raggiungere qualcosa, forse noi stessi». Della frontiera dell’ultimo viaggio e di questa comunità immaginaria che traversa il tempo e trascende la morte ha appena varcato la soglia anche l’antropologo Gianluigi Bravo, la cui scomparsa sul finire dell’anno addolora i familiari, gli amici e i colleghi, un’angoscia mitigata dalla consapevolezza che i suoi scritti di indubbio valore scientifico resteranno come «i graffiti sugli alberi, sulle rocce o sui muri di chiese» come a segnarne per sempre il passaggio.

In questo numero, che chiude un anno difficile e ne apre un altro incerto e confuso, Dialoghi Mediterranei raccoglie le pagine di tanti autori di libri, ne discute nelle numerose recensioni che sono perlopiù ampie e articolate riflessioni. Risentiamo la voce di Roberto Sottile nel volume postumo sul lessico di Sciascia, commentato con affetto dal linguista Salvatore Sgroi. Sfogliamo con Antonio Pane il denso ed ‘effervescente’ carteggio che Angelo Maria Ripellino intrattenne con il poeta ceco Vladimir Holan. Ritorniamo a chiederci con Piero Di Giorgi se esiste ancora la questione meridionale prendendo spunto dal saggio di Emanuele Felice, Perché il Sud è rimasto indietro. Ripercorriamo la genesi dell’universo secondo l’astrofisica contemporanea spiegata da Guido Tonelli ne Il grande racconto delle origini e riletta per noi da Augusto Cavadi. Ci introduciamo nella complessa fenomenologia del culto mariano accostandoci al libro di Massimo Cacciari, Generare Dio, guidati da Leo Di Simone. Riscopriamo, accompagnati da Rosario Lentini, il fascino architettonico dei marfaraggi nella narrazione che Federico Fazio propone ne I luoghi del tonno. Santa Panagia e le tonnare della Sicilia sud-orientale. Apprendiamo grazie alla cura di Amhed Somai di una interessante Antologia dei Poeti Tunisini, edita a Roma, frutto di una collaborazione tra la Federazione di scrittori italiani e l’Istituto di traduzione di Tunisi.

Di molto altro tra letture e ricerche si potrà ragionare scorrendo il sommario, che connette arti e letteratura, antropologia e storia, archeologia e fotografia. Tra i maestri fotografi Silvia Mazzucchelli traccia il profilo del siciliano Calogero Cascio, un protagonista del secondo Novecento, testimone attento e partecipe degli eventi e delle realtà umane più periferiche a cui ha guardato con passione civile e “cura” documentaria. Per Cascio fotografare è come «un atto di pietas e di sympatheia, che, una volta collocato in una trama sociale, presto diventa partecipazione politica. Fotografare significa credere al cambiamento, tanto riguardo alla trasformazione individuale, quanto alla dimensione collettiva, e il fotografo è parte del cambiamento».

A sfogliare più attentamente le pagine di questo cospicuo numero, sul mare e sulla pesca, sui laghi  e sui miti legati alle acque magiche dello Stretto, sui corallari e sui tonnaroti, il lettore troverà non pochi contributi (anche per immagini) di studio e di approfondimento. Più in generale potrà interrogarsi sul nostro rapporto con i luoghi e con gli spazi urbani e paesaggistici, sulle rappresentazioni territoriali, sulle potenzialità e criticità dell’abitare oggi in aree interne rurali e montane. Potrà trovare risposte illuminanti nelle parole del geografo Franco Farinelli che nell’intervista a Maria Rosaria La Morgia esorta a cambiare il modo di pensare e di abitare la Terra, come dire a “invertire lo sguardo”: «Uno dei primi effetti della globalizzazione è la scoperta che la gente si muove, mentre tutta la modernità si è fondata sul presupposto che il soggetto stesse fermo. Il nostro pensiero è ancora legato alla mappa, è ancora bidimensionale, invece abbiamo bisogno di pensare in termini sferici e per farlo dobbiamo tornare agli antipodi. Occorre riconcettualizzare il nostro pianeta e resettare gli elementi rimettendoli insieme in forma diversa».

Quale migliore e auspicabile viatico per l’anno nuovo che comincia senza che ancora possiamo ricominciare ad abbracciarci? Quale altro più autorevole monito può convincerci della necessità di vivere questo anomalo stato di sospensione per rovesciare la prospettiva se si vuole guadagnare un futuro che è sempre e comunque un’impresa collettiva, la coscienza e la responsabilità di un destino comune? Ha ragione Corrado Stajano che nel suo ultimo libro, Sconfitti (Il Saggiatore 2021) rilegge i fatti sanguinosi del Novecento e si chiede se il funereo contagio caduto nel secolo nuovo non sia la coda di quei tragici anni. Siamo certamente al crepuscolo di un’epoca ma forse non siamo ancora alla vigilia di una nuova rassicurante alba.

Ci lasciamo alle spalle un anno lungo e crudele con il sofferto rimpianto per la perdita di indimenticabili amici e preziosi collaboratori. Chiudiamo infine questo editoriale, in evidente affanno nel vano tentativo di riassumere i contenuti dei tanti contributi,  mentre il papa parla inascoltato di “inverno demografico”; i quotidiani raccontano dell’implosione della Libia, della cancellazione delle elezioni e dello stato di anarchia più assoluta in cui è precipitato il Paese; la radio comunica il nuovo bollettino dei contagiati unitamente a quello dei dispersi a mare nell’ennesimo naufragio nel Mediterraneo: indici, numeri e statistiche che nella fredda e ciclica reiterazione nulla dicono delle tragedie umane e della vergogna del mondo. Tutto sembra essere tristemente eguale, immoto, sospeso. Ma il rito di passaggio a cui siamo chiamati nel flusso incessante della spirale del tempo è per sua natura propiziatorio di auguri e speranze. Auguri e speranze che desideriamo condividere con tutti i collaboratori e i lettori di Dialoghi Mediterranei. Perché sia un anno finalmente nuovo e diverso!

Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022

 

 

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